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domenica 30 dicembre 2018

Taccuino
SUL “MESTIERE” DI SCRITTORE
di Angelo Gaccione

Angelo Gaccione
foto di Stefano Merlini Bejart (Milano, 2018)

Dunque, io sarei quel che si dice un maledetto scrittore, (non uno scrittore maledetto, questo è bene chiarirlo subito). Il mio amico Vincenzo Pardini ha scritto che quello dello scrittore non è un mestiere (io l’ho sempre definito un insano mestiere), ma “una vocazione”. Come fare il prete? (no, questa è una chiamata mistica), come curare i lebbrosi? (nemmeno, questa è una missione), come un maratoneta? (ancora no, questa è semmai una passione). La vocazione è qualcosa di più indefinito, qualcosa di più ambiguo, di più sfuggente e non riconducibile ad una oggettiva concretezza, anche se il risultato, l’esito di questa vocazione, produce un “prodotto” (la parola è orribile) concreto e oggettivo: in genere un libro fatto di fogli di carta, materiale ricavato dagli alberi, che foglie (al femminile) ne producono davvero, e che hanno una vita concreta che più concreta non si può. Io non so se è una vocazione o una passione, questo “non” mestiere; per me è stata una dannazione, questo posso affermarlo con assoluta certezza. Dannazione per gli esiti non sempre ritenuti felici da quello spietato e severo tiranno ipercritico che si è annidato in voi e non vi dà tregua, anche quando i vostri scritti sono stati ben accolti. Dannazione per l’insoddisfazione che sempre vi divora, tesi come siete verso una impossibile perfezione. Dannazione per i giorni e giorni spesi su un concetto, una frase, una singola parola. E poi delusione per come siete stati fraintesi, delusione per il silenzio su uno scritto che non l’avrebbe meritato, delusione per la superficialità dimostrata verso un lavoro che ha richiesto anni di fatica, di sacrifici, di solitudine, di tempo sottratto al riposo, allo svago, agli affetti, alla salute. Senza contare il disagio per le figure con cui siete costretti ad entrare in contatto, molte volte lontanissime dal vostro sentire, dalla vostra visione di mondo, esseri spesso insopportabili e, diciamolo pure, ripugnanti. Se poi avete conservato un briciolo di dignità morale, questo “non” mestiere che vorrebbe costringervi ad ingoiare rospi di ogni tipo, ad adulare personaggi disgustosi, a diventare servi, ad essere perbenisti, conformisti, insomma a mangiare merda, vi renderà la vita molto amara. Se avete un animo ribelle, come l’ho avuto io, non vi conviene avventurarvi lungo questo impervio sentiero, e se lo farete, dovete prepararvi ad avere spalle larghe e stomaco robusto per incassare e nello stesso tempo ribattere colpo su colpo. È facile che vi troverete ad essere stranieri in patria, a suscitare invidie, rivalse, maldicenze, a rimanere isolati. Se il cinismo non ha anestetizzato del tutto i vostri sentimenti, e se la vostra anima è ancora capace di commuoversi davanti al disumano sociale, vi farete molti nemici. La nobiltà di questo mestiere (ma non è la sola nobiltà) consiste proprio nella sua strenua resistenza al disumano. E dunque dovete scegliere da che parte stare, se non volete diventare una canaglia del potere. Ovviamente potete seguire la via più facile, quella più comoda e remunerativa, quella più opportunisticamente gratificante, ma a patto che non abbiate una sola idea che sia vostra, personale, pericolosa; che le vostre idee non abbiano alcun valore, e che siate già parte integrante del branco. Ma in questo caso voi stessi, come il mestiere che avete umiliato, non valete nulla. Dovete poi mettere in conto che non vi basterà una vita per impararlo fino in fondo, questo mestiere: è possibile che il bilancio di un’intera esistenza di scrittura sarà stato vano e che non vi sarà rimasto, alla fine, che un magro bottino. Tutto quello che ho imparato io da questa oramai lunghissima pratica, non è come scrivere, ma come non devo scrivere. È il mio misero bottino, non è poca cosa e non me ne lamento. Non è un mestiere pericoloso (come lavorare in miniera, ad esempio), ma può tuttavia diventarlo: non dimenticate che i suicidi sono molto frequenti fra la categoria, e l’ansia, il senso di vuoto, di fallimento, di malinconia, di ineffabile silente disperazione, non vi abbandoneranno mai. Saranno perennemente in agguato, pronti per ghermirvi.

