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sabato 17 novembre 2018

VIVERE A FERRARA
di Roberto Pazzi

Lo scrittore Roberto Pazzi

Da quando ero ragazzo nutro un sogno segreto. Abbandonare casa mia e dormire per una notte intera a Ferrara in un albergo del centro, come se mi trovassi in questa mia città solo di passaggio. Vorrei sentire la romba lontana del traffico con lo stesso sentimento che provavo a San Paulo do Brasil o a Valencia. O a Reikiavik e a Oslo. O a Mosca e a Vienna. Un modo per rivoltare il guanto o forse rovesciare il cannocchiale e sorprendermi a captare quello che non è possibile: l’odore che portiamo addosso, che solo gli altri possono percepire. Vorrei insomma farmi almeno per una notte “altro”. Un poco simile a quegli amici visitatori di passaggio che spesso ho accompagnato in giro per la città, ad ammirarla. L’abitudine, si sa, addolcisce anche le pareti di una prigione, simili a quelle di gabbie da cui certi uccelli, una volta aperto lo sportello, non vogliono più uscire. Ma mentre ci narcotizzano tanto da farci sembrare che la felicità - come diceva Proust- consista nel loro ripetersi, le abitudini ottundono ogni giorno i nostri sensi. Noi non vediamo più le cose, non sentiamo più gli odori, dove si consuma la nostra esistenza. Perché siamo usurati e diventati a poco a poco, anno per anno, quelle cose e quegli odori. Se lo siamo diventati, non possiamo più saperlo. E così io non so più che cosa sia Ferrara, più di quanto sappia che cosa sia la mia vita intera. Per questo sono riluttante a scriverne, perché è inspiegabile il rapporto di usura e di amore che ci lega alla vita, qualcosa che “lingua mortale non dice”. C’è un passo di Luciano di Samosata nei “Dialoghi dei morti” che scolpisce questo indicibile, quando richiesto nel regno delle ombre a un morto quanto gli manchi la luce risponde che gliene basterebbe un barlume…
Ferrara è la mia amata prigione, dalla quale ho sempre sognato di andarmene, ma guardandomi bene dall’ uscire dal sogno. Consapevole che è assai meglio sognare la vita che avrebbe potuto essere, che andare a verificare che questa vita ideale non esiste da nessuna parte della terra. Credo sia la cocente delusione, questa, provata da Leopardi nel suo uscire da Recanati per la prima volta, nel 1822, andando a soggiornare dagli zii materni Antici Mattei, a Roma. Qualcosa del genere aveva capito, rimanendo tutta la vita ad Alessandria d’Egitto, Costantino Kavafis, nella poesia “La città”: (…) “la città ti verrà dietro. Andrai vagando/ per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere. / Imbiancherai in queste stesse case. Sempre/ farai capo a questa città. Altrove, non sperare, / non c’è nave non c’è strada per te”.



In una mia poesia di “Felicità di perdersi” ho alluso a questo stesso sentimento kavafisiano della mia città, sintetizzato nell’ultimo verso:
                                
La morsa dell’inverno
stringe i corpi ad amarsi,
affatica i passi,
inganna gli anni vecchi,
in vista d’uno nuovo
li convince a risposarsi.
Sognavo da ragazzo
le vie d’una città
dove sentire solo
gli orologi battere il tempo,
vere stanze d’una casa.
Oggi è tutta mia
questa città del silenzio,
alta, sui banchi di neve alle finestre,
Ferrara è la mia camera da letto.

(“Ferrara alta”)

Ferrara. Una veduta del centro
                               

Questa “città del silenzio”… Ecco subito evocato il fantasma di D’Annunzio con la sua poesia sulla “deserta bellezza di Ferrara” che si legge nelle “Laudi”. La mia città è fin troppo coccolata e amata dall’Arte e dalla Letteratura, impreziosita ma anche imbalsamata com’è da tante altissime testimonianze di artisti e scrittori che vi hanno vissuto o vivendoci per qualche tempo ne hanno colto l’aura metafisica. L’elenco sarebbe lungo. Comincia con i pittori di Palazzo Schifanoia, la scuola del Tura, il Cossa, De’ Roberti, poi continua con i Dossi, fino ad arrivare alla scuola metafisica novecentesca di De Chirico, Savinio, Carrà e alla pittura di De Pisis che pure ne fuggì giovanissimo. E prosegue in parallelo con i poeti, narratori e uomini di penna, con Matteo Maria Boiardo, Lodovico Ariosto, Torquato Tasso, Daniello Bartoli, Gabriele D’Annunzio, Corrado Govoni, Riccardo Bacchelli, Lanfranco Caretti, Giorgio Bassani, Gianfranco Rossi. E che dire dei registi, con figli come Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini e Massimo Sani? Una simile fortunata nominanza rende difficile sopravvivere con agio fra le sue mura a chi in qualche modo erediti il “mestiere” di quei sommi. Perché forse Rovigo e Padova, ma anche Bologna, Modena e Reggio, per nominare solo le più vicine città, possono vantarne una altrettanta alta?

