CENE [a W.]
di Velio Abati
C’è
bisogno di decenni, a volte, per vedere la tenacia dei legami stretti nei
luoghi di potere; almeno nel nostro tempo, quando tutto ha un prezzo, la merce
trabocca negli scaffali e da ogni angolo dell’esperienza quotidiana ti si proclama
che la vita è nelle tue mani. Sospetto una continuità -non dico di sangue, ma
di meccanica sociale, nel territorio italiano- tra i circoli famigliari
evidenti nella struttura capitalistica moderna e quelli, insieme ristretti e
diffusi, della borghesia comunale, i gruppi di eruditi seicenteschi, fino ai
salotti illuministi. Non sorprende che originariamente fossero di clan, vista
la loro recente origine feudale; degna invece di studio è la resilienza di
siffatto automatismo fino ai nostri giorni, tanto che allo storico suggerisce
per analogia la lettura delle ere umane trascorse e della loro attuale forza nelle
forme del paesaggio agrario intorno a noi.
Che
con l’invito sorridente “nel mio giardino viene l’autore tale per un incontro”
mi si dica molto di più di quanto s’intende comunicarmi, l’ho capito quando a
mille chilometri di distanza ho trovato una condizione identica. Due gli
elementi in esso compresenti come il recto e il verso: la natura strettamente privata,
di famiglia persino e quella elitaria. Non si chiamano, forse, cenacoli?
Certamente le circostanze danno allo stesso elemento significati differenti. Se
i palazzi di signoria erano palesemente anche di governo, le accademie riserve
signorili di eruditi, i salotti erano élite insofferenti di un potere
oscurantista e parassitario, dunque protesi a farsi governo. Che cosa sono oggi
gl’inviti a casa propria?
Miei
giovani amici spesso non prendono per spostarsi le ferrovie dello stato, ma
passaggi in auto di privati sconosciuti che si trovano a percorrere il tratto
di strada interessato. Non è la gentilezza fortuita della mia generazione, ma
contratto formale, per quanto privato, con prezzi convenuti. Ugualmente, con
certi programmi elettronici, altri fanno diventare la propria modesta pratica
culinaria un invito a ignoti paganti. Di sicuro, nella casistica facilmente
ampliabile vediamo l’opera dell’imperiosa lusinga che da ultimo anche la scuola
pubblica somministra ai bambini, insieme con le prime parole scritte: sii
imprenditore di te stesso.
Un
conoscente dal profondo Nord mi confida d’aver principiato ad aprire il proprio
appartamentino in riparazione di un incontro con cinque persone organizzato da
lui in libreria: “in casa furono esaurite le stanze”. Gli ambienti pubblici,
quando non siano straniti spazi di consumo, sono desertificati non-luoghi.
Un
amico si accalora nel raccontarmi come l’idea di aprire la propria casa sia
stata la reazione alla cacciata subita dal potere pubblico, perché chi comandava
non sopportava più che quanto si produceva non fosse direttamente utile al suo
potere personale.
Se
il senso del tuo esistere è fare della tua vita il guadagno, nessuna tua azione
e nessun luogo in cui tu ti trovi possono, in forza del principio borghese di
proprietà, prevedere anche l’altro,
essere con-divisione, essere, in senso proprio, pubblici e comuni. L’eccedenza
del principio di piacere, che pur preme oltre la prestazione, può essere
inclusa dalla legge ferrea del profitto tutt’al più nella gratuità del sadismo,
dell’aggressione persecutoria, che certo non esclude l’autoaggressione. D’altra
parte una così tragica radicalizzazione del principio proprietario borghese,
per il quale un bene, e in questo caso se stessi, esclude in assoluto qualsiasi
altro che non sia il suo possessore, apre una ferita tanto immedicabile quanto
invisibile nell’individuo che sente, senza più saperlo, che nessuno può nascere
e vivere solo per se stesso. È precisamente dall’abisso di tale muraglia
cinese, e culturale e pratica, che pullulano i risarcimenti maniaci
dell’identificazione acclamatoria con il superindividuo-noi, della costruzione
fantasmatica di io-popolo: sinuose ripugnanze la cui gratificazione
narcisistica legittima e potenzia le più gelide crudeltà o borghesemente
delegate ad altri -le Autorità, gli Stati- o plebeisticamente agite in proprio:
i razzismi, i massacri.
È
dunque avvertibile, nell’odierno spuntare dei cenacoli, la ricerca di un
argine, il bisogno d’aria, un’aspirazione agli dei del mattino. Eppure la loro
oppositività, fattuale se non cercata, non è la volontà illuminista di abbandonare
la propria natura privata per farsi pubblici. Un’ulteriore scaturigine li
precede, che ora ne nutre la freschezza antagonistica, ora ambiguamente
rafforza la loro sottomissione al delirio. Negl’imponenti rivolgimenti
dell’antropocene delineatosi a partire dal secolo scorso è riemersa dalle
profondità dei secoli l’affermarsi dell’individualità come insegna liberatoria
dei subalterni. Non appropriazione signorile, arma d’esclusione e sfruttamento,
in obbedienza alla legge del più forte, ma avveramento di una promessa antica
secondo la quale il libero sviluppo di ciascun individuo è possibile solo nel
libero sviluppo di tutti, ovvero in un salto di paradigma che metta a nudo e
tolga la falsa individualità dei pochi, la loro fraudolenta libertà, proprio
come ingannatrici risultano le attuali e antiche divisioni tra pubblico e
privato. La voce subalterna che forse con più energia ha segnato la coscienza
umana, che meglio ha saputo difendere gli spazi conquistati è stata quella
femminile. Io sono mia non è l’ennesimo gesto di enclosures che le classi dei
padroni ripetono nei millenni, ma un assalto alla Bastiglia nelle innumeri
cellule della vita quotidiana; il privato è pubblico non è lo sguardo bigotto
sui vizi domestici per oscurare i misfatti pubblici, ma la messa a nudo della
voluta incomponibilità tra utile e bene, il disvelamento dell’alienazione, il
bisogno insopprimibile di uno sviluppo integrale dell’essere umano.
La
devastazione che da oltre trent’anni sloga continenti, inabissa coscienze e
vite umane ricorda, a chi se ne fosse dimenticato, che nessun’isola è data
sulla terra, tuttavia chi, o il quanto di ciascuno è buttato da parte sa sempre
portare con sé, anche senza saperlo, la parola di verità che altri, oramai
morti hanno saputo additare. Da tempo stilo la mia lista d’inviti.