INDIVIDUALISMO COMPETITIVO
di Franco Astengo

Individualismo competitivo. Individualismo difensivo. Individualismo della paura che si racchiude nel “branco”.
Sono stati questi i tre passaggi che si sono via via succeduti nella rovina del “moderno e che hanno determinato lo spezzarsi dei legami sociali, lo sfarinamento dell’idea di elaborazione del collettivo, il riflusso nella difesa del proprio “particolare”.
Un particolare collegato all’odio ben oltre verso il “diverso”, ma semplicemente rivolto verso “l’altro”. Un odio sociale arrivato al punto da far rigenerare una forma di razzismo come sottofondo del quotidiano ed esercitato nel segno del “comando unico” imposto dall’alto. Globalizzazione, sovranazionalità, estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione morale. Attorno a questi fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura occidentale della storia ha tentato, nel post-caduta del socialismo reale, di rispondere (fallendo) contrabbandando come la centralità del singolo corrispondesse alla “fine della storia” e al “mercato” quale unica forma possibile di relazione umana. Il senso dell’appartenenza collettiva mediata dallo Stato lasciava il posto a una nuova dialettica che si pensava potesse risolversi semplicemente presentando la propria coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di funzione del potere costituito. Prendeva così corpo una fase di vera e propria egemonia dell’antipolitica fondata su quello che è stato definito “individualismo competitivo”.
Una forma specifica di affermazione dell’individuo portata in tutti i campi e in ogni dimensione possibile ma che ha finito con il trasformare “il politico” quale soggetto stesso in contemporanea dell’azione e della sua critica, fino a far generare proprio da se stesso l’idea che è stata definita di “antipolitica”.
Una “antipolitica” intesa come richiesta di affermazione dell’egoismo.
A fermare il fenomeno non poteva essere sufficiente il richiamo alla “ legge morale dentro di sé”. La competizione politica ridotta all’ “individualismo competitivo” come i neo liberal avevano imposto non poteva che portare a una degenerazione.
Degenerazione dovuta all’assenza di protezione, all’incapacità di superare singolarmente i grandi traumi che la fase storica imponeva a ogni passaggio, specialmente sotto l’aspetto del mutamento delle condizioni di vita imposte dalla globalizzazione, dall’innovazione tecnologica, dalla perdita di ruolo da parte dello Stato sottoposto al nuovo livello di vincoli dovuti dalla sovranazionalità attuata nel segno del potere dell’economia e della tecnica.
L’individualismo competitivo a, questo punto, finiva con il trincerarsi dietro a un individualismo difensivo con l’affermarsi di un collegamento sociale di stampo corporativo: se ne rintracciano esempi in diversi sistemi politici, ma quello più evidente rimane il caso dell’affermazione di Trump negli USA.
Non ci si poteva però fermare a questo punto: fenomeni economici, politici, sociali, militari che abbiamo adesso sotto gli occhi (assieme all’incapacità di affrontare la complessità delle contraddizioni in atto) hanno condotto a quello che, in altre sedi, si è cercato di definire come “sfarinamento sociale” e di “disarticolazione delle ragioni del consenso e del dissenso”.
Si è smarrito, insomma, l’asse logico del riferimento politico. Il passaggio conseguente è stato, quindi, quello dall’individualismo difensivo all’individualismo “della paura”. Un individualismo definibile della “chiusura totale” e della possibilità di riconoscimento riservata soltanto fra simili.
Quale può essere allora la possibile aggregazione in tempi di “individualismo della paura”? Quella del “branco”, ricordando come il branco abbia sempre bisogno di un capo-branco.
Rispetto alla situazione italiana se s’intende ravvedere, in quest’ultima frase, un accenno alla situazione in atto si può ben affermare che esso è voluto e non casuale. Branco e relativo capo-branco sono il risultato di decenni di crisi profonda della “modernità” e degli assetti culturali e politici che vi si erano stabiliti.
Occorre allora richiamarci in maniera diversa da ciò che sembra imposto dal vuoto dell’attualità per recuperare la capacità dell'intellettuale di presentarsi come portare di un pensiero concreto della pluralità, del conflitto, dell'immanenza, del materialismo.
Si tratta di non cedere, come intende Habermas, all'idea che dalla caduta della modernità potrà salvarci soltanto una religione. La forza del lavoro intellettuale deve invece essere utilizzata per chiamare a raccolta quante/i si sottraggono, oggi, alla politica, richiamando l’impossibilità del non tirarsi fuori dal procedere, inesorabile, della dialettica della storia.



