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martedì 31 luglio 2018

TRA POTERI OCCULTI E PROGETTI AUTORITARI
Il ricordo del 2 agosto 1980 nel momento più drammatico 
della storia della  storia repubblicana.   
di Franco Astengo


Ricordiamo la strage del 2 agosto 1980 nel momento in cui l’Italia attraversa, probabilmente, il punto più basso della sua storia repubblicana sia sotto l’aspetto della convivenza civile, con settori sociali pronti a ricevere impulsi di natura razzistica, sia sotto l’aspetto dell’espressione di cultura politica. Una società italiana sfibrata da decenni di malgoverno sembra pronta ad affidarsi ad avventure di tipo autoritario in un quadro di grande confusione politica e morale. L’Espresso in edicola in questi giorni  ricorda la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Nelle pagine del settimanale si riepilogano le principali tappe della striscia di sangue lasciata dalle “stragi di Stato” che hanno attraversato la storia d’Italia tra il 1969 e il 1980: Piazza della Fontana (17 morti), piazza della Loggia 8 morti), Peteano ( 3 morti) Bologna (85 morti).
L’articolo di Biondani e Tiziani non cita le stragi sui treni che vogliamo ricordare anche in questa sede: Italicus (12 morti) , San Benedetto Val di Sambro (16 morti, attentato verificatosi però nel Dicembre 1984 successivamente alla strage di Bologna). Sono emersi nuovi documenti rispetto a quella tragica stagione che può essere collegata a quella delle stragi mafiose del 1992 e del 1993 e alle vicende della trattativa Stato-Mafia e ai massacri di Falcone e Borsellino.
Si rafforzano ancora tre elementi sui quali la natura “duale” dello Stato italiano è rimasta opaca: la protezione da parte di agenti dei servizi segreti ai neo fascisti dei Nar; il collegamento tra rappresentanti dei servizi segreti deviati e la loggia P2 di Licio Gelli e l’attualità permanente di un pezzo di istituzioni (come sostengono i familiari delle vittime) che rema contro la verità.
Siamo alla progenie della situazione attuale nella quale si stanno, appunto, costruendo condizioni ideali per l’applicazione dei progetti che servizi segreti deviati e massoneria occulta avevano in serbo per il nostro Paese da tanto tempo e che erano sempre stati frustrati da una reattività sia sociale, sia politica che ancora il 4 dicembre 2016 aveva fornito dimostrazione di una qualche vitalità e che oggi sembra proprio essersi spenta in una confusione che appare assieme morale e culturale.
Non lasceremo però trascorrere anche questo 2 agosto 2018 senza rinnovare il ricordo della tragica strage della Stazione di Bologna: quell’esplosione tremenda, quell’orologio fermo alle 10,25 del mattino, quelle vittime ignare colpite dal fulmine nel crocevia delle vacanze. Così come non lasceremo passare questo tragico anniversario senza sottolineare ancora un’analisi che collega quella tragica stagione con la realtà odierna. Quei  fatti  ci ricordano il doppio stato, i segreti, i misteri che hanno reso vulnerabile la nostra democrazia e la stessa Costituzione Repubblicana, mai attuata fino in fondo e attaccata a più riprese.
Qualche anno fa la dichiarazione più provocatoria, a proposito di quel fatto, venne proprio da lui, dal Maestro Venerabile, da Licio Gelli in persona: “Si è trattato di un mozzicone di sigaretta, la bomba non è mai stata trovata”. Una frase che rappresenta l’impunità  del “doppio Stato” o della “tela di ragno” (come la definì Flamigni, a proposito del delitto Moro).
Il “doppio Stato” come elemento di continuità e snodo fondamentale della storia del nostro Paese.


Correva l’anno 1980, l’anno nel quale fu messa alla prova la democrazia e che si concluse con i 35 giorni alla Fiat e la marcia dei cosiddetti “quarantamila” (1980: L’anno che cambiò l’Italia, dal titolo del libro di Diego Novelli). In quel 1980 si mise in evidenza, almeno agli occhi degli osservatori più attenti ma inascoltati, non tanto il “ritorno” al terrorismo fascista (che pure si era verificato) ma l’emergere di una “teoria politica del terrorismo” che, almeno da Piazza della Fontana in avanti, aveva rappresentato uno degli elementi costitutivi della gestione del potere nel nostro Paese.
Una “teoria politica del terrorismo” che si accompagnò direttamente con una ripresa di dominio da parte del padronato che, appunto, nella vicenda FIAT spezzò la resistenza operaia in nome di una presunta “modernità” carica di sfruttamento e sopraffazione. Furono svolti alcuni tentativi di analisi in questa direzione, di collegamento tra il terrorismo stragista di evidente matrice “nera”, i servizi segreti, la massoneria occulta della quale la Loggia P2 appariva come l’espressione più evidente .
Dodici mesi dopo nel 1981, sempre per cercare di non dimenticare, fu l’anno in cui Gherardo Colombo scoprì gli elenchi di Castiglion Fibiocchi che comprendevano anche le prove del collegamento tra P2 e Mafia, attraverso logge coperte siciliane provviste anche di diramazioni nel Ponente Ligure: tanto per ricordare che, quanto alla mafia al nord, nessuno ha scoperto o sta scoprendo nulla di nuovo.
Nella lista sono rappresentate tutte le forze politiche tranne i comunisti. L'elenco dei nomi restò segreto per due mesi. I magistrati avevano mandato tutta la documentazione al presidente del Consiglio FORLANI e questi s'era ben guardato dal diffonderla. Alla fine alcuni giornalisti dentro al Parlamento, sapevano della lista giunta alla Commissione che indagava su Sindona, e da varie indiscrezioni appresero che stava per essere divulgata sui giornali con i relativi nomi.

