di Franco Astengo
Di Maio |
Industria, a novembre crolla la produzione. E la crisi
economica non si ferma.
Il
premier Conte: "Mi attendevo e temevo un dato negativo come in
Europa". L’indice è diminuito in termini tendenziali del 2,6%. Crolla il settore
auto che sfiora una discesa del 20%. Moderata crescita tendenziale solo per i
beni di consumo (+0,7%); in calo beni intermedi (-5,3%) ed energia (-4,2%)
Di
Maio: "Siamo alle soglie di un nuovo boom economico"
Intervenendo
agli Stati generali dei Consulenti del lavoro, Di Maio ha parlato di un nuovo
boom grazie al digitale. Le due notizie sono di ieri e dimostrano la distanza
che ai vertici del governo si situa tra la realtà drammatica concretezza della
situazione in atto e la fantasia improvvisatrice di chi addirittura evoca il
boom economico. Una dimostrazione lampante della difficoltà che incontra la
politica italiana ormai immersa in una sorta di delirio mediatico attraverso il
quale si sono sparse promesse, si è fatto lievitare un consenso fondato su di
un gigantesco voto di scambio, si sono aperti conflitti a tutti i livelli che
sarà difficile comporre in futuro. Come si combina poi l’idea del boom
economico con la “decrescita felice” che apparentemente stava alla base della
filosofia alternativa espressa dal M5S, rimane tutto da dimostrare.
Evocare
il boom economico poi non è affare da poco e quindi vale la pena rinfrescare un
poco la memoria riassumendo, molto sommariamente, come si svolse la fase che
tra la fine degli anni’50 e primi anni’60 del XX secolo segnò un salto negli
indici di sviluppo dell’Italia mutando anche profondamente la vita quotidiana
di una parte importante del Paese. Non erano tutte rose e fiori:
quest’affermazione va posta in premesse e ricordata bene; si verificarono squilibri
enormi sul piano sociale e dell’uso del territorio tra le diverse parti
dell’Italia e si verificarono avvenimenti di grande importanza anche sul piano
politico.
Una sintetica
ricostruzione della fase del “miracolo economico”
L’Italia,
in passato, è stata protagonista propri nella fase di ricostruzione dalla
tragedia bellica di una particolare forma di economia mista che aveva già
caratterizzato il fascismo (dal quale del resto la giovane Repubblica aveva
ereditato strumenti d’iniziativa e gestione economica come l’IRI e l’ENI).
Nel
corso degli anni, a partire dalla seconda metà del ‘900, si verificarono veri e
propri spostamenti d’asse sul piano globale al riguardo dei riferimenti
relativi all’economia, alla produzione industriale, alla distribuzione del
reddito, alla diffusione del welfare state e della democrazia. In questo quadro
però l’economia italiana mantenne comunque limiti strutturali sui quali vale la
pena indagare anche dal punto di vista della ricostruzione storica. Limiti
strutturali che poi ebbero un peso nel corso dei tumultuosi processi
innestatisi nel corso degli anni’90 del XX secolo a causa dell’esplosione di
Tangentopoli e delle esigenze di riallineamento dovute alla stipula dei
trattati europei (specificatamente quello di Maastricht, datato 1992) e
successivamente all’ingresso nell’area della moneta unica.
Limiti
già apparsi evidenti fin dalla fase della seconda ricostruzione post-bellica,
preparatoria a quel “miracolo economico” che il nostro Paese visse a cavallo
tra la fine degli anni’50 e i primissimi anni del decennio successivo. Una
fase, quella 58-63 indicata come effettivamente contraddistinta dal “miracolo
economico” e coincidente con fenomeni politici di grande rilevanza sia sul
piano internazionale sia sul piano interno: dal cosiddetto “disgelo” tra i due
grandi blocchi militari allora esistenti sul piano planetario, all’incubazione
e formazione - in Italia - della formula del centrosinistra, con l’ingresso del
PSI nell’area di governo a fianco della DC.
Ricostruire
quella fase, allora, può risultare un esercizio utile anche per capire alcuni
fondamentali tratti della situazione attuale. Tratti che forse sfuggono a chi
pensa di poter parlare di “miracolo economico” imminente.
A
partire dal 1951 i successivi dodici anni furono caratterizzati da un veloce
sviluppo e da una profonda trasformazione strutturale.