LA STORIELLA DEL GLIFOSATO                 
di Luigi Caroli

                                                                          
Leggete e diffondete
per ritardar l’arrivo del prete

Ora è l’oro del Reno

(la storiellina è del Glisofato
un diserbante molto rinomato;
col dentifricio protegge il tuo palato
nel Colgate, ad esempio, è utilizzato)

Napolitan* nomò la senatrice:                   
abbellir dee ciò che Monsanto dice.
e nel Presepe, ricordo di Betlemme,
con mirra e incenso, l’oro è Ogm.

Passan le Alpi, volan gli aquiloni,
sotto le ali nascondono i milioni
che, atterrati, diverran prebenda
per chi e per che non v’è chi non l’intenda.

Poscia che acquisto fecero i tedeschi
ritorneran dispensator di teschi             
ché la Monsanto, ditta americana,     
a Bayer** procurò la Durlindana (3)       

Se il cancro segue (4), non è pericolosa?   
Perché quinquennio ancor l’orribil cosa?    
Già due milioni sono i firmatari,              
fate spallucce o vi fingete ignari?                        

Questo, lettore, è dono dell’Europa (5).   
Tu lo prendi nel cul mentr’altri scopa.        
Battiamoci perché il Glisofato           
sull’italico suol non venga usato.         

Oppur è il tuo cervel modificato?
Avvenne a senator di questo Stato.
  
Note
*Chi della democrazia ha fatto strame e ci ha fatto affogare nel letame.
**La più grande società chimica tedesca.
(3)La spada usata da Orlando, paladino di Carlo Magno re dei Franchi.
(4)Un giudice della California l’ha sentenziato condannando la Monsanto
a risarcire i parenti della vittima (un giardiniere colpito da tumore).
(5) Se il prodotto è cancerogeno, perché gli europarlamentari hanno approvato ancora un quinquennio di strage? I tedeschi devono guadagnare anche su questo?

SPINE
di Giuseppe Denti



I privilegiati
sono l’invenzione del potere.

*
La cicala è triste,
e questo perché la sua voce
ha perso di volume.

*
Il postino
di solito suona due volte,
la morte una sola volta.

LETTURA/27
Aforismi per un giorno solo
di Nicolino Longo



1.“Fra coniugi anziani: Ci sarà felicità, in questa casa, finché litigheremo
come cane e gatto; e non quando, poi, uno di noi ci resterà solo come un cane”.

*
2.“Niente ci rende più ricchi degli sforzi che facciamo a fin di bene”.

*
3.“La pancetta: ci è di buon gusto per il palato. Ma non certo per il girovita”.

*
4.“La vecchiaia: discesa di carne, in salita d’anni”.

*
5.“Ad ogni bambino, essendo per sua natura curioso, e, quindi, filosofo,
per diventare adulto, basterà solo restare bambino”.

*
6.“Correre ai ripari, e… trovarli chiusi”.

*
7.“Afflitto da sospetta calcolosi, pagò il ticket per l’ecografia, e, alla fine,
non si trovò coi calcoli”.

*
8.“Il pappagallo: riempiesi di becchime, in gabbia; di urina, in ospedale”.

*
9.“Ci sono coppie che, pur facendosi sempre la guerra, riescono, poi,
a restare unite fino alla firma della pace… dei sensi”.

*
10.“Si dà alla macchia, sol chi ne ha tante sulla coscienza”.

*
11.“Nella Roma antica, le guardie al cocchiere inosservante: ‘Sono 40 sesterzi’.
‘State tranquille, non sterzerò’ ”.

*
12.“Anche se rinnovatasi, nessuno avrà più Fede in Rete Quattro”.

*
13. “Ci sono uomini alti, ma assai più bassi della loro testa”.

*
14.“Chi è piegato nel corpo, è piagato nell’anima”.

*
15.“I prati: campi minati con ordigni di colori, che, al passaggio
della primavera, esplodono in tante corolle, a breve altezza dal suolo”.

*
16.“L’Italia, mai come oggi, è sempre al centro della polITica europea”.

*
17.“I cani: c’è quello che s’alza di scatto, e insegue la volpe; e c’è quello
che s’abbassa di scatto, e spara alla volpe”.

*
18.“L’uomo di valore vola basso col corpo, alto con la mente”.

 *
19.“Ovunque abbia soldi lo Stato, ci son ladri appostati”.

*
20.“Ci sono stati uomini che hanno raggiunto la fama, cavalcando la fame”.













