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venerdì 22 febbraio 2019

IN RICORDO DI CESARE RUFFATO 
E DELLA SUA POESIA
di Vincenzo Guarracino

Cesare Ruffato

Può capitare, in una civiltà subissata di notizie e di informazioni, fino al limite della bulimia, di non distinguere più il grano dal loglio, di non riuscire più a soppesare, di prestare attenzione. E così la morte di un autore autentico, di un poeta vero, passare inosservata. Vincenzo Guarracino supplisce a questa “svista mediatica” e ce ne ricorda il valore.

Ruffato, ben prima ancora che Cesare, era per me un volto su una copertina, quella di Trasparenze luminose (1987), da cui mi ingegnavo di indovinare, come talora impropriamente si fa di fronte a un’opera, qualcosa del carattere e della qualità umana e intellettuale dell’autore, coniugandolo con ciò che di lui arguivo avendone già letto qualche libro (Minusgrafie, 1978, e Parola bambola, 1983) assieme a non poca buona critica al riguardo.
Un volto su una copertina, dicevo: mi colpiva in quel suo volto scavato la ruga severa in contrasto con i capelli leggermente mossi e ondulati e l’amabile, ironico sorriso, l’occhio rivolto nel profilo a un orizzonte indefinito e luminoso, a un fantasma forse di bellezza e gentilezza posto oltre la cortina della curiosità e dell’indifferenza dell’osservatore. In quel gioco di contrasti, intuivo un animo sperimentato e definito nei tratti di una saggezza antica serenamente esposta anche al vento più impietoso della vita (quello che lo aveva già pesantemente colpito e che avrebbe anche in seguito continuato a flagellarlo con pervicace crudeltà negli affetti più cari). Mi importava di meno la sua poesia, che forse allora non capivo ancora abbastanza, anche se non mi dispiaceva nei suoi versi la plurima e inquieta verbalità della sua lingua poetica, la strana commistione di "meraviglia" e scienza, che indovinavo venirgli dalla sua quotidiana pratica professionale di docente universitario e che conferiva un sapore particolare, ben diverso da quello di qualsiasi altra scrittura poetica contemporanea (compresa quella zanzottiana, segnata da una forte ipoteca simbolista e debitrice nei confronti della tradizione lirica).
Dicevo, una scrittura dal sapore particolare, per quel suo saper accostare e "ascoltare ciò che non ha corpo e che pur s’affaccia, per varchi e fessure, sulla scena della parola", come acutamente puntualizzava Enrico Testa nella sua prefazione a Trasparenze luminose, col risultato di dar vita ad un corposo idioletto che fatalmente faceva già allora intuire i suoi sviluppi in direzione di un experimentum di fusione, a livello formale, tra linguaggio scientifico-tecnologico e materna lingua pavana sapidamente reiventata al fuoco di una grande passione espressiva, e a livello contenutistico nell’accettazione e orchestrazione dei temi più diversi (esistenziali, lirici, sociali, civili, narrativi) nel continuum di un alveo poematico, governato dal tentativo insistito e ossessivo di nominare e dare un volto al vuoto che divide parole e cose, dietro il quale si indovina una forte istanza di senso, nella convinzione dichiarata già nel primo segmento di Musaico, testo iniziale di  Trasparenze luminose, che comunque “a forza di dire si riesce a cavare/qualche divinità dai buchi”.È, questa, un’esperienza, da Ruffato stesso poi definita "risveglio bioritmico dialettale" (cfr.A. Serrao, 1999, p.31) e progressivamente realizzata con alchemica capacità reinventiva  nello spazio di un ventennio in quelle che costituiscono a mio parere le sue prove più alte, tra Etica declive (1996) e Sinopsìe (2002), prima del recentissimo Il poeta pallido (2005), al punto di meritargli da parte di Gianni Giolo (1999, 16) l’appellativo tutt’altro che retorico ed esornativo di "Dante del dialetto veneto", reinvenzione e mescolanza su cui (si licet…) io stesso, nel mio piccolo, avevo fidato e scommesso nel pensare a lui come al miglior traduttore delle Sortes patavinae, testi anonimi accolti nella mia antologia dei Poeti latini (Bompiani 1993), e successivamente delle ricette in versi  del Liber medicinalis del medico del III-IV sec. d.C. Sereno Sammonico, poi pubblicate presso UTET (1996).
Quando più tardi, in anni recenti, oltre che un volto, è diventato anche una voce ed ho imparato amicalmente a conoscere la sua storia di uomo e di poeta: direttamente da lui, indirettamente dai suoi libri: ho capito che forse era vera quella prima impressione: che la sua tensione verso un incollocabile perturbante, verso un’“ontologia delle assenze”, era ansia di scavare attraverso un’attivazione di sentimenti e valori un “senso” nel "vuoto desiderante" della vita, come dice in quella prova necessaria e oltremodo significativa che è Poema per Chieti (2001): la volontà di captare e auscultare, come il poeta latino Lucrezio intento a “invigilare noctes serenas”, nello “stellìo caduco notturno” della nostra lingua (in Verdi ricordi), portandolo “sulla scena della parola”, ancora un’essenziale “effervescenza di sapere”, a dispetto del silenzio e dell’avvolgente tenebra circostante. Come dire l’esperienza di una comunione di pensiero e poesia, per esorcizzare attraverso “cascate di scrittura” (ancora in Poema per Chieti) il rischio del disfacimento dell’orizzonte gnoseologico nel segno di una poesia interrogante quale è quella del poeta antico, e al tempo una risposta conveniente e non evasiva a una situazione storica di disagio e disarmonia, in un momento di ripensamento di valori e obiettivi (individuali ma più ancora collettivi): una vera e propria “professione di fede nella realtà” e al tempo stesso “un’endoscopia di essa”, giusto come l’aveva definita Gianfranco Folena (Lessico e stile della poesia di C.R., in “Otto/Novecento”, 1992, n.43-44, p.305).