Gli aspetti fondamentali
di questa evoluzione furono essenzialmente questi:
a) Il forte sviluppo
dell’industria manifatturiera, sviluppo che trasformò il Paese facendolo passare
da un’economia prevalentemente agricola a un’economia prevalentemente
industrializzata. Questo tipo di trasformazione risultò particolarmente
accentuato nella zona del triangolo industriale Milano –Torino - Genova dove le
novità manifatturiere arrivarono a contribuire per il 40% del PIL e per il
quasi 45% al totale del prodotto del settore privato;
b) Il passaggio da una
struttura chiusa agli scambi con l’estero a una struttura fortemente
caratterizzata da un processo di integrazione con gli altri paesi
industrializzati;
c) La conseguente
trasformazione nella struttura degli insediamenti, nella direzione di una
concentrazione sempre più elevata nelle grandi città con oltre 100.000 abitanti
che nel 1955 raccoglievano il 21,6% della popolazione: nel 1968 ne
raccoglievano già oltre il 28%.
Oltre
a questi aspetti, del resto comuni a ogni frangente di pronunciato sviluppo
industriale, il “caso italiano” ha presentato, in quel periodo, alcune
caratteristiche giudicate peculiari (formative, infatti, della dizione “caso
italiano” fin troppo frequentemente usata nel tempo, anche a sproposito).
Queste caratteristiche
peculiari potevano essere così descritte:
1)Un progressivo
“dualismo” della struttura produttiva, che nel contempo registrava la nascita e
la crescita di imprese tecnologicamente avanzate al livello delle industrie più
progredite nei paesi europei e il permanere di piccole strutture arretrate,
caratterizzate da bassa produttività e inefficienza;
2)La cosiddetta
“distorsione del consumismo” consistente nel fatto che, mentre alcuni consumi
privati anche di genere non necessario (motorizzazione privata,
elettrodomestici, televisori) si erano andati sviluppando molto velocemente
mentre altrettanto non era avvenuto nel settore dei consumi pubblici, anche nei
casi che avrebbero dovuto essere riconosciuti come assolutamente prioritari:
istruzione, sanità, casa;
3)Si allargava, intanto,
una distanza profonda fra il grado di sviluppo delle regioni settentrionali e
quello delle regioni meridionali, nonostante il flusso della spesa pubblica
fosse orientato prevalentemente verso il Sud.
Questi
tre aspetti, appena elencati, potevano da subito essere individuati come
elementi negativi eliminandoli attraverso una corretta impostazione della
politica economica.
Attorno
a questi elementi si sviluppò all’epoca un importante dibattito politico che,
alla fine, sortì però un esito sostanzialmente negativo : la politica di
pianificazione che il PSI avrebbe voluto portare all’interno della formazione
del centrosinistra fu sconfitta nell’arenarsi dello stesso centro sinistra a
mera formula di governo; il dibattito nel partito comunista (sviluppatosi nel
periodo a cavallo della morte di Togliatti, tra il convegno del Gramsci sulle
tendenze del capitalismo italiano del 1962 e l’XI congresso del 1966) si
attestò alla fine su di un punto di mediazione di tipo politicista sboccando alla
fine in una proposta quella del “compromesso storico” che poneva il tema del
governo con la DC tutta intera quale prospettiva decisiva per l’avvenire della
sinistra e del movimento operaio.
Rimase
senza seguito anche la celebre “Nota aggiuntiva alla relazione della situazione
economica del Paese”, redatta da Ugo La Malfa nel 1962, in cui si riconobbe che
l’imponente trasferimento di popolazione e di forza lavoro si risolveva in un
“depauperamento di un ambiente economico, sociale e umano incapace di trovare
un nuovo equilibrio sulla base di condizioni più moderne di produzione e di
produttività”.
Si
segnò così un evidente “dualismo” nella realtà produttiva: da un lato un
settore comprendente industria meccanica, chimica e in un momento successivo
anche l’abbigliamento e le calzature caratterizzato da livelli di produttività
assai elevati e dall’adozione di tecnologie molto avanzate e dall’altro settori
definiti “stagnanti” comprendete le industrie tessili e alimentari, l’industria
delle costruzioni e il commercio al dettaglio. Un dualismo mantenuto anche dal
tipo di intervento pubblico in economia sostenuto dalla presenza dell’IRI e
dalla mancata realizzazione di un progetto di uscita dalla sudditanza dalla
politica energetica incentrata sul petrolio governato dalla “sette sorelle”
attraverso l’ENI, mutilato a quel punto dall’ancora misteriosa scomparsa di
Enrico Mattei. Fin dagli ultimi anni del miracolo economico, quando
l’espansione era ancora in atto, emerse già la consapevolezza che il veloce
sviluppo del decennio precedente, se pure aveva risolto alcuni problemi tra i
più impellenti del paese (elettrificazione, infrastrutture, case popolari,
istruzione di base, aggressione alle più evidenti sacche di povertà), altri ne
aveva lasciati totalmente insoluti, se non addirittura aggravati e che si
trovano ancora alla base dai limiti di fondo dell’economia italiana, pur nel
mutato quadro tecnologico e di riferimenti di “vincolo esterno” come
realizzatosi nei decenni successivi:
b) Distorsione nei
consumi;
c) Distacco tra Nord e
Sud;
d) Inefficienza crescente
della spesa pubblica.
