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mercoledì 1 agosto 2018

Taccuino
SAN SISTO E IL MUSEO MESSINA
di Angelo Gaccione

Milano, San Sisto - Museo Messina
(Foto Odissea)

Probabilmente in pochissimi conoscono la chiesa di San Sisto a Milano. Chi va verso il  Carrobbio percorrendo la trafficata via Torino diretto al Ticinese, difficilmente devia nella piccola e stretta via San Sisto, che prende il nome proprio dalla seicentesca omonima chiesa. Chi vi si reca è perché sa che dal 1974 questa chiesa sconsacrata e ad un’unica navata, è divenuta prima studio e poi museo dello scultore Francesco Messina. All’artista siciliano (era nato a Linguaglossa in provincia di Catania nel 1900) si deve la sua salvaguardia; volevano buttarla giù dopo anni di incuria, e non oso pensare che cosa avrebbero edificato in quegli anni al suo posto. Messina si offerse di restaurarla a sue spese trasferendovi lo studio, impegnandosi in una donazione, come è poi avvenuto, per farne il magnifico e raccolto attuale Museo che porta il suo nome. Meno male, all’ex direttore dell’Accademia di Brera (e naturalmente anche a noi amanti dell’arte) è andata meglio di tanti altri artisti. Penso ad esempio all’indegna vicenda del pittore Enrico Baj, e di come la città si è vista privare del suo importante lascito, a causa di amministratori ottusi e incapaci. O all’immenso archivio del premio Nobel Dario Fo finito a Verona.
Oggi i milanesi, e non, recandosi in via San Sisto al n. 4, possono entrare in un luogo accogliente dichiarato monumento nazionale, ed ammirare le opere (80 sculture tra bronzi, marmi, ceramiche, cere, terrecotte e 26 opere grafiche su carta) che Messina ha lasciato alla città. Io ci sono venuto più volte per ammirare i suoi cavalli, le numerose ballerine colte nelle pose più diverse (la bellissima moglie Bianca ballerina lo era stata di professione, e questo deve avergli trasmesso l’amore per tale disciplina), i nudi, i busti di Pietro Marussig, del poeta Quasimodo, il ritratto del cardinale Idelfonso Schuster, le due splendide cere con i volti di Maria Laura (1946) e di Felicita Frai (1949-1950), il Grande nudo femminile (1967) più alto di me, il profilo bellissimo della moglie Bianca (1937-1968) in marmo bianco policromo. Conosco una parte consistente dell’opera di questo artista, noto ai più per il suo Cavallo morente davanti alla sede della Rai di Roma, e quando vado a Pavia non trascuro di alzare lo sguardo verso la sua statua della Minerva che dà il nome alla piazza, e di andare a vedere il suo monumento equestre del 1937 posto proprio di fronte al Duomo, conosciuto col curioso nome di Regisole.


Al Museo Messina ci sono ritornato sabato pomeriggio (28 luglio) per visitare la mostra “L’eco del classico. La Valle dei Templi di Agrigento”, che vi è ospitata. Rimarrà aperta fino al 21 ottobre, fruibile anche di domenica, e quel che è più meritorio, con ingresso gratuito, come avviene tutto l’anno per il Museo. È una mostra davvero indovinata perché tenta un dialogo, secondo me riuscito, fra le opere classiche di Messina e alcuni ritrovamenti avvenuti in quell’inesauribile “miniera” che è la Valle dei Templi. Teste, cavalli, statuette femminili e nudi esposti, sono in risonanza con molti lavori dell’artista siciliano. Il busto in terracotta di Demetra (fine IV - inizi III sec. A.C.), il Torso maschile in marmo (IV se. A.C.), dialogano bene e a distanza di tanti secoli, con Narciso (1946), Eva (1949), Efebo (1959), il Torso femminile del 1975, i quattro cavalli in bronzo del 1958, così come le teste e i busti di Messina, tanto per citare.


Il profilo di Bianca, moglie dell'artista

Ai piani superiori una serie di acquerelli con vedute e scorci della Valle dei Templi del pittore greco Habidis, mentre Leonardo Nava ha realizzato una sorta di scultura vegetale intrecciando più di cinquemila bastoni di nocciolo, che dall’esterno entra nella chiesa. Seguendo la forma sinusoidale della facciata la cinge in un groviglio correndo lungo l’arco subito sopra il timpano del portale. Le motivazioni dell’artista e degli ideatori sono molto convincenti sulla carta, meno dal punto di vista visivo. Ma è un’opinione personale. Mi piacerebbe, invece, che la facciata e i lati di San Sisto venissero ripuliti, anche perché l’intonaco in alcune parti è scrostato. Non sono il ministro della difesa e non posso disporre della scandalosa cifra di 70 milioni di euro al giorno che l’Italia spende per questo Ministero della morte, ma si può almeno lanciare l’idea di devolvere il 5 per mille al Museo Messina per questa incombenza. Io sono disponibile.



P.S. Una minuscola statuetta (cm. 31 x 6) di fine IV sec. e inizi del III a.C. raffigurante un neonato in fasce, presente in questa mostra, mi ha svelato quanto fosse antica quella tremenda pratica di “imbalsamare”, come in una camicia di forza, i poveri bambini. Fasciati dalle spalle in giù e con le braccine allineate lungo i fianchi, non era permesso loro alcun gesto o movimento. Una vera e propria tortura che ho fatto in tempo a vedere in Calabria, nella mia terra di nascita. Per fortuna un’altra visione più consapevole, ha cancellato, almeno in Occidente, questa usanza così abominevole.