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giovedì 7 giugno 2018


Parole e Polvere. I Taccuini di strada di Paolo Brovelli
di Mila Fiorentini
La copertina del libro

Un diario di viaggio dove l’autore quasi scompare, senza vezzi da protagonismo né il bisogno, molto diffuso tra i reporter, di far sentire la propria eccezionalità. Pennellate rapide e un ritmo veloce, che sembrano seguire il passo dell’avventura, spaziano tra i continenti. C’è l’amore, l’incantamento, il piacere della scoperta e soprattutto dell’incontro personale, senza quella smania giornalistica di raccontare per spiegare, insegnare, testimoniare. Sono taccuini di viaggio, lontani dall’idea del reportage.
Paolo Brovelli, classe 1966, è diventato noto quando una ventina d’anni fa compì un lungo viaggio a bordo di un’Ape, un mezzo che praticamente era caduto in disuso. Nella vita viaggia sempre, ogni volta che gli è possibile, tra parole e polvere, come recita il titolo del suo libro. Quando si ferma scrive e traduce da quattro lingue, imparate per passione. Nell’introduzione Claudio Visentini lo definisce un viaggiatore in senso classico, forse proprio perché nelle sue pagine non si avverte una finalità, un obiettivo ma solo il gusto del viaggio, una spinta irrefrenabile ad andare e partire. Viaggiare nel senso più alto non è solo mettere chilometri e miglia dietro e davanti a noi come può fare un qualsiasi turista catapultato in un villaggio in parti del mondo lontane che restano però troppo domestiche: quelle dei grandi alberghi delle catene e dei villaggi vacanza. Il viaggio è invece un cammino di sorprese e di incontri, di luoghi vicini ma che aprono mondi. In tal senso c’è un viaggio nella memoria. Così Paolo Brovelli accoglie il lettore in un cimitero, legato alla nonna, un viaggio della memoria per eccellenza che nella letteratura ha ispirato non pochi libri. Mi è venuto in mente a tal proposito il libro di Philippe Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen à nos jours, pubblicato dalle edizioni Seuil nel 1975, nel quale scrive mentre cadono gradualmente i tabou del sesso, salgono quelli della morte e che ai bambini non si racconta più la morte. Leggendo il libro di Brovelli si ha l’impressione che nel suo viaggiare la morte, che viene solo sfiorata, sia presente come una dimensione più familiare nei luoghi dove la modernità stenta ad imporsi. Se il viaggio è una dimensione interiore, vero è che l’autore di chilometri e miglia ne mette tanti sul suo cammino, attraversando confini che sembrano esistere solo per dare un senso al superamento, ad oltre passare le barriere. La geografia raccontata è soprattutto antropizzata, quella degli incontri con le persone, un paesaggio attraversato dalla storia, che ci riporta ad una dimensione importante, troppo spesso trascurata, che oggi ci restituisce un atlante spesso deciso e disegnato a tavolino, che rende difficile una lettura critica del mondo qual è diventato. Un altro elemento importante è quello della dimensione orale della narrazione che ci racconta nell’Asia caucasica ma che appartiene a molti paesi dove il tempo ha rallentato e dove l’incontro con l’altro diventa fonte essenziale di conoscenza. Il titolo stesso disegna l’anima del libro, parole e polvere, perché ogni racconto autentico può essere solo in prima persona con la fatica del viaggiare anche nel disagio nella polvere appunto, calpestando la terra; d’altro canto le parole sono lo strumento e l’arma di un viaggiatore per condividere e nel libro Brovelli pare affidarsi totalmente al loro potere. Per quanto esile, scritto con capitoli brevi, il libro è ricco di informazioni e ci fa andare dal Nicaragua alla Cina dall’est europeo fino alle steppe della Russia per scende nell’Africa fino all’estremo sud. Ogni luogo è un’emozione e un unicum: l’Andalusia è stata un colpo di fulmine; l’Albania è la patria dell’eroe Skanderbeg ed è un crogiuolo di religioni. In un passaggio dichiara “tutte le religioni sono albanesi”. La Grecia, invece, è un concetto materno, l’ultima Atlandide. Poi c’è Istanbul, che è l’Eurasia, il ponte con l’Oriente, la città delle tante genti o forse lo era. Ricordo che Petros Markaris, quando abbiamo partecipato insieme ad un forum di giornalisti e scrittori mediterranei a Tunisi, diceva che quando era bambino in uno stesso quartiere si parlavano anche 7 lingue diverse. Oggi tutto è mutato, probabilmente proprio a partire da quel Kemal Ataturk mitizzato perché all’origine della Turchia moderna e laica ma, aggiungo, anche del pensiero unico. E ancora sfogliando le pagine ci si trova nelle steppe dell’est “che sembrano non finire mai” e nel regno dei nomadi che tanto affascina l’autore. Fino al cuore della Persia che secondo Brovelli ha un cuore di sete, là dove il mare è sabbia. In ogni luogo Brovelli è a proprio agio, come un regista, equidistante delle emozioni che non parteggia per nessuno dei suoi personaggi, eppure in America Latina sembra avere una forte familiarità un radicamento, nei luoghi che sono punto di incrocio di popoli, nei paesaggi dominati da vulcani e nelle città nella megalopoli come San Paolo che lo scrittore considera la megalopoli per eccellenza, tanto americana nel senso più ampio del termine. Il mondo dell’Africa sembra soprattutto legato alla dimensione del villaggio e della terra, in particolare quando parla del Mali, un’immersione nella terra, nella dimensione più cruda del mondo agricolo in senso atavico, dove la dimensione della madre terra è più forte perfino del fuoco e dove l’acqua è una presenza scarsa anche perché il mare resta lontano. Eppure tutto sembra venire da qui. Un libro che si legge d’un fiato anche se molto denso, con il pregio di una grande leggerezza, quella che il giornalismo ha perso.

Paolo Brovelli  
Parole e Polvere. Taccuini di strada:
Eurasia, America e Africa 
Cierre edizioni, 2018
Pagine 168, Brossura
Euro 12,50