AMERICA
di Ilaria*
Adamo Calabrese "Alba"


La Notizia

(Nonna) Ehi! Mi ascolti? Ho una notizia importante.
(Nonno) C’è stato un naufragio? Un barcone è affondato nel Mare Nostrum? Israele ha bombardato un’altra volta la Striscia? Un invasato ha tentato una strage in qualche città europea gridando Allah Akbar? Avanti, spara, sono preparato.
Uh, che pizza! Pensa positivo.
Non ci riesco. Erdogan ha imprigionato 10,000 curdi? Trump ha messo i dazi sul pecorino?
Insomma, piantala! Ti ho chiesto un guizzo di ottimismo.
Ok, mi arrendo. Qual è la bella notizia?
Chiudi gli occhi e sogna. Questa settimana è arrivato l’OK.
Non ho sentito suonare alla porta e non saprei riconoscere nessuno che si faccia passare per OK.
Qualcuno aspettava un OK, qualcuno che ci vuole bene. Hai capito?
Boh! Allora parla chiaro e non continuare a stuzzicarmi e innervosirmi.
Ilaria. La nostra nipote Ilaria andrà negli States.
Davvero! Finalmente è finito lo strazio di questa lunga attesa. Sono pronto. Andiamo ad accompagnarla. Dove hai messo le mie scarpe bianche?
Calma. Ilaria ha chiamato per annunciarci che partirà, ma non adesso.
Partirà per dove? Io voglio tornare a San Francisco. Mi serve anche la K-way, c’è sempre vento di questa stagione.
Noi non partiamo. Ilaria viene a pranzo da noi. Andiamo a fare la spesa che non abbiamo niente in casa.
Il frigo è pieno, che cosa ci serve?
La verdura, i pomodori secchi. Oh, sveglia!
Intanto lei ha il suo OK per l’America e noi restiamo qui come due merli.
L’hai detto: proprio due merli.
Mamma mia. La giornata è cominciata bene e così deve continuare.
Prendi la borsa della spesa e usciamo che si fa tardi.
Ci compriamo una pizzetta alla piccola?
No. Non le mangia. E poi non è più piccola. È grande. Va in America.
Ok, ok. Ho capito. Poi le chiedo l’indirizzo che le voglio scrivere.
Non sa dove andrà.
Che cosa sa?
Sa che partirà.
Che bello!



venerdì 28 dicembre 2018

MANDORLE AMARE
di Fulvio Papi



Che cosa succede quando leggiamo nelle pagine del giovane Nietzsche questa proposizione: “Senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà”? Credo venga subito in mente la cultura tedesca che corre tra 800 e primo Novecento, interpretata in un celebre e criticato libro di Lukács come preludio simbolico dell’etos nazista. All’opposto vi è il costume democratico (quanto in crisi lo sanno tutti) che, per l’estensione del potere capitalistico, è diventato il costume di vita americano, come mitologia. Il primo caso è costato una guerra con sessanta milioni di morti. Il secondo con la trasformazione di ogni forma di civiltà e di sapere in un mercato, dove non si misura solo lo scambio mercantile ma anche il successo dell’ “eroe”. La prima realizzazione del mito – lo stile nazista – è stata vinta, anche se non annullata, poiché la vita sociale e storica è piena di somiglianze e di ritorni. La seconda realizzazione del mito ha agito progressivamente sul mondo come utilizzazione infinita delle risorse naturali (che i “francofortesi” avevano compreso molto tempo fa), la riproduzione sociale dominata dall’allargamento del denaro, la vita sociale come spettacolo prigioniera degli effetti di queste condizioni. Lo sviluppo storico, dove la forza dell’intelligenza è purtroppo dominata dall’estensione dei poteri, ci ha condotto sulla soglia della catastrofe. Ancorché attenuata dalle forme di comunicazione, è nota la conclusione degli studi degli scienziati che lavorano per l’ONU i quali affermano che allo stato attuale del riscaldamento del pianeta abbiamo davanti a noi 12 anni prima che i guasti della terra che noi oggi qui conosciamo, diventino irreversibili e conducano a una situazione che richiederà l’emigrazione di mezzo miliardo di persone poiché le loro terre saranno invase dalle acque. 