Forlani
FORLANI il 20 maggio (la scoperta era avvenuta il 17 marzo) è costretto a rendere nota la lista di 962 presunti iscritti alla loggia P2 tra cui Longo, De Carolis, Miceli, Berlusconi, Rizzoli, Di Bella, Sindona, Calvi, Vittorio Emanuele di Savoia, Tassan Din, due generali, Lo Prete e Giudice, Maurizio Costanzo, Fabrizio Cicchito (entrambi i due si confessarono in pubblico e ammisero lo sbaglio "Sì lo confesso: sono un cretino" disse Costanzo). Franco Di Bella però dovette lasciare la carica di direttore del Corriere della Sera, e assieme a lui, altre eccellenti firme lo seguirono (Chissà perché, visto che "non c'era nulla di  male" come dissero molti iscritti, dopo, nelle varie commissioni d'indagini).Il clamore è enorme, perché nella lista sono compresi tre ministri (Foschi, Manca e Sarti), il segretario di un partito di governo (LONGO del Psdi), vari deputati, senatori, funzionari di partito, ambasciatori, sindaci, imprenditori, industriali, giornalisti, scrittori, sindacalisti, magistrati, presidenti di tribunali, questori, prefetti, commissari, segretari di ministri, personaggi di società pubbliche e una lunga lista di funzionari delle forze armate.
FORLANI non resiste allo scandalo, per aver trattenuto la lista dei nomi nel cassetto, deve dimettersi.
Il Presidente Pertini cose quell’occasione per indicare alla Presidenza del Consiglio, per la prima volta nella storia della Repubblica, un  esponente non democristiano, il segretario del PRI Giovanni Spadolini.
Altri denunciarono il fatto che, in quella direzione, non si fosse mai svolta una valutazione di fondo: il Centro di Riforma dello Stato, diretto da Pietro Ingrao, convocò un convegno su questo tema, proprio ad Arezzo; alcuni coraggiosi tentarono analisi anche in sede locale. Intanto le indagini sulla strage marcavano il passo.
Qualcuno rispose che sarebbe stata sufficiente la riforma dei servizi segreti e che una collocazione diversa della sinistra nel quadro politico (c’erano già stati il “governo delle astensioni” e la “solidarietà nazionale”) avrebbe rappresentato un’ulteriore garanzia per il successo dell’operazione di riforma che tendeva a cambiare il modo di agire d’interi pezzi dello stato. Il tarlo della “governabilità” ad ogni costo stava già corrodendo pezzi della sinistra italiana, fino a farla esplodere nel momento della cancellazione dei grandi partiti di massa, trasformati in comitati elettorali sempre più ristretti dal punto di vista del radicamento sociale. Abbiamo così assistito, da quel fatidico 2 agosto 1980, al neutralizzarsi dei tentativi, pur nobili, di aprire una pagine diversa e, invece, al realizzarsi progressivo di quel meccanismo di autoritarismo, negazione della democrazia, affermazione di poteri occulti contenuti proprio nel documento sulla “Rinascita Nazionale” elaborato nel 1975, proprio dalla Loggia P2 di Licio Gelli.
E oggi quel documento pare trovare piena e compiuta applicazione: nella realtà economico-sociale, nell’informazione, nell’architettura delle istituzioni  laddove (nonostante l’esito del referendum del 4 dicembre 2016) si sta ancora lavorando oscuramente per cancellare l’idea di repubblica parlamentare come sta avvenendo proprio in questi giorni da parte degli ideologi della nuova maggioranza di governo, verso la quale occhieggiano gli eredi di quella estrema destra che assieme alla mafia fornì all’epoca la manovalanza della strategia stragista. Serve quindi la memoria.


Dibattito
Democrazia diretta?                             
di Giuseppe Bruzzone


Ricevere certe notizie da chi in qualche modo è legato al potere come il signor Casaleggio, per cui un Parlamento, nel tempo, potrebbe essere inutile, mi sorprende un poco, ma non mi meraviglia più di tanto. Già in Francia, tempi addietro lo scrittore, saggista, Houellebecq spingeva perché i francesi cacciassero gli uomini del governo perché il governo erano loro. Erano i tempi dei primi attentati dei Jihadisti o  anche presunti tali, perché alcune azioni venivano compiute con la propria carta di identità che veniva persa sul posto. Già qualche anno fa, ai primi tempi del Movimento 5 stelle, si parlava di "democrazia del web", una persona un voto, facendo intravvedere un coinvolgimento individuale diretto alla conduzione della cosa pubblica. E non rappresentativo. Devo dire che, personalmente, ero attratto da questo nuovo modo di instaurare dei rapporti  all' interno dello Stato che poteva essere il mio o di altri. Il problema è purtroppo la superficialità, quel piacere di ritrovarsi insieme in modi effimeri, non espressione di una comune volontà nata in un contesto storico al di fuori di noi e che dovremmo fare nostro, perché altrimenti ci sarebbe "nemico". Altro che web! Anche se questo ha la sua importanza anche sociale, pubblica, potenzialmente a favore di tutti, ma deve essere guidato dalla nostra riflessione, dalle nostre scelte e non viceversa.
Come si fa a dire che il cittadino è lo Stato e non accorgersi della contraddizione per cui lo stesso cittadino ha dato mandato ad altri di governarlo, ad esempio,  in un contesto storico non favorevole alla vita, come quello "nucleare"? Che non conosce amici e nemici, ma che è solo distruzione immane per tutti? Oppure ci si è accorti della contraddizione? Si pensa possa esserci  una "liberatoria" in questo senso? Non ci conviene prendere da subito la nostra libertà, ritirando il mandato senza violenza, con responsabilità, diventando effettivamente un cittadino-stato, pronto insieme ad altri ad attuare politiche di salvaguardia del mondo sociale in cui siamo, della natura, del clima, scambiarsi beni in modo civile con altri, (toh!), e perfino "salvare" le persone cui vuoi bene? Senza pensare ad una "difesa" dello Stato uguale a quella di secoli fa, di forza, di esibizione infantile di grandezza quando all' interno degli stessi Stati che "offendono" o si "difendono", ci sono milioni di persone che hanno difficoltà a vivere decentemente!
Ecco la libertà di essere uomo e individuo sociale insieme agli altri uomini e donne, di sentirsi vivo, padrone della propria vita nel rispetto di quella altrui, di vivere intensamente l'unica vita che ci è permesso di avere. Se altri pensano che ce ne siano di altre, sarebbe comunque tua di oggi, e varrebbe la pena di viverla amando fino in fondo, in un Universo di grandezza incommensurabile, inimmaginabile, con miliardi di corpi celesti che ci circondano e di cui ci ricordiamo, purtroppo, come di uno spettacolo offerto dalla stampa e dalla televisione ogni tanto, e non "vissuto" da noi, quotidianamente, in proprio.


