Il Racconto
DALLA NEVE
di Lisa Albertini
Le capre, spaventate, si
spostavano in disordine, poggiando le zampe magre e nervose sui sassi che
spuntavano tra l’erba. Una, la barbetta più lunga delle altre, segnò il terreno
con un verso noto. Le si strinsero intorno, allertate. Il motivo dello
scompiglio passò tra loro. Un uomo scarno, non molto alto, con capelli e barba
cresciuti a caso, selvaggi e arruffati, scendeva pesantemente la rupe. Vestito
di stracci s’aiutava con un bastone, suo unico bagaglio. Occhieggiava i
cespugli, radi, qua e là tra le rocce con sguardi sorpresi. Quasi li vedesse
per la prima volta e ne gustasse, meravigliato, forma e colore. Giunse più
sotto, vicino al torrente. Tuffò mani e braccia nell’acqua gelida. Ne gettò
manate sul viso, sorridendo alla frescura limpida.
Anni
in ibernazione l’avevano fermato in ogni senso. Era stata casuale dopo una mala
caduta nel crepaccio di un ghiacciaio, meta di un’escursione. Come peraltro, sempre
a caso, era uscito dal blocco di neve ghiacciata che l’aveva protetto nel suo
grembo gelido, e ora s’era sciolta completamente con il nuovo clima. Era adesso
sorpreso, per la magia della Natura che aveva intorno.
Si
fece domande, cui non sapeva rispondere. Non se ne dette pensiero, tuttavia.
Ogni cosa lo investiva con la sua novità: incredibile.
Continuò
a scendere, immerso nell’azzurro brillante di quel mattino estivo. Lo sferzava
il vento, furioso ma felice, come sempre tra le pareti dei monti sardi verso il
mare.
Cron
non si pose altri interrogativi. Proseguì la discesa; il viso scuro, scolpito
come nel fango, piccolo e dal naso camuso si rivolgeva alla scogliera, ancora
distante. Cercava di ricordare che cosa vi fosse, prima. Nessuna idea,
tuttavia, albergava in lui. Lo spazio infinito circondava i suoi pensieri. Li
proteggeva dallo stupore abbacinante che, altrimenti, li avrebbe incalzati
senza tregua.
Giunse
in basso. La prima periferia di una città si affacciava al suo sguardo. Case
piccole, abbarbicate sulle balze di terreno che ultimavano il pendio della
montagna. Erba lunga, viva che, piegata dal vento, sembrava trarne vigore e colore.
Più sotto cominciavano vicoli e strade, strette tra antichi edifici alti anche
sei piani, come nei carruggi genovesi.
Giunto
a riva s’avviò su un molo esteso per un lungo tratto. Alla fine, rivolta la
schiena verso il mare, si trovò di fronte alla città. Vide Cagliari svolgersi a
semicerchio intorno alla baia che sembrava abbracciare, con le sue vecchie case
altissime e robuste da metter soggezione, tra le vie che scendevano di colle in
colle, sino al mare. La città, che dai colli era fatta, sembrava sorridere alle
onde, al vento, alle nuvole.
Cron
ripercorse il molo e prese a passeggiare per le strade da cui si godeva, fra gli
scorci, l’intenso verdazzurro dell’acqua fra gli scogli, d’un limpido che
sembrava portar il riflesso sino a lì. Non riuscì, tuttavia, a muoversi per
proprio conto a lungo. Un vigile, mandato dai passanti, s’informò di lui. Senza
risposta.
Lo
invitò in modo pressante a salire su un’auto. Il mezzo uscì dal porto
dirigendosi, nel dedalo di vie del centro storico, verso l’altra ala della
costa. Rallentò davanti a un litorale d’acqua bassa dove un vasto gruppo di
fenicotteri snelli, ognuno in equilibrio su una sola zampa, circondato da una
leggera nuvola di piumaggio rosa, guardava verso l’infinito. Il movimento per
un poco rallentato, dell’auto, permise a Cron di cogliere l’immagine per
qualche istante. L’agente spiegò che si chiamava Stagno di Molentargius e rivolse
a Cron qualche domanda, ma l’uomo non
articolava parola. Chiudeva il viso verso il bastone d’appoggio, che anche in
auto stringeva con mano rigida.
Non
gli spiaceva d’essere accompagnato, ma non sapeva dove e da chi.
