2 GIUGNO:
REPUBBLICA E COSTITUZIONE
di Franco Astengo
Nonostante il grande
pasticcio che si sta comunque presentando sulla scena politica italiana credo
vadano spese ancora alcune parole per ricordare l’anniversario del 2 giugno
1946: il giorno in cui l’Italia diventò repubblica cancellando la monarchia che
l’aveva condotta alla dittatura e a due guerre mondiali, più a un’altra serie
di guerre coloniali il cui tragico ricordo non deve essere perduto. In quel
giorno, per la prima volta votarono anche le donne, furono elette deputate/i
dell’Assemblea Costituente: da quel consesso, nonostante il profilarsi di una
difficile e negativa coincidenza internazionale, scaturì la Costituzione
Repubblicana. Un testo per il quale vale ancora la pena impegnarsi per affermarlo
e difenderlo.
Due
Giugno, festa della Repubblica: in quel giorno nel 1946, nacque la Repubblica e
si crearono le premesse perché fosse elaborata, nel giro di due anni, la nostra
Costituzione. Oggi celebriamo la ricorrenza del 2 Giugno in un momento di
effettiva difficoltà per la democrazia parlamentare messa in crisi ben oltre i
termini nei quali la questione si era posta con le deformazioni costituzionali
respinte dal voto popolare il 4 dicembre 2016. Si è ancora tentato di
sperimentare, proprio in questi giorni, una sorta di “Costituzione Materiale”,
allo scopo di mutare il rapporto stabilito costituzionalmente tra
Stato/Governo/Parlamento (quest’ultimo ormai escluso da ogni qualsivoglia
capacità decisionale, dopo averne proclamato il recupero della “centralità”) in
nome di una presunta “democrazia diretta” alla quale fare riferimento in forma
totalizzante.
Vedremo
meglio, in seguito, questi aspetti assolutamente fondamentali.
Vale
la pena, allora, entrare nel merito dell'attualità di una difesa dei principi
di fondo stabiliti dalla Costituzione Repubblicana, il cui stravolgimento
potrebbe significare una pericolosa involuzione del quadro democratico. Mi
soffermerò, quindi, soprattutto su di un aspetto: quello della forma di
governo, esaminandolo sul piano teorico, dell'inserimento della forma di
governo all'interno del più ampio quadro delineato dalla forma dello Stato.
Nell'ordinamento giuridico italiano la Costituzione si colloca al vertice delle
fonti, essa si trova, cioè, in una posizione primaria rispetto a tutte le altre
leggi dello Stato quanto a forza, valore e contenuti. In essa si riassumono ,
infatti, i principi fondamentali, organizzativi e spesso anche teleologici
della comunità statale. Diverse sono, però, le accezioni attribuite dalla dottrina
al termine “costituzione”. Da un lato, con il termine “costituzione” si suole
indicare il complesso delle norme coessenziali allo Stato, per le quali, cioè,
uno Stato è quello che è in un determinato momento storico; intesa così la
costituzione si pone con lo stesso porsi dello Stato.
Secondo
Costantino Mortati la parola “costituzione”, nel suo significato più generico
“vuole designare quel carattere, o quell'insieme di caratteri, ritenuti
necessari a individuare l'intima e più propria essenza di ogni entità,
differenziandola dalle altre, e pertanto destinata ad accompagnarla in tutto il
suo ciclo di vita. Si parla così di costituzione della materia, di costituzione
della specie o dei singoli individui che entrano a comporle, sempre per
designare la qualità, elementi o parti che, esprimendone la natura sostanziale
e condizionandone il modo d'essere, rimangono costanti nel tempo, suscettibili
di variazioni solo quantitative, necessariamente contenute entro un margine, al
di là del quale verrebbe meno la stessa identità del soggetto cui si
riferiscono”.
La
nostra Costituzione, in quanto costituzione di uno Stato democratico-sociale,
si presenta come patto tra varie forze. Essa nasce, quindi, dal lavoro di
un'Assemblea Costituente che vide la presenza di tutte le forze politiche, con
un'articolazione ampia e particolarmente rappresentativa.
Il
carattere compromissorio delle disposizioni, frutto di un accordo tra parti
politiche di diversa ispirazione ideologica, è un elemento ineliminabile e
intrinseco della Costituzione Italiana (quel “margine” cui si riferiva
Mortati). Un altro carattere fondante della nostra Carta Costituzionale è
quello della “rigidità”: le norme costituzionali sono sottratte, per esplicito
dettato (articolo 138) all’abrogazione o deroga, da parte di leggi ordinarie;
la Costituzione Italiana è quindi legge prima e suprema di tutto l'ordinamento
repubblicano.