Il
quadro dello sviluppo economico italiano di quel periodo non sarebbe completo
se non si tentasse un minimo di approfondimento su di un punto debole che, oggi
come oggi, si trova proprio al centro del dibattito: l’inefficienza progressiva
della spesa pubblica.
L’espansione
del pubblico impiego è stato uno dei modi che, di fatto, sono stati impiegati
per alleviare la disoccupazione, specie meridionale, rappresentando una sorta
di attività sostitutiva dell’investimento diretto. Eguale esito di complessiva
inefficienza ebbero le politiche riguardanti l’assetto urbano e le abitazioni.
Una
delle caratteristiche comuni di tutte le Regioni italiane a partire dal periodo
preso in esame da questo lavoro, sia al Nord sia al Sud, fu rappresentato
dall’accrescimento delle concentrazioni urbane. La crescita tumultuosa degli
insediamenti urbani recava con sé una domanda crescente di case di abitazione. Il
tema dello sviluppo edilizio richiederebbe un capitolo a parte che
allungherebbe troppo questo testo. Si rimanda quindi a una successiva
ricostruzione non senza ricordare quanto abbia pesato e stia pesando il
disordine urbanistico e il degrado dell’assetto del territorio sui fattori
fondamentali della crescita economica. Nella sostanza da quella fase risultò
favorita l’industria delle costruzioni, assistita anche da una politica
creditizia particolarmente generosa e che poteva contare su profitti cospicui e
sicuri e l’industria automobilistica, ma ne dovettero subire gli intralci tutte
le altre attività produttive. Emerge da questo quadro, allora, l’insieme dei
limiti profondi già presenti nell’economia italiana fin dagli anni dello
sviluppo più forte: dualismo tra i diversi settori, distacco tra Nord e Sud,
bassi salari e distorsione nel consumo, disordine urbano, inefficienza della
spesa pubblica.
Si
aprì, in questo modo, la stagione delle svendite: le grandi PPSS del
dopoguerra, l’IRI, l’Intersind, la Grande ENI di Mattei, il piano siderurgico
di Sinigaglia, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la STET (che
Agnelli si portò a casa pagando lo 0,6% del capitale), la privatizzazione delle
Banche Credito e Comit finirono dentro i giochi della borghesia dei “salotti
buoni”.
Tutto
è cambiato attorno a noi, sul piano della tecnologia, dei riferimenti
internazionali, del quadro possibile di sviluppo economico e tutto è cambiato
nella struttura produttiva italiana, in particolare per responsabilità delle
privatizzazioni compiute negli anni’90 fino alla dismissione dell’IRI, ma
quegli elementi di sofferenza del sistema sono ancora presenti e ci fanno
affermare come, anche per il futuro, rappresentino elementi di grande
difficoltà che soltanto un diverso approccio sul piano politico potrà
affrontare seriamente.
Le
drammatiche vicende legate al progressi processo di ulteriore de-industrializzazione,
di degrado del tessuto infrastrutturale e nell’uso del territorio , di
smantellamento dello stato sociale e di improvvisa crescita di una visione
politica di tipo populista e sovranista che sta assumendo addirittura tratti
egemonici, in atto nel nostro Paese in parallelo con la crisi dell’Unione
Europea,. chiamano a una riflessione attorno alla possibilità di avanzamento di
una proposta di politica economica. Il concetto di fondo che sarebbe necessario
portare avanti e rilanciare rimane quello della programmazione economica,
combattendo a fondo l'idea che si tratti di uno strumento superato, buono
soltanto - al massimo - a coordinare sfere private fondamentalmente
irriducibili.
Una
riflessione in questo senso potrebbe rappresentare la base per un avvio di
programma d’alternativa all’esistente, anche se bussano alle porte nuovamente i
temi della limitazione della democrazia e di manomissione della Costituzione
Repubblicana.
Quello
redatto in questo testo rimane un appunto schematico e lacunoso tirato giù
tanto per ricordare qualche passaggio allo scopo di indicare contraddizioni e
difficoltà che pure s’incontrarono e si svilupparono nel tempo, ricordando
ancora come non sia mai vissuta una presunta “età dell’oro” ma una stagione di
grandi lotte sociali e politiche in un quadro di grandi contraddizioni. Tutto
ciò che si ottenne a livello di miglioramento complessivo delle condizioni di
vita, che in effetti si verificò, fu frutto di enormi sacrifici di gran parte
delle popolazione pagando il prezzo di una distorsione storica che ancora
agisce sul presente e sulla quale fanno leva le operazioni in corso da tempo
tese a provocare un vero a proprio “arretramento” economico, politico, sociale,
culturale.