Noi, filosofi o storici, non abbiamo nessun potere sul futuro e pochissimo sull’educazione sociale. Siamo in un margine irrilevante, a nostro modo siamo i “copisti” (ricordate i monaci che salvano i testi classici), più o meno abili, dell’orizzonte del declino definitivo della nostra civiltà. Non sto ripetendo le categorie di Splenger di cento anni fa, e tanto meno, la giustificazione della comunità di violenti che nella crisi leggevano la loro legittimità.
Naturalmente ci sono copisti e copisti. I più validi sono quelli che analizzano la realtà di oggi e ci mettono di fronte alla catastrofe delle concezioni acquisite sessant’anni fa invitandoci a nuove forme di pensiero. Molto meno interessanti sono i “copisti” che non sanno di esserlo, e propongono scelte per il futuro che ripetono proprio i valori che sono in crisi: un’ironia tautologica. Il rischio è quello di tentare di pensare il presente con categorie che vengono dal passato. In questo cerchio catastrofico avremmo almeno però, almeno nella teoria, gli strumenti per evitare il peggio, ma non c’è il soggetto che possa renderli attivi. Chi dirige (e anche le popolazioni) resuscita lo Stato ottocentesco quando Ricardo non voleva l’esportazione della moneta inglese. Che a costoro tocchi l’egemonia è un’ironia storica che deriva da molti motivi ma anche dall’invecchiamento delle istituzioni, che vuol dire la loro prevalenza formale. Ora dovrei parlare del “popolo” alla Rousseau, o all’opposto, di Nietzsche. Ma non sono le dottrine che contano e, ovviamente anche i loro ripetitori, spesso chiusi in queste gabbie vanamente “elevate”. I valori “teologici” del mercato elaborati dalla cultura del capitalismo informatico, hanno occupato la scena attuale nell’euforia e, oggi, nella paura e nella depressione. Potevamo essere di ostacolo a questo processo. Ciascuno cerchi di rispondere onestamente. Quello che ho scritto non mi piace anche se voleva essere solo un tentativo (alla Lessing) di avvicinamento alla “verità”. Alla fine ha un sapore di mandorle amare. 

giovedì 27 dicembre 2018

IL CALCIO COME SEDE DELL’INDIVIDUALISMO 
DELLA PAURA
di Franco Astengo


Questa la notizia che arriva da Milano nel post Inter-Napoli, partita nella quale la tensione razzista ha suonato un diapason ad altissima frequenza.

“È morto per le ferite riportate un tifoso di 35 anni, investito ieri sera prima della partita Inter-Napoli a San Siro. Un episodio che aveva già un grave bilancio, con quattro tifosi napoletani accoltellati durante gli scontri. L'uomo si chiamava Daniele Belardinelli, era un ultrà di Varese con già un Daspo alle spalle e - stando alle prime informazioni - faceva parte del "commando" di un centinaio di tifosi interisti che hanno teso un agguato ai napoletani prima dell'arrivo allo stadio. Immediata la reazione delle forze dell'ordine: il questore Marcello Cardona, parlando di "azione squadrista" ha detto che chiederà di vietare "le trasferte dell'Inter fino alla fine del campionato e la chiusura della curva dell'Inter fino a marzo 2019, per 5 partite". Tre ultrà interisti sono stati arrestati per rissa aggravata e lesioni.”.
Si è scritto in tante occasioni del calcio come metafora della vita “nel bene e nel male”, per denigrare gli eccessi di tifosi, dirigenti, atleti oppure per esaltare la virtù di una necessaria “moralità” della pratica sportiva. Milano in fine di questo 2018 dimostra come il quadro sia mutato anche se in passato cose orribili ne sono accadute tante, dall’omicidio Paparelli a quello Spagnolo, fino alla “summa” rappresentata dalla notte dell’Heysel. Oggi però il calcio appare come riflesso della scompaginazione sociale provocata dall’odio di massa, dal razzismo esercitato a piene mani nella quotidianità e anzi trasformato in emblema di una riscossa politica. Il razzismo diventato una bandiera da sventolare in faccia a presunti nemici.