Chi mi proteggerà?


Sono Luigi Galvano e ho 17 anni. Ti scrivo perché sei un utente di Change.org e come me sei sensibile ai diritti dei lavoratori. 3 mesi fa ho ricevuto una brutta notizia. Alcuni miei amici, che lavorano come fattorini per FedEx, hanno visto mancarsi la terra sotto i piedi. Infatti, la società aveva appena annunciato che ci sarebbero stati almeno 315 licenziamenti in Italia. 315 famiglie a rischio. Si parla di gente onesta e di tanti duri lavoratori, di quelli che sono certo che anche tu conoscerai. Anche se sono così giovane non ho intenzione di occuparmi "solo" degli studi e di stare a guardare. Ho deciso di lanciare una petizione su Change.org e raccogliere le testimonianze dei lavoratori. Avevo già potuto notare alcune vittorie su Change.org per i lavoratori, contro i soprusi. E presto ho scoperto che, per aiutare i cittadini Change.org deve restare libera e indipendente dall'influenza di multinazionali e potenti. Per questo c'è bisogno del nostro aiuto. Ben presto siamo arrivati a essere in 52mila. Tanti dipendenti, come Michela che aveva paura di finire in mezzo a una strada, hanno aiutato la petizione. Hanno cominciato a parlarne i giornali e persino Papa Francesco ha espresso vicinanza ai lavoratori FedEx durante l'Angelus del 13 maggio.
Mai avrei potuto immaginare che insieme saremmo potuti arrivare a così tanto. Quello della foto sopra sono io al Ministero dello Sviluppo Economico: accompagnato dallo staff di Change.org ho consegnato le firme a un dirigente di FedEx (in alto a sinistra) e a un funzionario (in alto a destra).
Dopo difficili negoziazioni con i sindacati, alla fine l'azienda si è arresa! Il licenziamento collettivo è stato scongiurato. Ma alcuni dipendenti subiranno pesanti condizioni. Per questo noi siamo ancora qui, e per tanti altri lavoratori, come i precari della Nestlè di Benevento che rischiano di non vedere il rinnovo dei loro contratti. Io sono fortunato, per adesso, ma quello che è successo ad alcuni miei amici potrebbe succedere a me un giorno. Io ci tengo al mio futuro, ma chi proteggerà il mio lavoro dai soprusi?
Spero continueranno a esserci strumenti come Change.org, che può aiutare le persone come noi che prendiamo posizione, che vogliamo sensibilizzare l'opinione pubblica e non ci arrendiamo di fronte alle prepotenze. La rete è dalla nostra parte. Il web condiziona quotidianamente la nostra vita.
Change.org per sopravvivere e continuare ad aiutare battaglie come la mia ha bisogno del nostro contributo, dell'aiuto dei cittadini. Serve a proteggere chi è vittima di prepotenze da parte di chi crede che siamo soli, che noi cittadini siamo deboli e non abbiamo la forza di reagire. Un abbraccio e grazie di cuore,
Luigi Galvano

lunedì 30 luglio 2018


IL PENSIERO DEL GIORNO
La Democrazia: è la libertà del popolo di stare sotto i piedi
di chiunque lo governi”.
Nicolino Longo



Nuovo attentato terroristico a nord di Gaza
di Patrizia Cecconi
I due giovani uccisi (Foto Ma'an News)

Un missile lanciato su un gruppo di giovani durante un raid aereo uccide due ventiquattrenni a est di Jabalia. Il terrorismo con cui Gaza è costretta a fare i conti lascia il mondo silente o distratto. I media di massa, che nella società dello spettacolo hanno la funzione di creare o ridurre attenzione, svolgono egregiamente il loro compito in questa striscia di Medio Oriente che porta il nome di Gaza e nella più ampia zona della Palestina storica che porta il nome di Cisgiordania o, nel progetto di annessione israeliano il nome di Giudea e Samaria. La loro capacità di creare attenzione si mostra nel momento in cui le vittime sono in numero troppo alto per poter essere ignorate o nel caso in cui le vittime, anche se leggermente ferite, siano israeliane. Alla capacità di creare attenzione viene aggiunta l’abilità di creare empatia e quindi negli ultimi tempi, per scarsezza oggettiva di vittime israeliane, essendo queste limitate a un solo soldato, l’empatia viene creata con i  bambini che scappano terrorizzati nei rifugi quando le sirene avvertono dell’arrivo di missili nemici. Non tutte le vittime o potenziali vittime dei missili godono di rifugi e quindi, quando l’azione terroristica è commessa da Israele, generalmente comporta un numero più o meno alto di vittime le quali, in assenza di rifugi,  non muoiono di paura ma muoiono per davvero.
L’atto terroristico di questa mattina a nord est di Gaza non è stato anticipato da nessuna sirena che potesse creare paura e far correre nei rifugi, anche perché a Gaza i rifugi si chiamano “tunnel” e in quanto tali, per quella magica polisemia che le parole assumono, possono essere bombardati senza scrupoli né rimorsi.
Il risultato dell’ultimo (finora) missile israeliano è stato di due morti accertati e probabilmente diversi feriti. L’unica notizia d’agenzia ha specificato che sono “rimasti uccisi” due palestinesi aderenti al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Chi non conosce la geografia politica della Palestina non sa che il Fronte popolare è un movimento politico di ispirazione comunista e che moltissimi suoi iscritti, detti di solito “esponenti” sono da anni nelle galere israeliane. Un po’ come gli oppositori politici italiani durante il fascismo! Alla luce dei fatti, “Assassinati due giovani del FPLP in attacco terroristico” sarebbe il titolo giusto. Giusto ma disdicevole. Non perché l’appartenenza al Fronte in sé non giustifica l’omicidio, questo è o almeno dovrebbe essere logico, ma è disdicevole perché rischia di far tornare alla mente il carattere terroristico dello Stato ebraico, nato sul terrorismo e sviluppatosi, sebbene la scelta comunicativa gli abbia cambiato intelligentemente nome, sviluppatosi sul terrorismo. Del resto basti ricordare che terroristi della portata di Shamir, Sharon o Begin, tanto per citarne alcuni, sono diventati ministri e deputati dello Stato di Israele che con le loro azioni, spesso paragonabili ai nostri Marzabotto o Sant’ Anna di Stazzema, avevano contribuito a far nascere. Questi sono dati storici e non opinioni.
Oggi nessuno dei media main stream osa chiamare le azioni dello Stato ebraico con il loro nome corretto, cioè “azioni terroristiche” e pertanto la chiarezza è appannaggio della stampa libera che generalmente è stampa on line. Esattamente come quella che state leggendo.
Senza slogan, senza fanatismi né prese di posizione di parte, sebbene queste non possano non esserci pena il rientrare nella categoria degli indifferenti, stigmatizzata da Gramsci, possiamo affermare che la realtà oggettiva ci mostra uno Stato occupante e assediante, e pertanto fuorilegge in base al Diritto internazionale, che commette continui assassini o stragi o massacri che qualcuno definisce genocidiari e che, nonostante tutto ciò,  gode impropriamente di totale impunità riuscendo addirittura a passare per la vittima della situazione che il comportamento dei suoi ideologi, dei suoi strateghi e dei suoi governanti ha creato. Quindi, non rientrando nella definizione di main stream ma in quella di stampa libera, possiamo affermare che nel suo ultimo attentato terroristico, servendosi di missili sganciati da aerei da guerra su un gruppo di civili, l’aeronautica israeliana ha ucciso due civili, Ayman Nafed Rabie Najjar e Muhannad Majed Jamal Hamude. Entrami i giovani assassinati erano iscritti al PFLP ma questa non è un’attenuante per l’assassino né per i suoi mandanti. Fermare Israele non è compito della stampa, neanche di quella libera, ma denunciare la realtà ai nostri lettori, affinché il stesso concetto di democrazia non venga a deteriorarsi oltre quanto già avvenuto, accettando come normale agire politico il terrorismo e l’illegalità costante purché praticati da uno Stato definito ancora democratico, questo sì, denunciare  questo è un dovere della stampa. Di quella sinceramente democratica, è ovvio.

