Pagine

mercoledì 5 dicembre 2018

È MORTO IL CRITICO E POETA GIO FERRI

Gio Ferri

Abbiamo appena saputo dagli amici Adam Vaccaro e Vincenzo Guarracino, della scomparsa dell’amico  Gio Ferri. Pubblichiamo qui di seguito quanto ci è stato inviato, compreso la lunga nota di Guarracino. “Odissea” si associa al cordoglio ed esprime alla famiglia e a quanti lo hanno conosciuto e apprezzato, tutto l’affetto e la vicinaza. [a.g.]

Devo purtroppo comunicare che questa notte si è spento Gio Ferri, poeta e critico, fondatore e condirettore con Giuliano Gramigna e Gilberto Finzi, per oltre decenni, di  “Testuale, critica della poesia contemporanea”.  Gio Ferri è stato per me uno dei principali interlocutori di ricerca teorica intorno alla poesia, ma è stato prima di tutto esempio di straordinaria generosità umana, un fraterno carissimo amico. Infine, non da  ultimo, è stato uno dei cofondatori di “Milanocosa”, e mi ha costantemente sostenuto nella prosecuzione del suo attivo percorso culturale.
Ciao Gio, rimarrai presente in noi!
Adam Vaccaro

PS: Comunico che i funerali di Gio Ferri saranno domani, 6 dicembre, alle ore 11.00 presso la parrocchia di Santo Spirito, via Bassini 50, Milano.

                                                                 ***

 PER GIO FERRI

di Vincenzo Guarracino

La copertina di uno dei numeri della rivista


Rispondendo a una sollecitazione della poetessa Rosa Pierno, sulla compresenza di attività poetica e un’altrettanto intensa attività critica, aveva riaffermato la sua convinzione della necessità che il poeta debba esercitare la critica e che critico e poeta debbano convivere, nel senso che il poeta essere anche un critico.
È questo il filo conduttore di tutta la sua ricerca, nei campi più diversi cui si è dedicato, senza risparmiarsi dal ricercare e attivare continuamente tutte le possibili risorse del linguaggio, rifuggendo da uno sterile protagonismo.
Nato a Verona nel 1936, Gio Ferri è stato così giornalista, grafico, poeta, poeta visivo, critico d’arte e di letteratura. Uno sperimentatore, insomma, a tutto tondo, instancabile e indefesso. Fondatore assieme a Gilberto Finzi e Giuliano Gramigna nel 1983 della rivista “TESTUALE, critica della poesia contemporanea”, e poi  fino ad oggi direttore della stessa, è stato autore di almeno 30 raccolte di poesia, tra cui “Le Palais de Tokio”,  e il poema interminabile “L’Assassinio del poeta” (Anterem)  soprattutto “Inventa lengua” (Marsilio ), una messinscena di sé a partire dalle formelle della basilica veronese di San Zeno in uno straordinario “ibrido linguistico”, nel volgare di Giacomino da Verona, come l’aveva definito Giancarlo Buzzi.
Assieme a queste, ci sono narrazioni e teatro: “Albi” (Anterem), “Macbeth, ricreazione”, “Il Dialogo dei Principi” per la musica di Franco Ballabeni.
Nel campo della saggistica, innumerevoli saggi, presentazioni, prefazioni in particolare “La ragione poetica. Scrittura e nuove scienze” (Mursia). “Forme barocche nella poesia contemporanea” (L’assedio della poesia).
Una “carriera”, si diceva così una volta, intensa e intelligente: multis luminibus ingenii. Oggi che ne piangiamo la scomparsa credo che si possa ricordarlo e avere un’idea del suo multiforme ingegno, anche soltanto attraverso due testi che qui brevemente presentiamo.

L'appagamento della sposa

Vìtulo, è apparso         agli altipiani erti:
distende l’ansa            a quelle gioie mìtili;
docile giogo,               dolce solve i reperti,
accoglie e stempera    i sacri mostri, vìtili

alle pacate                  forme, rimira aperti
salvi, sospiri;              leva e rinfranca i seni,
e senza affanni           aspira ad altri merti.

(da:  Nozze pagane,  1988)

Da un discutibile pittore in crisi tre ottave per una brava attempata ragazza

Eccola Chiara, vien di rado, di tanto in tanto
offre callida carezza con qualche tristezza,
di quando in quando. “Rivestiti“ le dico non son
più arrapanti il collo, il petto, i fianchi formosi, i piedi.
Povera Chiara, una gran tenerezza vederti passare lenta
puntuale e sonnolenta, lo squarcio materasso,
mal sganciato reggipetto. Vieni con tristo affetto
per me per tutti per nessuno.

I seni ancor formosi scontornano il vallo del petto
per lasciare spazio eppur teso al glande ancor voglioso
che scende a cercar quella pur viva ferita rosa oltre l’oltre.
Eppure questo corpacciolo ti ha fatto pur mangiucchiare,
panza morbidosa e tette pomone facevano espressione.
De Kooning o Guttuso, persino Freud e Bacon. Fatta
disfatta affogata. Sfinita. E ora? Finito.
Vai sballonzolando i glutei disformati.

Giunonica giovenca. “Ero pur di rosa, carne golosa. Pur qualcosa.
Astiosa? Le donne non le dipingi più e t’ingegni
impossibili marchingegni ferrosi erosi porosi.
Donne le chiami ancora! O chiappe! Eppur tette! O Chiare!
Su dite, anche, ho costruito la mia abitudine a una vita
pervicacemente amara…”.  Ma ormai non è più quel simbolo
carnicino questo sdeflorato fiore… solo un’ansiosa stanchezza
per sere disfose come questa.

(Rilettura e radicale rifacimento dal Canto XI del ‘poema interminabile’
 “L’Assassinio  del poeta”).
  
Sono due testi della produzione poetica di Gio Ferri: uno, L'appagamento della sposa,
riferibile a Nozze pagane del 1988; l’altro, Da un discutibile pittore in crisi , più recente e sostanzialmente inedito, anche se nato da una costola del poema L’Assassinio del poeta, una sorta di poema interminabile che costituisce una sorta di enciclopedia della sua ricerca poetica; entrambi con in comune una visione della vita protesa alla rappresentazione della vita come messa in gioco ed esperienza di una voglia senza censure e misteri, non senza una traccia di premonizioni e presagi della fine. 
Nel primo, nella leggerezza allusiva e madrigalesca del testo, ci sono sulla scena, baldanzosi e orgogliosi della loro giovinezza e disponibilità, i due protagonisti di una storia, naturale e “pagana” quanto basta, protesa all’incontro amoroso e al conseguimento di un “appagamento” inscritto tutto senza censure e misteri nella sacralità dei sensi.
Nel secondo, una bellezza sfiorita, un corpo senza grazia in disfacimento con appena qualche traccia e ricordo dell’antica formositas ma senza più alcuna venustas: è questo che rappresenta Gio Ferri, in un testo intriso di cultura e rimandi letterari e in un linguaggio manieristicamente ricco ed elaborato, chiamando in campo lo “sdeflorato fiore” dell’antica fiamma di un “discutibile pittore in crisi”, indulgendo a metterne in evidenza i tratti deformati di una bellezza ormai appassita, priva di qualsiasi mica salis, di quel “pizzico di sale che trasforma”.