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sabato 12 gennaio 2019

PISCITELLO, ERRI DE LUCA, BRAMBILLA-AROSIO
di Vincenzo Guarracino

Migranti…


“Migranti” è una parola carica di molte suggestioni. Indica con non poca apprensione le centinaia, migliaia di persone che, sfidando pericoli di ogni specie, quotidianamente si mettono in viaggio, per terra o per mare, per cercare di raggiungere l’Europa, sognando una vita migliore, ma spesso finiscono tra le mani dei trafficanti o in centri di detenzione.
Oggi, in molti l’adoperano e non con identica intenzione, da Trump a papa Francesco, passando per i nostri muscolari “Statisti” di stagione.
Un problema sociale e umanitario di enorme portata, ritornato alla ribalta proprio in questi giorni per via dell’impasse diplomatica che ha tenuto in allarme Governi e opinione pubblica internazionale sulla sorte delle 49 persone (uomini, donne, bambini), oggetto di un vile braccio di ferro tra i diversi governi europei incapaci di un accordo né sul porto di sbarco né su un piano di ripartizione per l’accoglienza che ne permetta lo sbarco e perciò tenute letteralmente in ostaggio a bordo della nave umanitaria Sea Watch 3, battente bandiera olandese, e della nave dell’Ong tedesca Sea Eye, al largo di Malta da ben prima di Natale. Eppure, molti si ostinano per ideologia o per ignoranza a non rendersi conto che “migrazione” vuol dire trapianto e innesto, oltre che di potenzialità lavorative, di cultura, di civiltà.
Nella pubblicistica e nella letteratura, il problema è ovviamente presente, e non da oggi soltanto. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Ne cito solo tre, di libri in prosa o in versi, in cui il tema emerge: da Erri De Luca, Solo andata (Feltrinelli, 2005), un testo drammaticamente profetico e visionario, a Enrico Brambilla Arosio, Parole migranti (Puntoacapo 2017), spostato su un piano più generale, storico-antropologico, a Francesco Piscitello, Auschwitz di là dal mare (NS, Edizioni Nuove Scritture 2018), in cui le ferite sanguinanti della cronaca trovano un’espressione all’altezza della sensibilità dell’autore.
Partiamo da Erri De Luca, che, partendo dal racconto in versi del viaggio di un gruppo di migranti (viaggio di “sola andata”) verso porti di un’improbabile salvezza, “lastricando di scheletri” il mare, “piedi in marcia” di una nuova civiltà, mette in scena la disperazione di una generazione che “si vergogna” per una umanità che sa far fiorire e prosperare solo il “seme di Caino”. L’autore, ben noto a apprezzato per i suoi romanzi (oltre che l’impegno civile), qui, in questo testo di intensa poesia, rivela una pietas davvero esemplare e commovente: quale altro messaggio dal libro, per identificarlo e definirlo, se non quella dell’”ape” che “succhia fiori di sassifraga” affiorante dallo “squaglio” primaverile dei ghiacci della Marmolada (in Miele 2003)? Come dire, che dal “gelo” dell’indifferenza pressoché generale è necessario cogliere anche un minimo segno di positività per non disperare. Enrico Brambilla Arosio il problema lo prende da lontano, in chiave prettamente letteraria, nel suo Parole migranti, costruendo una sorta di allegoria che partendo da molto lontano (addirittura dal 1453, dalla caduta cioè dell'impero d'Oriente e dalla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi Ottomani), vede protagoniste le “parole” che vivono e migrano, più vitali e umane degli umani stessi, in un iter storico-linguistico, che  attraverso una irridente parabola lunga mezzo millennio, come una grande allegoria della umana peripezia, si avvia ad un presente sempre più piatto, degradato e disarticolato, condizionato com’è da involgarimenti e contaminazioni, sulla scena di una Babele di popoli e di voci, sotto il segno e la spinta di una irreversibile “globalizzazione” dagli esiti culturali e sociali tutt’altro che prevedibili. Questo, a conferma che la storia degli uomini si può leggere anche attraverso la storia della lingua, l’una e l’altra reciprocamente contagiandosi e influenzandosi, come in un infinito gioco enigmistico da dipanare con pazienza e accortezza, fermo restando che in essa a vincerla e a farla da padrone è il caso, l’anomalia, capace di generare angeli o mostri. 
Francesco Piscitello, che nella vita ha fatto molte cose, medico oltre che scrittore (ricordo, assieme alle poesie in dialetto milanese, “in vèna suturna”, uno straordinario ritratto di Giuda, nel dramma L’Apostolo traditore, 2015), mette in scena, nel suo poemetto, attraverso le parole di una “vittima” condannata come tanti a “nutrire i pesci del mare”, , quella che Angelo Gaccione definisce una “tragica, dolorosa, moderna Via Crucis”, che lascia il lettore “attonito, pietrificato” dinanzi all’orrore: per “non abbandonare all’atrofia i nostri neuroni specchio” dinanzi allo scempio che passa quotidianamente dinanzi ai nostri occhi e che porta i nostri governanti a respingere verso il deserto, verso l’Auschwitz di là dal mare, quelli che da noi chiedono solidarietà e si ritrovano in mezzo all’indifferenza e all’ostilità davvero disarmante di un mondo, il nostro, di “opulenti consumatori di futilità, di frivolezze”.