domenica 29 luglio 2018


IL PENSIERO DEL GIORNO
di Angelo Gaccione

Donne curde in lotta

Mi sono sempre domandato che ne sarebbe stata della Resistenza palestinese se tutti i giovani di quel paese fossero emigrati in massa, chi avrebbe tenuto testa alla protervia del governo israeliano, chi lo avrebbe reso indegno e disgustoso davanti alla coscienza del mondo. Altrettanto per le giovani valorose combattenti curde che hanno tenuto testa, con le armi, agli sciacalli dello stato islamico.


Israele: arrestato Jorit Agoch  
di Patrizia Cecconi
Israele tra il comico e l’illegale: arrestati tre artisti italiani

L'artista di strada Jorit Agoch al lavoro

Poche ore fa l’esercito di occupazione israeliano è entrato a Betlemme, città a tutti gli effetti sotto la giurisdizione palestinese ed ha arrestato un artista italiano e due suo collaboratori. L’artista in questione si chiama Jorit Agoch ed è piuttosto famoso per le sue abilità di ritrattista.
Jorit è venuto da Napoli per dipingere sull’illegale muro di separazione costruito da Israele sui territori palestinesi, il ritratto di Ahed Tamimi, l’adolescente arrestata dall’esercito israeliano (come purtroppo altre centinaia di adolescenti o addirittura bambini) e divenuta simbolo della resistenza e dell’orgoglio palestinese. Il ritratto sarebbe stato un omaggio e un regalo per la sua scarcerazione.
La ragazza dovrebbe essere rilasciata dopodomani, 30 luglio dopo aver scontato sei mesi di prigione per aver schiaffeggiato un soldato entrato nel suo giardino con l’intenzione di sparare ai giovani che stavano manifestando in strada. Il cugino di Ahed, un ragazzino di 15 anni era stato appena colpito gravemente alla testa da un commilitone del soldato schiaffeggiato da Ahed.
Il caso fece scalpore grazie a un video girato dalla mamma di Ahed, a sua volta arrestata successivamente, così come fece scalpore, ma solo negli ambienti “informati”, la disparità di trattamento giuridico tra la ragazza palestinese ed una colona ebraica anch’essa colpevole di aver schiaffeggiato un soldato ma senza le attenuanti della giovane Tamimi. Alla colona si “perdonò” lo schiaffo mentre Ahed ha scontato sei mesi e forse ne avrebbe scontati molti di più se il suo caso non fosse diventato pubblico e seguito dai media internazionali.
Il rilascio della ragazza, una festa per i palestinesi e per i filopalestinesi, sarebbe passato più o meno inosservato agli occhi del mondo, non più né meno di quanto passino inosservati gli omicidi quotidiani di palestinesi di ogni età da parte dell’IOF.
Ma a volte l’arroganza del potere non è un buon consigliere e così Israele ha commesso un errore. Invece che lasciare intatto il bel ritratto di Jorit Agoch che avrebbe attirato soltanto chi è già interno alla causa e presto sarebbe entrato nella ritualità inoffensiva, ha arrestato l’artista e i suoi amici.
Israele ha dimostrato così, anche a quella parte di mondo sempre indulgente verso le sue violazioni, che non rispetta neanche la libertà di espressione artistica, per di più non in territorio definito israeliano, ma in territorio a tutti gli effetti palestinese.
Scivola sempre più in basso questo Stato ebraico e diventerà presto un enorme problema per quei suoi cittadini, sionisti per definizione in quanto suoi cittadini per scelta, ma con l’illusione che il loro Stato possa essere realmente democratico e non solo definito tale per opportunismo politico.
Bene, Ahed ha avuto un’inaspettata pubblicità, ed anche il suo ritrattista l’ha avuta. Perciò Israele stavolta ha fatto un autogol che potrebbe essere definito ridicolo e liquidato con una risata di spregio se non ci fosse la seria preoccupazione che farà pagare ai palestinesi, e forse alla stessa giovane che ancora è nelle sue galere, questo grave errore di stupidità oltre che di disprezzo delle regole della democrazia.
Il governo italiano è stato allertato, perché Jorit, nonostante il suo nome esotico è un cittadino italiano ed ora la Farnesina sta trattando con Israele per il suo rilascio che alcune fonti danno per imminente.
Veramente Israele sta diventando un elemento imbarazzante nel consesso dei paesi cosiddetti democratici. e non c’è motivo di sperare che il suo padrino Trump, a sua volta seriamente imbarazzante, possa dargli buoni consigli. C’è da sperare nella parte sana della Knesset, quella che ha provato ad opporsi anche alla modifica sostanziale e formale dello stato democratico nella sua conversione in stato etnico-religioso. Per farcela a fermare questa discesa lamentata anche da giornalisti israeliani progressisti c’è bisogno che i governi amici rivedano le loro posizioni.
Intanto speriamo di vedere un buon esempio da parte del nostro ministero degli esteri chiamato in gioco con la violazione di un paio di diritti che non solo sono tutelati dal Diritto internazionale, ma fanno parte dei pilastri della nostra stessa Costituzione.
Buon lavoro ministro Moavero.