Questo
carattere di rigidità è, a un tempo, estrinseco, cioè relativo alle circostanze
eccezionali che ne hanno maturato e fatto adottare la nostra Carta fondamentale
e , insieme, intrinseco alle disposizioni che la compongono, particolarmente,
ma non solo, quella prima parte, che concerne la garanzia dei diritti
fondamentali di ogni cittadino.
Rigidità,
come abbiamo visto, non vuol dire immodificabilità assoluta: essa è, infatti,
ottenibile solo con un procedimento tutto particolare, rafforzato rispetto a
qualunque altra legge o deliberazione degli organi dello Stato. Vediamo
brevemente come si sviluppa la normativa della nostra Costituzione: la parte
prima è imposta sul criterio cosiddetto della “socialità progressiva”.
Ciò
deriva dal fatto che dal titolo primo al titolo quarto vi è un progressivo
ampliamento della persona sociale: dalla considerazione del singolo individuo,
nelle norme concernenti i rapporti civili, si passa al contesto più ampio della
famiglia e della scuola che sono contemplate nel titolo dedicato ai rapporti
etico – sociali ; infine, ancora secondo un criterio progressivo, si
disciplinano i rapporti economici e i rapporti politici. Ed è proprio la
disciplina dei rapporti politici a costituire un efficace coordinamento tra la
prima parte e la seconda, dedicata alla definizione dell'ordinamento della
Repubblica.
Ed
è questo, del rapporto tra la I e la II parte della Costituzione, il punto su
cui si colloca l'equilibrio più delicato che fu raggiunto dai Costituenti e che
è stato totalmente trascurato, sia nei tentativi di deformazione falliti nel
corso degli anni passati ma anche adesso nell’idea di imporre, come si è già
accennato, una “Costituzione Materiale” fondata su di un presunto imperativo da
“mandato popolare”.
Un
equilibrio, quello tra la prima e la II parte della Costituzione, invece da
conservare e arricchire, comunque
attaccato da modifiche già avvenute come quella relativa all’articolo 81 sul
pareggio di bilancio e al titolo IV della II parte sulle autonomie locali:
variazioni delle quali si può esprimere sicuramente un giudizio negativo. Lo
stravolgimento del rapporto tra I e II parte della Costituzione ha
rappresentato e continuerà a rappresentare l'obiettivo di coloro i quali
intendo trascinare l'equilibrio politico italiano mirando alla formazione di un
sistema del tipo di quelli che il politologo americano Colin Crouch, ha
definito da tempo come di “post-democrazia”.
Scivola
verso l’autoritarismo presidenzialista l’idea dell’ammodernamento necessario
della democrazia costituzionale: un’ipotesi che rimane in piedi nonostante il
fallimento di diversi tentativi già effettuati e ai quali ci si è già più volte
riferiti.
Conservare,
quindi, la relazione stretta tra costituzionalismo e democrazia. Il discorso su
costituzionalismo e democrazia, in questa fase di trasformazioni profonde,
traversa necessariamente diverse tematiche, dalla forma di governo alla partecipazione
politica. Il tema dei rapporti fra organi politici s’intreccia, peraltro, a
quello dei sistemi elettorali, sicuramente non dissociabile; e, insieme, al
dibattito sulla rappresentanza politica, la sua funzione, la sua natura. È un percorso a prima vista poco lineare, che
traversa luoghi diversi, tutti però rilevanti ai fini dell'obiettivo che pare
oggi fondamentale: indagare le sorti della democrazia.
Non
penso a un futuro lontano, ma all'immediato, alle forme che la democrazia verrà
assumendo in conseguenza di fattori di vario genere che già premono, alle
limitazioni che potrà ancora subire anche sul piano della “cessione di
sovranità” in termini sovranazionali: un processo che sta subendo, sia sul
piano europeo sia planetario, una battuta d’arresto della quale deve essere
tenuto conto.
Raggiungeranno,
queste limitazioni, livelli tanto elevati da consentire unicamente la
sopravvivenza della democrazia come “puro nome”? Potrà, la nostra, continuare a
definirsi una “democrazia pluralista” o assumerà decisamente la natura di una
“democrazia maggioritaria”, esercitata magari “a furor di popolo”? E
soprattutto, questa è la questione di fondo che vorrei sottoporre al vostro
giudizio, la democrazia si accompagnerà ancora ai principi del
costituzionalismo che impongono la limitazione del potere?
Questi
e altri interrogativi potrebbero riassumersi in uno solo, se lo Stato
democratico di diritto sia destinato a continuare. Il “futuro prossimo” può
incidere su entrambe le qualificazioni dello Stato.