Per
lunghi anni l’aveva avvolto l’utero di neve ghiacciata, che solo da poco s’era
sciolto. Rinato, s’era sentito in animo un
tramonto di tempo indefinito, da lasciare dietro alle spalle. Mentre davanti si
apriva un’aurora confusa, surreale. Gli compariva qualche ricordo vago di case
e strade, viste in un’altra vita. Ma non altro.
L’agente
lo fece scendere. L’accolse un poliziotto, in un ufficio, per farlo entrare in
uno studio. C’erano due poltroncine, una
finestra piccola con le inferriate e, dietro alla scrivania, il Commissario. Lo
guardò a fondo, senza giudizi. Chiese ancora qualcosa. Ma a vuoto. Gli offrì un
bagno, abiti. Cron fu condotto in una stanzetta con un letto, del cibo. Si
abbuffò e prese a dormire. Il sonno fu lungo, senza sogni. Interminabile.
L’ufficio
passò alla direzione di un nuovo Commissario di polizia e, dopo il suo
pensionamento, ai successivi, uno dopo l’altro. La stanza con l’uomo che
dormiva faceva parte, ad ogni cambio, delle proprietà dell’ufficio, similmente
ai documenti in archivio. Da non rimuovere.
Ciascun
Commissario di nuova nomina vi sbirciava dentro, controllava che ogni cosa
fosse a posto, il locale venisse regolarmente arieggiato e ripulito, con cambio di lenzuola, e l’apparecchio per
nutrire l’ospite funzionasse.
Dopo
il passaggio di tre o cinque responsabili, la stanzetta con quell’uomo divenne
una sorta di pezzo storico di pregio, patrimonio della stessa sezione di
polizia in cui si trovava.
Alcuni
dei Commissari si chiedevano il perché, altri il percome. Nessuno,
tuttavia, riusciva a darsi una risposta.
Allo stesso modo di Cron quando, tempo addietro, aveva aperto gli occhi sul
mondo.
Sembrava
loro di pensare invano, nel vuoto. Si trattava di un semplice sonno. L’avevano
verificato i medici. Nemmeno uno, tuttavia, si volle assumere la responsabilità
di un risveglio provocato. Non se ne conosceva l’esito possibile, era quindi da
evitare.
Ciascun
responsabile, giunto al pensionamento, trasmetteva quest’idea al successivo. E
faceva firmare l’impegno a che fosse rispettata.
Il
giorno ultimo della prima decade di Marzo, i prati in fiore poiché Primavera,
quell’anno, si era rivelata presto mi trovai, nuovo Commissario da appena un
mese, ad attraversare la città a piedi verso l’ora di pranzo, diretto
all’ufficio dopo un sopralluogo fuori porta. Appena superata la periferia ero
rientrato nel perimetro del centro, al quartiere Castello. Stavo costeggiando
la Cittadella dei Musei, quando Incrociai per via un collega pensionato, ch’era
stato al mio posto alcuni anni prima. Mi chiese se avevo notizie del
‘dormiente’. Dissi che tutto proseguiva, al solito. Sorpreso, mi domandò se
quel mattino avessi visitato la stanzetta.
“No.”
risposi. “Perché?”
“Ho
sentito una voce che circola in città. Dicono sia sveglio. . .”
“Ma
che dici?!” mi venne da dire sconvolto, quasi rimproverandolo. Lo salutai di
fretta e corsi, letteralmente, all’ufficio.
Appena
entrato, fui investito da un:
“Ha
sentito? Venga!” del sottoposto, che nemmeno ascoltai, aprendo subito la porta
del mio studio.
Vidi,
seduto su una poltroncina davanti alla scrivania, un uomo di mezz’età, non
alto, dal naso camuso, sbarbato e sorridente, che mi accolse con un:
“Buongiorno,
Commissario!”
Risposi,
solerte e cordiale. Mi ritrovai, in breve, a conversare con una persona
entusiasta del futuro che l’attendeva. Quando gli chiesi che cosa si aspettasse,
Cron rispose che desiderava occuparsi dei fenicotteri rosa. Rammentava di
averne visti un nutrito gruppo tempo addietro, ‘quando’ non si ricordava, a
dire il vero, nell’acqua bassa vicino all’abitato. L’idea lo rendeva felice.
Per accudirli, mi disse, si sarebbe stabilito nel centro storico della città
antica, quella sarda, abbarbicata sui colli, ma da sempre abbracciata al mare.