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domenica 22 luglio 2018


CENE  [a W.]
di Velio Abati

C’è bisogno di decenni, a volte, per vedere la tenacia dei legami stretti nei luoghi di potere; almeno nel nostro tempo, quando tutto ha un prezzo, la merce trabocca negli scaffali e da ogni angolo dell’esperienza quotidiana ti si proclama che la vita è nelle tue mani. Sospetto una continuità -non dico di sangue, ma di meccanica sociale, nel territorio italiano- tra i circoli famigliari evidenti nella struttura capitalistica moderna e quelli, insieme ristretti e diffusi, della borghesia comunale, i gruppi di eruditi seicenteschi, fino ai salotti illuministi. Non sorprende che originariamente fossero di clan, vista la loro recente origine feudale; degna invece di studio è la resilienza di siffatto automatismo fino ai nostri giorni, tanto che allo storico suggerisce per analogia la lettura delle ere umane trascorse e della loro attuale forza nelle forme del paesaggio agrario intorno a noi.
Che con l’invito sorridente “nel mio giardino viene l’autore tale per un incontro” mi si dica molto di più di quanto s’intende comunicarmi, l’ho capito quando a mille chilometri di distanza ho trovato una condizione identica. Due gli elementi in esso compresenti come il recto e il verso: la natura strettamente privata, di famiglia persino e quella elitaria. Non si chiamano, forse, cenacoli? Certamente le circostanze danno allo stesso elemento significati differenti. Se i palazzi di signoria erano palesemente anche di governo, le accademie riserve signorili di eruditi, i salotti erano élite insofferenti di un potere oscurantista e parassitario, dunque protesi a farsi governo. Che cosa sono oggi gl’inviti a casa propria?
Miei giovani amici spesso non prendono per spostarsi le ferrovie dello stato, ma passaggi in auto di privati sconosciuti che si trovano a percorrere il tratto di strada interessato. Non è la gentilezza fortuita della mia generazione, ma contratto formale, per quanto privato, con prezzi convenuti. Ugualmente, con certi programmi elettronici, altri fanno diventare la propria modesta pratica culinaria un invito a ignoti paganti. Di sicuro, nella casistica facilmente ampliabile vediamo l’opera dell’imperiosa lusinga che da ultimo anche la scuola pubblica somministra ai bambini, insieme con le prime parole scritte: sii imprenditore di te stesso.
Un conoscente dal profondo Nord mi confida d’aver principiato ad aprire il proprio appartamentino in riparazione di un incontro con cinque persone organizzato da lui in libreria: “in casa furono esaurite le stanze”. Gli ambienti pubblici, quando non siano straniti spazi di consumo, sono desertificati non-luoghi.
Un amico si accalora nel raccontarmi come l’idea di aprire la propria casa sia stata la reazione alla cacciata subita dal potere pubblico, perché chi comandava non sopportava più che quanto si produceva non fosse direttamente utile al suo potere personale.
Se il senso del tuo esistere è fare della tua vita il guadagno, nessuna tua azione e nessun luogo in cui tu ti trovi possono, in forza del principio borghese di proprietà, prevedere anche l’altro, essere con-divisione, essere, in senso proprio, pubblici e comuni. L’eccedenza del principio di piacere, che pur preme oltre la prestazione, può essere inclusa dalla legge ferrea del profitto tutt’al più nella gratuità del sadismo, dell’aggressione persecutoria, che certo non esclude l’autoaggressione. D’altra parte una così tragica radicalizzazione del principio proprietario borghese, per il quale un bene, e in questo caso se stessi, esclude in assoluto qualsiasi altro che non sia il suo possessore, apre una ferita tanto immedicabile quanto invisibile nell’individuo che sente, senza più saperlo, che nessuno può nascere e vivere solo per se stesso. È precisamente dall’abisso di tale muraglia cinese, e culturale e pratica, che pullulano i risarcimenti maniaci dell’identificazione acclamatoria con il superindividuo-noi, della costruzione fantasmatica di io-popolo: sinuose ripugnanze la cui gratificazione narcisistica legittima e potenzia le più gelide crudeltà o borghesemente delegate ad altri -le Autorità, gli Stati- o plebeisticamente agite in proprio: i razzismi, i massacri.
È dunque avvertibile, nell’odierno spuntare dei cenacoli, la ricerca di un argine, il bisogno d’aria, un’aspirazione agli dei del mattino. Eppure la loro oppositività, fattuale se non cercata, non è la volontà illuminista di abbandonare la propria natura privata per farsi pubblici. Un’ulteriore scaturigine li precede, che ora ne nutre la freschezza antagonistica, ora ambiguamente rafforza la loro sottomissione al delirio. Negl’imponenti rivolgimenti dell’antropocene delineatosi a partire dal secolo scorso è riemersa dalle profondità dei secoli l’affermarsi dell’individualità come insegna liberatoria dei subalterni. Non appropriazione signorile, arma d’esclusione e sfruttamento, in obbedienza alla legge del più forte, ma avveramento di una promessa antica secondo la quale il libero sviluppo di ciascun individuo è possibile solo nel libero sviluppo di tutti, ovvero in un salto di paradigma che metta a nudo e tolga la falsa individualità dei pochi, la loro fraudolenta libertà, proprio come ingannatrici risultano le attuali e antiche divisioni tra pubblico e privato. La voce subalterna che forse con più energia ha segnato la coscienza umana, che meglio ha saputo difendere gli spazi conquistati è stata quella femminile. Io sono mia non è l’ennesimo gesto di enclosures che le classi dei padroni ripetono nei millenni, ma un assalto alla Bastiglia nelle innumeri cellule della vita quotidiana; il privato è pubblico non è lo sguardo bigotto sui vizi domestici per oscurare i misfatti pubblici, ma la messa a nudo della voluta incomponibilità tra utile e bene, il disvelamento dell’alienazione, il bisogno insopprimibile di uno sviluppo integrale dell’essere umano.
La devastazione che da oltre trent’anni sloga continenti, inabissa coscienze e vite umane ricorda, a chi se ne fosse dimenticato, che nessun’isola è data sulla terra, tuttavia chi, o il quanto di ciascuno è buttato da parte sa sempre portare con sé, anche senza saperlo, la parola di verità che altri, oramai morti hanno saputo additare. Da tempo stilo la mia lista d’inviti.