I NAVIGLI E LA
FOTOGRAFIA
di Angelo Gaccione
La copertina del volume |
Volumi fotografici dedicati ai Navigli ce n’è una
caterva e realizzati nel tempo dagli autori più diversi: da celebrati maestri
della fotografia a semplici appassionati, da sofisticati artisti dello strumento
a dilettanti di talento. Il risultato, dando un’occhiata a quelli che possiedo
e a quelli che ho potuto volta a volta consultare, è sempre visivamente
seducente. Questo angolo di Milano, malgrado tutte le offese che ha dovuto
subire, continua a conservare un fascino immutato e i suoi angoli restano
intrisi di una straordinaria atmosfera poetica. Forse è anche per questo che il
compito di un fotografo appena appena dotato di un minimo di sensibilità e di
capacità di vedere, è alquanto
facilitato. Le suggestioni sono molte, gli scorci perfetti, i dettagli
magnifici e la luce in certe ore sembra volere esaudire ogni vostro capriccio.
Purché, ovviamente, si possegga l’estro di accoglierli nel proprio obiettivo,
isolandoli dal complessivo e tenendo a bada il tutto, l’oggettivo che preme con
prepotenza.
Angelo Cremonesi al centro della foto. Ettore Buccianti al microfono e Angelo Gaccione a destra mentre consulta il volume, durante la presentazione in Via Laghetto a Milano (Foto:Stefano Merlini Bejart) |
Questo di Angelo Cremonesi (I Navigli e la vecchia darsena, edito dall’associazione culturale
Viennepierre, pagg. 132 € 29,00) arriva temporalmente per ultimo anche
se le foto risalgono agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Meno di
un trentennio, ma una enormità temporale, se si considera la rapidità con cui
in questa città le cose, le attività e le destinazioni d’uso mutano, e come i
corpi urbani e i semplici isolati vengano aggrediti dalla smania della
trasformazione. Scorrendo le pagine del volume di Cremonesi, molti si
accorgeranno che la trattoria dove avevano a suo tempo bevuto un bicchiere, è
diventata altro, ha cambiato genere, ha mutato aspetto; e così l’angolo dove
avevano ballato o si erano seduti. Da questo punto di vista il lavoro di
Cremonesi è utile anche perché fissa una memoria temporale e ne lascia tracce.
Sicuramente i Navigli non sono più quelli popolari che le stampe del primo dopoguerra
ricordano; non sono più quelli solidali che aveva nel cuore Alda Merini, “la
poetessa dei Navigli” come è stata definita, e come lei stessa si riteneva a
ragione, per avervi sempre vissuto; non sono più nemmeno quelli degli anni Settanta che ho conosciuto io, pieni di
fermenti artistici e rivoluzionari. E se la Merini rimpiangeva ciò che erano
stati, lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo li sentiva ormai estranei: teatrino finto, definiva i Navigli, per
lo stravolgimento speculativo e consumistico, per l’aspetto modaiolo, per
l’orda frivola e disimpegnata che li ha invasi, per il volto piccolo borghese
che dagli anni Ottanta in avanti ha assunto.
Un momento della presentazione (Foto. Stefano Merlini Bejart) |
L’album di Cremonesi registra e rimanda altri sapori, altri
toni: c’è una povertà dignitosa in questi volti e in queste figure, e c’è un
decoro negli interni dei cortili ben tenuti, sui ballatoi e sulle ringhiere
dove i panni stesi convivono con file di vasi di ogni sorta. La vita quotidiana
è colta nei suoi momenti più comuni: una donna che riempie un secchio nella
fontanella di un cortile, due ragazzine che giocano a palla, una portinaia che
mette le lettere nelle caselle della posta, un’altra che spazza davanti alla
porta, un signore con basco e un sacchetto con la spesa che aspetta il tram...
E poi la bottega di qualche vecchio mestiere, la faccia di un edicolante, il
banchetto del pescivendolo e quello del fruttivendolo, una coppia a passeggio,
un ghisa in bicicletta, due bimbe
sedute sui gradini di una scala con in braccio un gatto, un venditore di
zucchero filato, un vedutista col cavalletto su cui è concentrato a dipingere,
un omino che pittura una grata, un cane che sta entrando in un cortile... Tutto
rigorosamente in bianco e nero. Ed è forse l’assenza di colore che conferisce a
queste foto, a questa umanità popolare e popolana, e ai luoghi in cui è
ritratta, quel non so che di nostalgia, di magone che si allarga nel petto e
sale, sale fino alla gola.