Ferrara vista dall'alto

La verità è che vivendo a Ferrara ti aleggia sul collo un perenne confronto perdente, quasi il senso di colpa di non essere perfetto come loro, i grandi morti che hanno illustrato con la parola o il pennello la città estense. E non cito a caso l’aggettivo “estense”, perché anche il nome della casata che fu Signora della città per più di trecento anni ha un potere meduseo, che la blocca a rimirarsi come Narciso nello specchio del passato. Tutto qui è estense, il panpepato, la squadra di calcio, il premio di giornalismo, il budino, le biciclette, le marche di svariati prodotti che non paiono credibili e seri se non portano quel magico nome. E così si insinua nella psiche dei miei concittadini un altro confronto perdente, quello con il periodo aureo della loro storia, la dominazione degli Este. Quando Ferrara fu capitale di stato, e che stato! Una delle corti che irradiavano della loro luce di mecenatismo tutto il Bel Paese e anche l’Europa rinascimentale, se una principessa della casa reale francese, Renata di Valois, sposò uno dei suoi duchi, Ercole II. Bologna non fu mai capitale di stato. E si sente in quella pur bella città, priva com’è di quell’unicum che è il complesso urbanistico monumentale di Ferrara. Qualcosa di questa diversità rifulge infatti ancora nello splendore monumentale della Addizione Erculea, quella del primo piano regolatore d’Europa secondo Bruno Zevi, voluta dal duca Ercole I e realizzata da Biagio Rossetti. 

Il Castello estense riflesso nell'acqua

Nella planimetria di quel reticolo di vie così ortogonali calcolata con sottili rinvii esoterici dall’astrologo Pellegrino Prisciani, dotto segretario del duca Ercole I, ancora scorre il nostro traffico dopo Cinquecento anni. Aveva ragione Borges quando in una sua mirabile poesia, “Ariosto e gli Arabi”, scriveva che Lodovico Ariosto, “andava per le strade di Ferrara/ e al tempo stesso andava per la luna”… Perché la cifra più tipica di Ferrara è la sua sospensione nel Tempo, che qui sembra non scorrere più e fermarsi. Quasi in armonia con le stelle e i pianeti come la luna, quei corpi che sono eterni e pur misurano coi loro movimenti il divenire delle forme viventi che eterne non sono: “ma tu mortal non sei,/e forse del mio dir poco ti cale”, scriveva Leopardi della luna, nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”.

Uno scorcio delle mura

Una volta, qualche anno fa, ho scritto un racconto fantastico per una rivista che veniva pubblicata dalla Cassa di Risparmio, dove lavorava mio padre, oggi assorbita da altra banca, nel quale ho immaginato fra cento anni Ferrara come una nuova Venezia, invasa dalle acque, con le mura rossettiane del 1492 lambite dal mare Adriatico. Non inventavo però nulla che non poggiasse su solidi fondamenti. Tiravo solo le conclusioni di alcune inquietanti ricerche scientifiche sul mutamento del clima che vedrà entro cento anni varie parti della terra invase dalle acque dei mari. La nostra pianura del Po diverrà un golfo e Ferrara sarà con ogni probabilità percorsa da vaporetti per la stazione, se i treni vi passeranno ancora. Cosa messa già in forse nel mio romanzo “La città volante” che Dario Fo e Sebastiano Vassalli presentarono al premio Strega nel 1999. Probabilmente nel mio racconto fantastico mettevo in vena il sogno segreto di vivere in un altrove che solo dormendo una notte in albergo invece che a casa mia, in Contrada della rosa, mi pare possa alimentarsi. Volevo ascoltare cioè l’urlo delle sirene delle navi, non più i clacson delle automobili, arrivare alle mie orecchie mentre stavo addormentandomi. A dilatarmi così le pareti della mia amata prigione elevando Ferrara agli spazi di una città marinara, affacciata a quella metafora dell’infinito che è sempre il mare. Sazia di quell’altra a cui era arresa da tanti secoli, la grande pianura. Comincerà allora un’altra storia per Ferrara, che evocherà forse un altro poeta a riempire quel vasto spazio che è il mare, così come aveva riempito delle sue favole sulla Cavalleria, il gran vuoto della pianura il sommo Ariosto.


Uno scorcio di Ferrara di notte