Il razzismo come identità.
Si è scritto di “individualismo difensivo”: queste esternazioni collettive come quelle viste in atto nella serata di Inter-Napoli fanno pensare piuttosto a un “individualismo della paura”.
La stessa logica insita nell’idea della libertà di sparare per presunzione di legittima difesa.
Dobbiamo convincerci che ci troviamo a una svolta del quadro di relazioni sociali così come queste erano state tracciare nella “modernità”.
Uno sfilacciamento morale e culturale che incide sulla vita quotidiana e pure sulle espressioni della politica, sull’idea di comunità. Non c’è più spazio per l’appartenenza a precisi, anche se diversi, filoni di pensiero da confrontare in dibattiti seriamente appassionati. Non c’è più metafora: quello che accade sui campi di calcio è lo specchio di ciò che avviene giorno per giorno in una progressiva mimetizzazione collettiva al ribasso. C’è stato chi ha pensato di collocarsi a questo livello per raggiungere il potere: una trasformazione  riuscita  nell’immaginario, buona per la costruzione di una nuova oligarchia che svolga funzione di “scena” con la recita dell’uomo qualunque che si sofferma a pensare per gli altri. Intanto il modello offerto alle masse funziona e nell’incoscienza generale fa passare i messaggi dell’egoismo, del “prima noi”, dell’esercizio della sopraffazione. Non s’individuano più i confini tra l’azione politica e la realtà sociale.
Nella confusione generale anche il calcio sfugge alla vecchia affermazione della “metafora” e diventa occasione per nascondersi in una notte nella quale davvero tutte le vacche sono nere, e i tempi della notte sembrano allungarsi all’infinito.

martedì 25 dicembre 2018

PIERFRANCO BRUNI
Donne oranti


Raccontai la storia
dello sciamano
e la luna dell'alba
sfiorò il canto dell’aurora
nel silenzio battuto
dalle macerie
Non ci fu il tempo
delle infanzie
Gli dèi nelle conchiglie
della roccia avevano
scavato
gli echi di Omero
Il rosso era una trincea
di mare
Il pianto di Ecuba
sostò tra gli sguardi
della curandera
nel suono dei tamburi.
La danza nel giro del falò
sconfisse la storia
e rimasero
le donne oranti
a cercare i Re Magi
nel deserto dell'anima.
POVERO ME!
di Angelo Gaccione


Recentemente Peace-Link Disarmo ha pubblicato una illuminante intervista a Luca Frusone del Movimento 5 Stelle, capo della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato. Tralascio il resto delle farneticazioni di cui tale intervista è condita (del resto quando si continua a blaterare che le ideologie sono morte; che fra idee di destra e di sinistra non c’è alcuna differenza, è perché ad essere morta è la propria intelligenza e di idee non se ne possiede nemmeno mezza), e riporto il solo passaggio che ora mi interessa.

Domanda di Peace-Link: Gli Stati Uniti, soprattutto l’amministrazione Trump ma non solo, ricordano da tempo ai Paesi alleati di rispettare l’impegno del 2%. L’Italia intende onorarlo?

Risposta di Luca Frusone: Sì, senza dubbio. Siamo decisi a raggiungere quell’obiettivo in modo progressivo, ma crediamo si debba fare. Stiamo però conducendo una battaglia per valutare le nostre spese non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo.  
L’Italia conduce uno sforzo gigantesco, riconosciuto e apprezzato, per quanto riguarda le missioni all’estero e la formazione militare. Oggi tutto ciò non rientra nel computo. Pensiamo invece che queste voci debbano essere parte integrante del bilancio, perché a comporlo non possono essere solo i sistemi d’arma, pure importanti. Inoltre, aggiungo che in questo Paese va fatto un grande lavoro, in parte iniziato, per creare una  vera cultura della difesa tra i cittadini. Questa cultura può svilupparsi solo con maggiore dialogo e trasparenza sia da parte delle imprese del settore, sia da parte dello stesso governo che deve spiegare in modo chiaro a cosa servono gli investimenti fatti in difesa e sicurezza.

Vittorio Sedini
Per il Decennale di "Odissea" 

Per quanto mi riguarda ho sempre giudicato movimenti, ideologie, partiti e governi con un binomio infallibile, per sapere se si tratta di spazzatura reazionaria o di decenza progressista: da come si pongono su militarismo e spese di morte (quelle che con un edulcorato eufemismo si definiscono spese per la difesa -difesa di chi e perché?-). 
Non sto qui a ripetere quanto su queste pagine diciamo da ormai 16 anni, e da una vita in dibattiti pubblici, libri e scritti sull’argomento. La “pacifica” Repubblica Italiana spreca già da anni 70 milioni di euro al giorno per la spesa militare e la sua alleanza con la Nato. Si è fatta serva in tutto nei confronti della Nato, dominata da una politica estera americana che ha fatto più morti in giro per il mondo, di tutte le guerre che la storia ricordi. Ora il governo di cui i Cinque Stelle sono soci, non solo non ha approfittato della tremenda contingenza economica in cui il Paese si trova per tagliare le spese militari, ma addirittura fa peggio dei suoi predecessori promettendo di portare la spesa al 2%. E senza provarne vergogna. 
Figlio, se vuoi sapere da che parte stanno, ascolta cosa propongono, verifica cosa realizzano”. [Diffidenza popolare. Aforisma n. 236, pag. 48, del libro Il lato estremo di Angelo Gaccione, 2016]
   

