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sabato 8 dicembre 2018

Taccuino
I NAVIGLI E LA FOTOGRAFIA
di Angelo Gaccione

La copertina del volume

Volumi fotografici dedicati ai Navigli ce n’è una caterva e realizzati nel tempo dagli autori più diversi: da celebrati maestri della fotografia a semplici appassionati, da sofisticati artisti dello strumento a dilettanti di talento. Il risultato, dando un’occhiata a quelli che possiedo e a quelli che ho potuto volta a volta consultare, è sempre visivamente seducente. Questo angolo di Milano, malgrado tutte le offese che ha dovuto subire, continua a conservare un fascino immutato e i suoi angoli restano intrisi di una straordinaria atmosfera poetica. Forse è anche per questo che il compito di un fotografo appena appena dotato di un minimo di sensibilità e di capacità di vedere, è alquanto facilitato. Le suggestioni sono molte, gli scorci perfetti, i dettagli magnifici e la luce in certe ore sembra volere esaudire ogni vostro capriccio. Purché, ovviamente, si possegga l’estro di accoglierli nel proprio obiettivo, isolandoli dal complessivo e tenendo a bada il tutto, l’oggettivo che preme con prepotenza.

Angelo Cremonesi al centro della foto.
Ettore Buccianti al microfono e Angelo Gaccione a destra
mentre consulta il volume, durante la presentazione
in Via Laghetto a Milano
(Foto:Stefano Merlini Bejart)

Questo di Angelo Cremonesi (I Navigli e la vecchia darsena, edito dall’associazione culturale Viennepierre, pagg. 132 € 29,00) arriva temporalmente per ultimo anche se le foto risalgono agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Meno di un trentennio, ma una enormità temporale, se si considera la rapidità con cui in questa città le cose, le attività e le destinazioni d’uso mutano, e come i corpi urbani e i semplici isolati vengano aggrediti dalla smania della trasformazione. Scorrendo le pagine del volume di Cremonesi, molti si accorgeranno che la trattoria dove avevano a suo tempo bevuto un bicchiere, è diventata altro, ha cambiato genere, ha mutato aspetto; e così l’angolo dove avevano ballato o si erano seduti. Da questo punto di vista il lavoro di Cremonesi è utile anche perché fissa una memoria temporale e ne lascia tracce. Sicuramente i Navigli non sono più quelli popolari che le stampe del primo dopoguerra ricordano; non sono più quelli solidali che aveva nel cuore Alda Merini, “la poetessa dei Navigli” come è stata definita, e come lei stessa si riteneva a ragione, per avervi sempre vissuto; non sono più nemmeno quelli degli anni  Settanta che ho conosciuto io, pieni di fermenti artistici e rivoluzionari. E se la Merini rimpiangeva ciò che erano stati, lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo li sentiva ormai estranei: teatrino finto, definiva i Navigli, per lo stravolgimento speculativo e consumistico, per l’aspetto modaiolo, per l’orda frivola e disimpegnata che li ha invasi, per il volto piccolo borghese che dagli anni Ottanta in avanti ha assunto.

Un momento della presentazione
(Foto. Stefano Merlini Bejart)

L’album di Cremonesi registra e rimanda altri sapori, altri toni: c’è una povertà dignitosa in questi volti e in queste figure, e c’è un decoro negli interni dei cortili ben tenuti, sui ballatoi e sulle ringhiere dove i panni stesi convivono con file di vasi di ogni sorta. La vita quotidiana è colta nei suoi momenti più comuni: una donna che riempie un secchio nella fontanella di un cortile, due ragazzine che giocano a palla, una portinaia che mette le lettere nelle caselle della posta, un’altra che spazza davanti alla porta, un signore con basco e un sacchetto con la spesa che aspetta il tram... E poi la bottega di qualche vecchio mestiere, la faccia di un edicolante, il banchetto del pescivendolo e quello del fruttivendolo, una coppia a passeggio, un ghisa in bicicletta, due bimbe sedute sui gradini di una scala con in braccio un gatto, un venditore di zucchero filato, un vedutista col cavalletto su cui è concentrato a dipingere, un omino che pittura una grata, un cane che sta entrando in un cortile... Tutto rigorosamente in bianco e nero. Ed è forse l’assenza di colore che conferisce a queste foto, a questa umanità popolare e popolana, e ai luoghi in cui è ritratta, quel non so che di nostalgia, di magone che si allarga nel petto e sale, sale fino alla gola.