Dallo
stato democratico, ad esempio, si potrebbe tornare a qualcosa di simile allo
Stato rappresentativo, com'era la monarchia uscita dallo Statuto Albertino;
oppure lo Stato Italiano, restando in qualche modo una democrazia (trasformata,
magari, in democrazia maggioritaria, che è stata reclamata nel corso di queste
settimane addirittura alla presenza di una formula elettorale in larga parte di
tipo proporzionale usando addirittura la formula “Terza Repubblica”) potrebbe
uscire dalla forma dello Stato di diritto.
Si
deve così cercare di rispondere anche alla domanda circa il grado di
partecipazione e di influenza del “popolo” sulle decisioni che interessano la
collettività, verificando fino a che punto tendenze recenti alla costruzione di
ibridi (attraverso manipolazioni più o meno vistose) finiscano per incidere
sulla stessa forma dello Stato. Si tratta di capire quanto l'influenza delle
mutazioni della forma di governo sulla forma di Stato attraverso alterazioni
degli elementi tipici dei suoi modelli, sposti i delicati equilibri su cui si
fonda il sistema di relazioni istituzionali in una Repubblica parlamentare come
quella voluta dai nostri Costituenti.
Si
tende, infatti, a realizzare proprio ciò che, per convinzione condivisa, è
importante evitare: che il sistema sia “utilizzabile con esclusività, e quindi
in via assoluta, da una forza sola o da un complesso organizzato più forte”.
Rivedere il punto iniziale del percorso tortuoso che ha condotto l'ordinamento
costituzionale italiano all'incerta situazione attuale, può servire per
comprendere meglio la realtà in cui viviamo, e a illuminarci circa le direzioni
del suo movimento. Nel corso degli anni'80 riprese quota il dibattito sul
Presidente della Repubblica, in particolare sulla sua elezione.
Proprio
quel dibattito sul presidenzialismo che ho trovato spazio anche nella più
recente attualità.
La
domanda è più interessante da porsi in questo momento può partire considerando
che la Presidenza della Repubblica, di per sé, non era oggetto di discussione
che, anzi (fino ad allora almeno) poteva dirsi sicuramente l'istituzione meno
soggetta a critiche. In altri tempi la proposta ricorrente era l'elezione
popolare diretta del Presidente della Repubblica che, si diceva, non solo
avrebbe così acquistato un'autorevolezza maggiore, ma sarebbe divenuto
maggiormente indipendente dai partiti.
Uno
degli obiettivi reali di queste proposte appare evidente: tentare, attraverso
l'aggancio all'elezione del Presidente della Repubblica, di semplificare il
sistema politico. Dalla necessità per i diversi partiti di aggregarsi in due
raggruppamenti ai fini dell'elezione presidenziale avrebbero potuto prendere
vita due formazioni contrapposte e, dunque, il bipolarismo e l'alternanza.
Questo risultato, sperato ma eventuale, ne avrebbe comportato dunque un altro
che era, invece, sicuro e temibile: la trasformazione del Capo dello Stato in
un leader politico contro gli schemi del sistema parlamentare, la fine del suo
ruolo neutrale e l'eliminazione della Presidenza come istituzione di garanzia.
Al di là dell'alterazione della forma di governo e delle relazioni fra gli
organi costituzionali, l'elezione diretta induce inoltre una trasformazione
sostanzialmente più grave: caricando il vincitore di una nuova forza, anche
suggestiva, alimenta il mito del “Capo” e personalizza il potere.
Ho
preso le mosse dagli anni'80 perché quelle idee nel tempo, hanno prodotto
frutti come ora ben si vede proprio nella più stretta attualità. Oggi siamo di
fronte ad un disegno più sottile di modificazione dell’insieme di relazioni
istituzionali Presidente /Governo/Parlamento tale da realizzare una “Costituzione
Materiale” fondata appunto sull’idea della “totalità” del maggioritario intesa
nel senso del presunto rispetto della “volontà del popolo”, evitando il piano
della mediazione politica attuata dai corpi intermedi sia politici (i partiti)
sia sociali (sindacati, associazioni di categoria).
Ci
troviamo così dentro ad una fase nella quale si porrà di nuovo oggettivamente
il tema presidenzialista.
Un
tema che va di pari passo con la diffusione e il consolidamento del processo di
“personalizzazione” del potere riversandosi sulle altre istituzioni
monocratiche dai Presidenti di Regione surrettiziamente definiti “Governatori”
ai Sindaci. Con le conseguenze che si sapevano, e che da molti si volevano.
Conseguenze
che già incidono sul livello di democraticità del sistema: alcuni interessi
sono rimasti senza voce, altri, pure significativamente rappresentati, senza
più forza contrattuale.
Gli
interessi forti, viceversa, sono diventati invincibili (anche, e forse
soprattutto, in sede locale). Così
si scivola nella teoria di Carl Schmitt situata agli antipodi dell’ispirazione
parlamentare della nostra Costituzione Repubblicana.
