DALL’ANTIPOLITICA
ALL’AUTONOMIA
DELLA TECNICA
POLITICA
di Franco Astengo
Il
ritorno sulla scena dell’ipotesi di governo Lega-M5S, ancora tutta da
verificare, ha suscitato in autorevoli commentatori l’idea che in Italia si
stia avviando un “laboratorio populista”, osservato speciale dall’UE,
giudicando i protagonisti impreparati a gestire la complessità di un Paese come
l’Italia. Una visione corrente ma, almeno a mio giudizio, semplificatoria dello
stato di cose in atto.
Per
avviare un tentativo di analisi sulla base della quale tentare una definizione
di fase partirei infatti da più lontana, dalla scaturigine cioè della
resistibile ascesa del M5S che poi è all’origine di ciò che è accaduto con le
elezioni del 4 marzo e di conseguenza di ciò che potrebbe accadere nei prossimi
mesi. In principio infatti c’è stata “l’antipolitica”.
Un’antipolitica
che, nello specifico, si è presentata in
condizioni anomale rispetto alla “classica” definizione teorica del termine. Si
è sempre previsto, infatti, che l’antipolitica si sviluppasse e si scontrasse
in una situazione di “pensiero forte”, elevando a principi-guida norme
teologiche, morali, estetiche e sopravanzando di conseguenza la tecnica
politica. Ciò non è accaduto in Italia nel corso dell’ultimo decennio: non si
era in presenza di alcun “pensiero forte” anzi ci si è trovati, da questo punto
di vista, in una fase di vera e propria decadenza e di affermazione proprio del
“pensiero debole” e la stessa antipolitica non ha espresso alcun valore morale,
estetico, teologico che affrontasse questa vera e propria deriva. Ci si è
limitati, da parte dei propugnatori di quella che appunto è stata definita
“antipolitica” a lanciare una semplice risposta polemica all’apparente
razionalismo dimostrato dall’establishment dominante.
L’establishment
dominante (sicuro interprete dell’antico motto marxiano”il governo qualunque
esso sia è sempre il comitato d’affari della borghesia”) si è curato soprattutto di svellere le
distinzioni ideologiche e presentarsi, in fin di tutti i fini, in una visione
comune del potere tra schieramenti “temperati” , accomunati dall’idea centrale
della cessione di sovranità dello “Stato Nazione”, in funzione di una
sovranazionalità, quella europea, dimostratasi però da subito assolutamente
matrigna nei confronti delle condizione materiali di vita dei cittadini. Una
sorta di super-consociativismo (altro che bipolarismo e alternanza!) quello che
ha attraversato il sistema politico italiano negli anni della grande e mai
conclusa transizione, seguita a Tangentopoli, alla caduta del Muro di Berlino,
alla stipula del trattato di Maastricht.
In
questo quadro abbiamo avuto una gestione di governo, resa ancor più aspra dalle
condizioni contingenti e punitiva verso i ceti deboli della società, che ha
finito con l’aprire le porte all’assunzione da parte degli epigoni
dell’antipolitica di una veste, questa sì decisamente populista, che ha portato
a squilibrare progressivamente il quadro definito dell’alternanza e del
bipolarismo “temperato” ridotto dentro il “cercle inn” dell’Unione Europea e
dell’Alleanza Atlantica. Tutto questo è avvenuto mentre si spegnevano gli
ultimi fuochi di quella che era stata definita come globalizzazione e si apriva
uno scenario affatto diverso sul piano planetario. Inoltre, nello specifico,
andava a mancare sul piano istituzionale la rappresentanza delle più acute
contraddizioni sociali con la pratica chiusura dei soggetti tradizionalmente
legati ai ceti in maggiore difficoltà economica e culturale.
L’antipolitica
così, affrontata questa parabola adesso cala la maschera e si sta facendo Stato,
tentando la via del governo quale compimento dell’atto formale di
identificazione con il potere. Questo fatto conferma la teoria che
l’antipolitica non segna nella storia delle idee un momento inaugurale, la
comparsa di una categoria nuova, indipendente e realmente alternativa rispetto
a quella che era considerata “politica” (da combattere).
Sta
accadendo proprio in queste ore che l’antipolitica nel suo tentativo di farsi
Stato utilizzi quegli strumenti della tecnica politica che maggiormente
contraddicono le sue origini e le stesse ragioni dell’aggregazione del consenso
che vi si è riversato attraverso il voto popolare. L’antipolitica infatti sta
usando “a tutto tondo” proprio lo “scambio politico” (al riguardo del quale si
stanno adombrate soluzioni che nemmeno al tempo del famigerato CAF) e
l’autonomia del politico intesa nel suo senso più deteriore, di totale distacco
e contrapposizione rispetto al concetto di delega insito nel meccanismo della
rappresentatività. Sarà un cozzo molto duro quello tra antipolitica e tecnica
della politica che potrebbe essere risolto attraverso una visione autoritaria
dell’agire politico come soluzione da “nodo gordiano”.
Una
soluzione funzionale al sistema di dominio capitalistico che sarà ricercata
sulla base di un rilancio di proposte già ampiamente sconfitte sul campo nel
nome dell’usurata governabilità nella crisi del modello delle cosiddette
democrazia occidentali “mature”: presidenzialismo, centralità del governo,
accentramento del potere e svuotamento finale della democrazia rappresentativa,
in un quadro complessivo di stretta autoritaria e di riduzione secca nel
rapporto politica/società in funzione del taglio del cosiddetto “eccesso di
domanda”.
Così
come era già stato tentato dalla Bicamerale del 1997, dalla proposta del centro
destra nel 2006, dalle modifiche costituzionali proposte dal PD e poi bocciate
dal referendum del 4 dicembre 2016: tutte proposte segnata dalla medesima
tensione e dalla stessa ansia: quella della ricerca del potere. L’antipolitica
oggi sta così raggiungendo la sua
sublimazione esaltandosi nella più pura delle tecniche della politica e
raggiungendo i propri, un tempo deprecati, predecessori nell’affannosa ricerca della
governabilità fino a se stessa.