I SEMI E GLI AUGURI DI AGNOLETTO



I semi dei contadini sono i semi del futuro, sono semi di civiltà
Vandana Shiva

Oggi siamo tutti chiamati ad essere contadini. Le tenebre sembrano dominare l’orizzonte e le luci dell’alba appaiono lontane. Ma se ciascuno continuerà con perseveranza a piantare i propri semi, le nostre speranze e le nostre idee di giustizia troveranno lo spazio e la credibilità che meritano. Il seme che non muore.
Questo credo sia il messaggio sempre attuale sul quale siamo invitati a riflettere ogni Natale, indipendentemente dal credo di ciascuno.
Tantissimi auguri,
Vittorio Agnoletto

CLAUDIA AZZOLA
Due poesie inedite

Claudio Zanini
 Acquerello 1970


NON CONOSCIAMO ALTRO CHE IL QUI


Non conosciamo altro che il ‘qui’
pieno di indicibili catene
neuronali, non conosciamo che
il ‘chi’, un affare direi rovente
da trattare, intuibile
come lo spasimo di un albero,
come l’abbandono del covile
del tasso, della lepre, della vile talpa.

non conosciamo che il ‘noi’, così poco poi
che tocca traslare dal cirillico,
dal giapponese, dal finnico;
il destino è irascibile,
si sfalda, si fa venire la bile
è inconoscibile, che bestia ostile!
solo un traslato, direi, per chi c’è,
chi ancora con la mente è.


TROPPO LUNGO IL RACCONTO

Mise alla prova il cuore vacillante
vergò parole l’angelo tuo signore,
e aggiunge, misteriosamente:
troppo lungo il racconto, dillo
a parabola, non forzare
gli spiriti, quello che solo tu sai.
Parole che hanno sofferto hanno
spezzato il tronco e il tallo in vita,
ferita la corteccia d’oro, dire
poco di parole è necessario,
una scheggia, poche ossessive lune
in mondo buio,
un mondo prosaico
e albeggia.

Claudia Azzola, poetessa scrittrice traduttrice, ha pubblicato, tra le raccolte poetiche, Viaggio sentimentale, Book Editore, 1994; Il poema incessante, monografia allegata alla rivista “Testuale”, 2007; La veglia d’Arte, Ed. La Vita Felice, 2012; Il mondo vivibile, La Vita Felice, 2016. Con questo editore, ha pubblicato Parlare a Gwinda, raccolta di novelle svolte in piani storici, da alcune delle quali sono state tratte sequenze teatrali. E’ presente in antologie in Italia e all’estero. É tradotta in Francia su testate cartacee e online. In Regno Unito ha collegamenti con il mondo letterario e sue poesie sono tradotte in  inglese. I Quaderni militano nel dibattito culturale  europeo, tra sperimentalismo e tradizione,  nello scambio tra autori tradotti, anche per la prima volta, con la collaborazione di studiosi a livello internazionale.      


La poesia
NICOLINO LONGO

A mia moglie 
(per il 60° genetliaco)

Maria Adriana Sisinno
moglie del poeta

Per me oggi sì ch’è “festa grande” (e sarà essa ancor più grande
grazie a Luisa, mia sorella,
che ne ha predisposto, alla chetichella,
pranzo, cena e dolci a crepapelle,
con bibite a catinelle): oggi mia moglie
“fa” sessant’anni,
sebben ne mostri solo trenta,
o appen quaranta.
Non ha rughe, né capelli bianchi: solo occhi titillanti,
ed è tanto, bella tanto che
averla accanto è un vero incanto.

Lei è una donna iperattiva, sin da quando era bambina.
Fa chilometri ancora a piedi;
ha tanta forza nelle braccia,
tanta forza nelle gambe, e non mai si dice stanca,
né mai in debito d’ossigeno,
reduce pur se da salite.
E ciò da cui lei trae supporto è giovialmente sempre e solo
l’amor pazzo per sua madre,
suo marito e i suoi nipoti,
e l’altruismo a più non posso con chi sol non mai l’affossa.