Proprio
Schmitt appare l’ispiratore principale dei principi politici che reggono la
nuova maggioranza di governo uscita dalle urne il 4 marzo 2018: Infatti, a
partire dal saggio su Il concetto del politico Schmitt è convinto che l’essenza
del politico, in netta polemica col positivismo giuridico, per il quale il
politico è definito in base al concetto di Stato, poi a sua volta definito in base
al concetto di politico, stia nella
possibilità di distinguere tra chi è amico e chi è nemico. Lo Stato organizza
gli amici e li attrezza in maniera adeguata per affrontare la minaccia
proveniente dai nemici: ben si capisce, allora, come sovrano sia chi decide su
chi è amico e chi è nemico. Tutte le decisioni politiche avvengono in questa
maniera: la decisione come tipo originario fonda sempre un ordine a partire da
una minaccia che ha una valenza intrinsecamente politica. La decisione del
sovrano avviene sempre in uno stato di eccezione (proprio come si è cercato di
far apparire proprio in questi giorni): e Schmitt rileva come il normativismo
alla Kelsen funzioni soltanto là dove c’è già una normalità dei rapporti e il
conflitto è stato risolto; infatti, non è la norma a creare la normalità, ma,
piuttosto, è la normalità a rendere possibile l’attuarsi della norma.
Ho
già sottolineato come le forma di governo normalmente considerate dagli
studiosi, anche ai fini di comparazione (parlamentare, presidenziale,
direttoriale, assembleare) sono le forme di governo compatibili, con la nostra
forma di Stato e rientrano tutti nel quadro dello Stato democratico di diritto;
i modelli conosciuti sono studiati in modo, appunto, da porre limiti al potere.
Repubblica
democratica (articolo 1 della Costituzione) è una formula che impone la
valutazione della rappresentanza prima ancora dei meccanismi diretti a rendere
blindato l'esecutivo, meccanismi di rafforzamento ammissibili solo se e fino a
che non si scontrino con il principio democratico, cardine del sistema; e
sicuramente l'elezione popolare non basta a fare di un organo monocratico un
rappresentante.
Democrazia
e rappresentanza, insieme al rispetto delle regole dello Stato di diritto,
costituiscono limiti insuperabili sui quali non è possibile cedere alcunché.
Nel
nostro Paese il disprezzo delle regole e dei limiti dello Stato di diritto è di
giorno, in giorno, più grave e frequente. Democrazia e costituzionalismo,
appaiono parimenti a rischio.
La
limitazione del potere (ossia il senso profondo dello Stato di diritto) è già
fortemente incrinata, anche per via del peso delle imposizioni sovranazionali
derivanti dai Trattati Europei, al riguardo dei quali non s’intravvede spiragli
di modificazione per l’assenza di un progetto di democratizzazione come sarebbe
indispensabile approntare. L’unico progetto in campo (e massicciamente) è
quello populisticamente distruttivo dell’estrema destra nazionalista presente
in Occidente ma al potere nei paesi del gruppo di Visegrad. Il recente esito
elettorale italiano potrebbe anche spostare questo livello di equilibrio.
Sta
venendo meno l'equilibrio complessivo, basato sul pluralismo politico e quindi
su di un sistema di differenziazione assai articolato e complesso di garanzie
pensate in rapporto ad un pluralismo interno alle altre istituzioni. Una
situazione siffatta vanifica nella sostanza gli obiettivi del
costituzionalismo, riproducendo la concentrazione del potere che esso voleva
distruggere: concentrazione di potere politico, economico e, ovviamente, del
potere d'informazione, oggi determinante. A
prescindere, infatti, da altre considerazioni, nella società delle
comunicazioni di massa e delle più elevate tecnologie a disposizione del potere
politico, l'esito totalitario viene comunque considerato uno dei rischi più
immanenti allo sviluppo della società contemporanea.
Proprio
per questo motivo ho voluto soffermarmi ,nel quadro ampio del processo
revisionistico che si è tentato di realizzare in Italia sul tema della forma di
governo invitando, infine, a considerarlo anche in una prospettiva più ampia: a
livello planetario. Infatti, situazioni complesse poste a livello delle
superpotenze aprono interrogativi inquietanti che riguardano in primo luogo la
democrazia, al punto da farci pensare che la nostra idea di resistere, qui in
Italia alla periferia dell'impero, sul nesso tra democrazia e costituzionalismo
non rappresenti, semplicemente, un piccolo gesto di provincialismo ma abbia un
significato molto più ampio. Un punto da rammentare proprio in occasione della
ricorrenza del 2 giugno 1946: il giorno nel quale il voto popolare sancì il
distacco dalla monarchia e l’avvento della Repubblica.