MISSIONE MILITARE IN NIGER
E L’EMIGRAZIONE FORZATA
di Patrizia Sterpetti


La WILPF-Italia è contraria all’invio di militari in Niger perché dissente sia dall’analisi dei fenomeni che ne è alla base, sia dall’impostazione dell’intervento che è vecchia, non risolutiva e dannosa. Ribadiamo sempre la nostra convinzione, che non è un puro slogan, della necessità di spostare le risorse destinate al settore militare al settore civile. Ecco cosa sarebbe sensato nella nostra ottica pacifista.
Il Paese Italia, lo Stato italiano e i suoi governi avrebbero dovuto divenire, attraverso l’esperienza pluriennale dell’accoglienza dei migranti forzati, un’avanguardia a livello europeo e mondiale sui push factors che spingono le persone ad abbandonare i loro territori. Il protagonismo dell’Italia si sarebbe dovuto contraddistinguere, quindi, per una forte e documentata proposta all’Unione Europea di un’azione diplomatica coesa e coerente nei confronti dei dittatori e degli oligarchi che non garantiscono la vivibilità  alle popolazioni africane che si trovano costrette ad espatriare. Non possono esserci contraddizioni: un Paese europeo non può accogliere le vittime di un leader che è sostenuto da un altro Paese europeo. La pressioni diplomatiche, che hanno la loro efficacia (non si dimentichi il caso del Marocco, per decenni esportatore di migranti, che si trovò costretto grazie alle pressioni internazionali, ad indire le elezioni dell’alternanza nel 1997, a creare un Ministero per i diritti umani e l’Istanza Equità e Riconciliazione), avrebbero dovuto essere accompagnate da un piano strutturale di Cooperazione internazionale mirato precisamente sulle aree di partenza dei migranti forzati, creando dei partenariati tra regioni europee ed africane.
Per evitare le tragedie nel deserto e nel mare, effetto evidente della carenza di una rete strutturata tra Paesi esportatori e Paesi importatori di migranti forzati, si sarebbero dovuti pianificare in modo più generoso i flussi migratori per studio e per lavoro, con rilascio regolare dei visti nelle rappresentanze diplomatiche. In concerto con l’OIM e l’ACNUR, la valutazione delle richieste di asilo avrebbe dovuto essere garantita, insieme ai visti di ingresso, in ogni ambasciata e consolato, dotate di uffici e personale apposito. I Paesi che non hanno ratificato la Convenzione di Ginevra dovrebbero essere incalzati dalla Comunità internazionale.

L’Italia, al centro del Mediterraneo, partner europeo, avrebbe potuto distinguersi per un approccio virtuoso di relazione con i Paesi africani, fin troppo stanchi di relazionarsi con gli ex Paesi colonizzatori. Come è stato osservato da tanti esperti di migrazioni inascoltati, le persone ben formate in Italia potranno tornare ai loro Paesi di origine e determinarne un avanzamento. L’Italia resterebbe nella memoria un’esperienza affettiva e formativa indelebile. Nella pianificazione del modello di accoglienza si dovrebbe fare un salto di qualità e attivare più risorse e programmi ad hoc per favorire la consapevolezza culturale e politica sul fenomeno da parte degli autoctoni, senza limitarlo a procedure organizzative ma vivendolo come un passaggio fondativo della Storia delle relazioni internazionali; senza viverlo con asetticità ignorante o obiettivi limitati ma padroneggiando i retroterra culturali degli accolti, aprendo loro la strada di una conoscenza articolata del mondo nel quale sono approdati, Italia ed Unione Europea.
Un Paese democratico dovrebbe interagire diversamente con le vittime di repressione, potenziando la loro capacità di denuncia e di organizzazione, facendone delle diaspore illuminate, protagoniste un domani della democratizzazione  dei propri Paesi di origine. Se questo non succede ma, anzi, gli accolti vengono vissuti come una presenza ingombrante e problematica ciò accade perché il sistema dell’accoglienza non valorizza le risorse umane giuste: i ricercatori delle Scienze umane, antropologi culturali, sociologi, esperti di religioni, storici, scienziati politici, linguisti, la ricerca-azione e l’insegnamento dei diritti umani. Ciò crea problemi di stress da adattamento sia agli accolti che agli autoctoni. L’esclusione di cervelli - e la loro fuga all’estero - provoca un vuoto di inculturazione rispetto ad un fenomeno sociale che pur essendo rilevante non ha abbastanza analisti che possano tradurlo, rappresentarlo, organizzarlo. È la morte della ricerca e infatti i ricercatori diventano martiri isolati e invece di avere tanti Giulio Regeni abbondano tra i giovani gli xenofobi, si diffonde il bullismo e la violenza, il voyeurismo sessuale in rete. Invece di stimolare l’interesse per la ricerca e il monitoraggio, per proporre delle riforme e delle soluzioni, l’esercizio della diplomazia popolare, invece di avvicinare alla politica e alla costruzione comune, alla partecipazione alle decisioni… la società civile si spegne, l’Italia diventa sui rifugiati uno Stato di Polizia, i servizi segreti subentrano ai ricercatori, l’esercito prende il sopravvento e la Fortezza Europa ripiomba in Africa chirurgicamente. L’Italia anziché distinguersi e fare da capofila con un approccio nuovo si incista in mezzo agli altri  (francesi, tedeschi, statunitensi, forse anche belgi e spagnoli) già presenti militarmente, spendendo soldi pubblici che sarebbero quanto mai utili alla ricerca, all’accoglienza e alla Cooperazione internazionale. Se non saranno vittime dell’uranio impoverito e dell’amianto sicuramente i militari in Niger conosceranno altre piaghe.