Anche se, a far, sa far più cose, Il suo lavoro è quel “d’ufficio”,
che lei svolge assai zelante e con devoto sacrificio.
Anche a casa fa altrettanto:
fa ogni cosa sempre in piedi,
ed è in grado di restarci molte volte tutta notte:
a preparare maccheroni, polpettine,
dolci ed altre leccornìe.
Oltre ad essere ambientalista, passatista e anche podista,
la più grande sua passione
è quella adunque “culinaria”:
e ciò ovviamente quand’è esente dal suo lavor municipale.

Quand’è a casa di mia sorella, infatti sta ai di lei fornelli
sempre in piedi e sempre attenta,
e se qualcun poi s’impossessa del lavello o la ramazza,
lei di certo non l’ammazza, ma
di sicur ne fa un processo.
Suo piacere è cucinare, non per sé ma sol per gli altri.
A lei, ch’è donna molto saggia,
garba sempre sol l’assaggio:
a lei, ch’eccelle nel “linguaggio”
e ch’è pur d’alto lignaggio, basta sol dare “messaggi”:
e lo fa senza mai sosta fino a plagiar color che ascoltano.

Con chi poi la contraddice, tira fuor sempre la lingua,
che lei dice d’aver lunga da Orsomarso fino a Lungro,
e mai nessun con lei la spunta.
Pur la memoria ha molto lunga,
portentosa, assai dotata:
lei ricorda infatti cose di tutti quasi i giorni andati:
che specifica e focalizza con quelli pur di settimana.

E, oltre ai tanti ed ancor tanti
numeri fissi e cellulari, e nomi e poi nomi
di persone e personaggi,
lei ha in “memoria” anch’assai date
di battesimi e compleanni, morti, nascite e matrimoni,
che tira fuori all’occasione
lasciando tutti sbalorditi. E lascia tutti sbalorditi
anche eseguendo ogni suo calcolo sempre in men che non si dica.
Come pur lasciò basiti,
lei ricorda e mai non scorda,
i Chiarissimi suoi Prof, Rohlfs e Giorgio Manacorda.

Altro pregio assai importante, che lei ha e nessuno sa,
è il suo “modus scribendi”,
che lei opera di getto,
con pur motti d’altri tempi,
e “trovate” dialettali che ne sono il “pepe”  e il “sale”.
Egregie pur le sue “interviste”,
con cui fa il suo “terzo grado”,
a person da cui lei acquista
quel saper che di buon grado poi dispensa ai pover cristi.

E, a proposito di eloquenza, un dì venendo da Cosenza,
con un pullman pien di gente
e le spalle al conducente,
lei intrattenne gli studenti,
da Arcavàcata a Cirella,
con aneddoti allibenti
su storielle del suo centro e ignoranza d’altri tempi.
Ma è soltanto a quel più breve
che dar posso io qui la voce:
“Per il sindaco analfabeta
firma il vice con una croce”.
E dopo tanti e tanti altri,
al par di questo ora citato,
a lei applausi a palate, lor crepati dalle risate.

Detti i pregi, ora i difetti: che son tanti, tanti e tanti che
occorrerebbe un anno intero
a elencarli tutti quanti: ma questi tutti suoi difetti,
per me ed anche per gli altri,
non son che tutto il resto dei suoi pregi qui non detti.
Ma un difetto va pur detto:
se lei dà un appuntamento
mai con tatto e mai sovente
lei l’onora puntualmente. E, se non ne ha resipiscenza
unitamente a pentimento,
non è per strafottenza,
e neppur per cattiveria:
ne son solo e sempre causa,
il lavoro, l’altruismo e la genial sua logorrea.

E, riparlando di lavoro, oltre a quel professionale
e a pur quello casalingo,
il lavor, che più l’aggrada, è il “geoponico-pastorale”,
a cui si applica con fervore
a espletarne le faccende,
apprese tutte ed affinate alla “scuol” di mia sorella,
e che van dal far conserve,
sottoli e sottaceti,
con pane e pizze al forno, pasta in casa e mozzarelle,
al far ciccioli e insaccati,
sugna e struffoli e ricotta,
nonché dolci e parmigiane, polenta e sottospiriti,
con zeppole e formaggio,
sanguinaccio e cacio-ricotta,
e pure l’orto. E tutto sol per suo diporto, e sua allegria.

Questa è dunque la mia Maria, per cui scrissi tante rime,
e feci pur tante pazzie.
Questa è pur la mia Adriana che,
di Nina, sua mammina, ha il nobil sangue baronale.
E questa è pur la mia sposina
che vivrà come  Regina con me Re fino alla fine.
E, se, dalla mia, avrò pur Dio, alla faccia del “grand’oblìo”.