Invece di sperimentare l’unione diplomatica europea si fa esercizio della difesa comune, si parla di difesa dei propri alleati invece di cercarne dei nuovi. I rifugiati stessi vedono il G5 Sahel, (a cui aderiscono Mali, Niger, Burkina faso, Ciad e Mauritania) come un segno di sudditanza dei leader africani a quelli europei e ribadiscono che se nei loro Paesi arrivassero più aiuti e ci fosse lavoro resterebbero lì o tornerebbero. Non aiuti in cambio del controllo delle frontiere ma una Cooperazione svincolata, vera.
Dovranno spiegarci come potranno contrastare il traffico e contemporaneamente aiutare gli esseri umani trafficati e come si permettono di parlare a priori di clandestini se fra questi ci sono richiedenti asilo con diritto a depositare le loro richieste e a seguire l’iter necessario.
La WILPF-Italia apprezza le forze politiche che in Parlamento si sono opposte alla missione militare in Niger (il Movimento Cinque Stelle ha votato contro ma si è schierato prima contro le ONG che salvavano i migranti in mare, Liberi e Uguali ha probabilmente una visione lucida dell’erroneità dell’approccio, La Lega si è astenuta ma è d’accordo con la missione). Gravissimo da parte di Forza Italia il programma che propone come soluzione sicuritaria l’aumento delle Forze dell’ordine, ignorando il problema aperto del bisogno di formazione sui diritti umani di questi lavoratori. L’unica forma effettiva di difesa e l’unico radar che può orientarci nell’incontro e nell’accoglienza è la conoscenza unita alla correttezza, a percorsi di formazione, di inclusione - compreso il diritto alla cittadinanza - e il rispetto dei diritti umani. Solo questo può preservarci dall’esposizione a pericoli e ritorsioni latenti da parte degli accolti.

sabato 28 luglio 2018

LETTURA/17
Aforismi per un giorno solo
di Nicolino Longo



“Se, oggi, i giovani sono arrivati all’amnèsia, vorrà dire  
che non ricordano che la vita gli appartiene”.

 *
“Se vuoi scovare un tirchio, fagli uno squillo. Se ti risponde
con un altro squillo, l’hai trovato”.

 *
“Lo stroncatore: è colui che, col suo lavoro di scavo, fa, del libro,
la tomba dell’autore”.

*
“Le stelle cadenti: sono le liane del cielo, con cui le anime dei morti
si calano sulla terra a visitare i vivi”.

*
“Ci sono politici che, quanto più son di destra, tanto più son mancini”.

*
“Le ostetriche liberano le madri dai figli. La maggiore età, i figli
dalle madri”.

*
“D’ogni cosa, spesso l’eccesso è un accesso al decesso”.

*
“Il politico religioso, per arrivare al Governo, i voti non li chiede, li fa”.

*
“C’è gente che, pur non facendo testo, in quanto senza testa,
 vorrebbe, in virtù del posto che occupa, a tutti i costi, tener testa”.

*
“Se si ha un figlio morto, e se ne sente la voce, sarà meglio sentirsi
con lo psichiatra”.

*
“I politici che sistemano i propri familiari, dormono a sette cuscini.
Quelli che, invece, temono di poter essere sistemati dalla mafia,
a sette chiavi”.

*
“Un tempo, i giovani andavano a letto con i polii. Oggi, invece,
con le pollastrelle, all’ora in cui i polli cantano”.

*
“Quando un tetto ha il capogiro, non  è la troppa altezza che glielo provoca,
ma il comignolo a pappagallo della casa”.

*
“Attacco di cuore: un attacco, a sorpresa, da parte del cuore, al cuore”.

*
“Avere una marcia in più, e non disporre del cambio per innestarla”.

*
“Il tuono se la fa sempre a piedi, perché non appena apre bocca
per chiedere il passaggio al lampo, questo è già al suolo”.

*
“Un consiglio per titubanti aspiranti sposi: contrarre matrimonio,
con divorzio già incorporato ”.

*
“I politici, quando parlano, usano il microfono; quando scrivono,
i negri”.

*
“Solo il disordine, per ovviare alla sua mancanza d’ordine, può,
richiamando sé stesso all’ordine, mettere ordine”.

*
“Quando i politici, sul palco, se le cantano, il sottofondo musicale,
il più delle volte, è quello delle fazioni opposte che,
sotto il palco, se le suonano”.


Un captif amoureux di Jean Genet
di Mila Fiorentini
Jean Genet

Abbiamo deciso di pubblicare questa nota di Mila Fiorentini in prima pagina e non in una delle rubriche dei libri, vista l'attualità dell'argomento. I nostri lettori stanno da tempo seguendo su questa stessa prima pagina, le corrispondenze di Patrizia Cecconi sulla causa palestinese e il suo tributo di sangue.

Jean Genet
La rivoluzione palestinese alla prova dell’intimo, attraverso un diario di viaggio, un’intervista continua ascoltando le voci locali con un linguaggio di grande fluidità: l’umiltà e la curiosità del giornalista rendono oltre 600 pagine decisamente scorrevoli ancorché frammentarie, frutto di una riunione di scritti, postuma operata da Gallimard subito dopo la morte del grande scrittore Jean Genet. Tuttora non tradotto in italiano, questo testo è considerato dallo stesso Genet un testo che altri potrebbero utilizzare per una pubblicazione, dato l’argomento non facile ieri come oggi. Impressiona la profondità dell’analisi del conflitto mediorientale e di quella “guerra” che Genet legge come una rivoluzione, patria di tutte le rivolte arabe e l’attualità di argomenti che dalla stampa comune non sono stati eviscerati. Genet, profetico e critico profondo, malgrado l’assenza di una giusta distanza, vista la contemporaneità del nucleo degli avvenimenti, sembra essere stato ignorato in questo suo lato impegnato e politico. Al centro la Palestina, i rapporti con la Siria, la Giordania, Israele, il mondo europeo e il ruolo degli Stati Uniti. Una lettura in parallelo delle Black Panthers americane che hanno guidato la rivolta nera contro i bianchi. In questa atmosfera così densa e impegnata di tanto in tanto fa capolino l’amore, la passione per gli uomini di Genet, la presenza dell’eros che aleggia e colora il mondo.
Da sottolineare l’osservazione della lingua, la scrupolosità nello spiegare alcuni termini arabi, la loro traduzione e il valore centrale dato alla lingua, elemento di identità, rivalità e luogo del contendere profondo perché sottende una visione del mondo, talvolta unificata dalla costituzione nazionale che ha schiacciato le minoranze anche di natura linguistica.
Un testo da leggere e meditare, magari scorrendo alcune parti velocemente, senza lasciarsi spaventare dal numero di pagine.
Mi sono incuriosita a Genet, al di là dell’opera teatrale, la più conosciuta e tradotta - il testo Les bonnes sopra gli altri - in seguito al lavoro di traduzione e curatela del libro Ritratto incompiuto del padre di Jean Sénac al quale il romanzo del poeta algerino, francofono, di origini andaluse è dedicato. In un passaggio del testo autobiografico Genet è ritenuto il più grande scrittore francese suo contemporaneo.
Questo libro è frutto di due lunghi soggiorni - che rispondono alle due parti del libro, entrambe con il titolo di “Souvenirs” - nei campi palestinesi che hanno consentito a Jean Genet di essere uno dei rari occidentali a poter testimoniare la vita degli insorti nei campi cosiddetti dei rifugiati, almeno in un primo periodo; poi forse dovremmo parlare di detenzione. Il testo è ad un tempo saggio e biografia, senza diventare né accademico né confessionale, lontano dal panegirico atteso dai difensori della causa palestinese, è di grande lucidità ed equidistanza, a dispetto del personaggio di eccessi, qual è Genet. L’autore infatti si smarca perché non intende essere il soldato, il difensore e forse nemmeno il cantore della rivoluzione palestinese, né uno dei leader intellettuali. Resta un osservatore autenticamente curioso che raccontando, o meglio raccogliendo testimonianze e spiegazioni, ci offre la sua visione della rivoluzione e dei movimenti rivoluzionari del secolo scorso, delle affinità e delle contaminazioni anche singolari come quella con il marxismo. Il suo punto di vista è intimo e procede tra la memoria e l’effetto specchio. Sicuramente difensore della rivoluzione come scelta, è un personaggio profondo nell’analisi critica che non si abbandona al ragionamento con la pancia, come il Sénac di fronte alla guerra d’indipendenza algerina, e filtrando il racconto con l’esperienza intima e impossibile per definizione di un uomo nonché artista del popolo del quale si innamora perdutamente.
Quest’ultima opera arriva dopo una vita avventurosa e da avventuriero, Genet parla di se stesso come di un ladro, che ha il tradimento nella quotidianità. Dopo l’uscita dal carcere di Marsiglia, dal quale entra ed esce per un periodo, ci sarà una fase da viaggiatore senza sosta con il suo impegno civile, spaziando tra l’Europa, gli Stati Uniti e il Medioriente e il Maghreb per il quale si impegna sul fronte dei diritti degli immigrati in Francia. È in terra marocchina, dov’è sepolto, che mette ordine alle pagine memoriali di Un captif amoureux. È il 1983. La storia del déraciné collettivo rifluisce nel nuovo libro: i Noir americani e i fedayin. Genet si ammala nel 1979 di tumore alla gola e, dopo una lunga malattia, muore nel 1986, solo lasciando accanto a sé il manoscritto dell’ultima opera. Si tratta di una sorta di testamento, dalla parte degli sradicati, scosso dall’orrore di un viaggio accanto alla morte che in qualche modo sente sua - scopre i massacri dei campi dei rifugiati palestinesi di Sabra et Chatila - assumendo su di sé le ragioni della causa palestinese. D’altronde la morte, che sia condanna voluta dalla giustizia, rischio assunto come nel Funambolo, l’artista sul filo tra vita e morte, l’odore dell’amore strappato dal suicidio dell’amato o quella del lutto assunto e non vissuto dei genitori, è sempre presente in Genet fin dalla sua nascita. La conclusione è emblematica e dichiara che “l’ultima pagina del mio libro è trasparente”. Il libro è diventato un film realizzato da Michèle Colléry, con il titolo Jean Genet, un captif amoureux, parcours d’un poète combattant, nel 2016.



Jean Genet
Un captif amoureux
Editions Gallimard, 1986
Pag. 611 € 9,90

ALLI BENIGNI LETTORI

La copertina del libro

Il nostro giornale è lieto di annunciare l’uscita di Angelo di Sangue/Inger de sânge del caro amico e collaboratore Franco Manzoni. Si tratta di un’antologia delle numerose sillogi pubblicate dal poeta nel corso degli anni (contiene anche liriche inedite) con testo originale e versione a fronte pagina in romeno tradotte dalla nota poetessa Eliza Macadan e con un’illuminante prefazione di Carlo Alessandro Landini, che potete leggere nella rubrica “Litterae”. https://libertariam.blogspot.com/p/litterae.html

Franco Manzoni
L'uscita di questa antologia coincide con i 40 anni di attività poetica editoriale del Manzoni (1978-2018). Il libro, che esce per le Edizioni Eikon di Bucarest,  verrà ufficialmente presentato il 23 novembre 2018 al Salone autunnale del libro di Bucarest. Saranno presenti l’autore, la traduttrice e il prefatore. Il volume può essere ordinato direttamente all’editore dall’Italia: il costo è di 5.50 euro, consegna via posta in 5 giorni, mentre sul territorio romeno è in vendita per 25 Leu (doppia moneta conservata). Alleghiamo di seguito l’indirizzo del sito di Eikon: http://www.edituraeikon.ro


Eliza Macadan
traduttrice dei testi in lingua romena


Franco Manzoni
Angelo di Sangue/ Inger de sânge
Edizioni Eikon  (Bucarest) 2018
Pagg. 112 Leu 25

La tregua che stava stretta a Israele
di Patrizia Cecconi

Nuovo sangue nella Striscia di Gaza e pessime previsioni per l’immediato perché la tregua tra Gaza e Israele ottenuta con la mediazione dell’Egitto non poteva reggere e non ha retto. Forse stare sul luogo, un luogo assediato e non aperto a tutti, ricordiamolo, rende chiaro ciò che fuori, vuoi per difficoltà oggettive, vuoi per fonti di parte, non si percepisce.
Da dentro la Striscia si sapeva che la tregua non poteva durare, perché allo scalpitare di Lieberman, falco del governo israeliano, lasciato in  primo piano da Netanyahu nell’esternazione delle sue pulsioni viscerali contro Gaza, facevano concreto riscontro le azioni dell’IDF che i media nostrani non riportavano perché, in fondo, erano notizie di routine. Il ferimento, l’arresto o l’omicidio di un palestinese non fanno più notizia di quanta ne faccia un incidente qualunque in autostrada. Quindi, il fatto che lo stesso giorno del cessate il fuoco l’IDF bombardasse Zeitun, periferia di Gaza City, e che nei giorni seguenti seguitassero le azioni ostili da parte di Israele senza che da Gaza partisse la risposta lasciava sia i gazawi che gli osservatori interni in stato di attesa: o Israele fermava le sue ostilità, oggettivamente provocatrici di risposta da parte di Hamas o della Jihad, o questa risposta sarebbe arrivata. E la risposta è arrivata ieri sera, dopo che Israele ha colpito sette centri della resistenza gazawa ed ha lanciato missili su gruppi di civili in vari punti della Striscia, sia al nord, colpendo Jabalia, sia al centro, colpendo Shujaya e Al Bureji e uccidendo tre persone, forse militanti della Jihad, e ferendo numerosi civili. I tre palestinesi uccisi sono Ahmad Suleiman Al Bassus, Asad Khader Farwana e Mohammed Tawfiq Al Areer, tutti giovani sotto i trent’anni.  Israele ha motivato questi attacchi come rappresaglia per il ferimento mortale di un suo soldato da parte dei soldati di Hamas ed Hamas a sua volta aveva motivato l’azione contro il soldato israeliano come risposta alla precedente uccisione di un suo ufficiale. In una spirale senza fine di azioni e reazioni di cui si perde il conto, la situazione si trascina in attesa del peggio, visto che “il meglio” sarebbe il rispetto della legalità internazionale che però Israele non accetta. Non è una posizione di parte, ma un dato di fatto documentato e documentabile. Come nella favola del lupo e dell’agnello, nella Striscia di Gaza ci sono due figure: una è rappresentata da un popolo di 2 milioni di persone assediate che chiedono libertà e rispetto delle Risoluzioni Onu, e l’altra è rappresentata dall’assediante che urla al mondo il suo diritto alla sicurezza minacciata dall’assediato, nonostante la posizione dell’uno rispetto all’altro in questo preciso momento sia evidentemente il contrario. Come nella favola di Esopo il lupo, dato un codice formale da rispettare per mangiarsi l’agnello senza subire condanne, accusa l’agnello di intorbidargli l’acqua.  Non ha bisogno di dimostrarlo, gli basta dichiararlo, e forte della sua dichiarazione si tuffa sul povero agnello che provava a usare la dimostrazione logica per rigettare l’accusa.
Così, spostando i termini della favola a Gaza, ma in realtà l’esempio varrebbe per tutta la Palestina, ogni azione e perfino non-azione palestinese viene considerata come un intorbidare l’acqua dell’assediante e si aspetta solo la risposta che potrà servire a giustificare quest’ultimo nel momento in cui metterà in pratica quanto già promesso di fare.
L’occasione è arrivata con la solita risposta gazawa: il lancio di alcuni missili contro Israele da parte della Jihad islamica, missili che hanno scatenato, ovviamente, la paura dei civili israeliani e la soddisfazione dei loro leader politici che avevano fatto di tutto per ottenere quella reazione.
I media occidentali, così discreti o totalmente silenti circa le azioni contro Gaza di questi giorni “di tregua”, ora finalmente si scateneranno in un profluvio di parole definite pomposamente analisi per dire che la vacillante tregua s’è rotta a causa di Hamas, termine che va oltre il nome del movimento politico che governa la Striscia di Gaza e che è usato per evocare l’idea di terrorismo senza confini dal quale difendersi. Intanto le forze della resistenza palestinese hanno preso la parola ed hanno cambiato posizione, cambiamento  di cui i media mainstream probabilmente non terranno conto dimenticando la prima fase: sono passati dalla denuncia delle azioni ostili di Israele, che riscuoteva la totale disattenzione del mondo, alla promessa  di risposte violente, e i razzi ne hanno dato dimostrazione. Questa seconda fase invece, al contrario della prima, riscuote l’attenzione del mondo, ma viene letta attraverso la lente israeliana, quella che permetteva al lupo di mangiarsi pacificamente l’agnello dopo aver dichiarato che gli intorbidava l’acqua.
Il governo di Hamas ha dichiarato che i suoi militari verranno dislocati in forza in tutta la Striscia a difesa della popolazione e che risponderanno alla violenza israeliana con altrettanta violenza. La dichiarazione di Hamas non è diversa da quella data dalle ali militari della resistenza armata rappresentate dalle Brigate Al Quds e al Qassam, ma nella logica ormai conosciuta e ricorrente verranno prese non come reazione, ma come ostilità primarie alle quali Israele ha il diritto di rispondere. La stessa dichiarazione del portavoce dell’esercito israeliano di aver attaccato sette posizioni militari gazawe lungo il confine di Gaza verranno considerate normali o dimenticate, così come verrà dimenticato tutto il pregresso e si partirà dal soldato israeliano ucciso o dal missile lanciato. Liebermann e compagnia avranno ottenuto anche questa volta il loro obiettivo, il lupo pasteggerà senza fastidiosi intrusi mandati dall’ONU e su tutto si aprirà il nuovo sipario con la scritta “Hamas ha rotto la tregua”.

La Cappella Musicale
Milano Arte Musica

Mercoledì  1° Agosto ore 20.30
Chiesa di San Bernardino alle Monache
via Lanzone 13, Milano

FRANCESCO GEMINIANI:
SONATE PER VIOLONCELLO E B.C. OP. 5
Francesco Galligioni, violoncello
Luca Oberti, clavicembalo

Francesco Galligioni

Luca Oberti

Mercoledì 1° agosto alle ore 20.30 nella chiesa di San Bernardino alle Monache, il violoncellista Francesco Galligioni - che sostituisce il M° Fazio -  insieme al clavicembalista Luca Oberti proporranno l’integrale delle sei Sonate per violoncello e basso continuo di F. Geminiani, intervallati dalle trascrizioni di altre opere del compositore lucchese.