“L’essere è per certo vertigine/indelebile presenza bianca disputa/ai margini del tutto non ha pace”: c’è, in questo segmento della chiusa di una lassa de La giusta ricreazione (contenuta nella raccolta Etica declive del ‘96), come un’idea di disfacimento, di scivolamento, di progressivo inabissamento, prima di un’improvvisa finale riemersione, segnata nell’ictus piano e calmo della clausola “non ha pace”. Le dramatis personae, gli “agenti” tematici e stilistici della poetica di Ruffato qui si esaltano in un’essenziale verifica testuale, disputandosi la scena della pagina per farvi agire un sentimento della vita e della scrittura chiaramente sbilanciato in direzione della negatività, dell’inconclusione e della metamorfosi incessante, a dispetto dell’apparente quieta diffrazione sensoriale. Quali siano questi agenti è facile intuirlo: è la sclerosi della vita, mineralizzata e cosificata, in un linguaggio astratto, alieno da presenze attive e vive, e ciononostante inquietato e internamente sommosso da una velenosa vis agonistica, da un rifrangersi di echi e scie colloquiali, distribuite prima o dopo il lacerto in questione; è l’ordine rigoroso, ossessivo, che omogeneizza e aggioga il senso alla metrica, altrove triturando le parole per ridurle a puri, qui disponendo un sapiente gioco consonantico, al fine di orchestrare allegoricamente una mimetica rappresentazione del grottesco della vita sotto specie oniricamente verbale. Certo, nel caso specifico del prelievo, il furore decostruttivo e sperimentale ha placato la sua oltranza per lasciare il campo ad una sorta di “rifondazione” del senso, ad un’ansia lucreziana di “riscrittura” delle cose e del cosmo attraverso il linguaggio, sguardo insieme retorico e fonetico sorpreso dagli enigmi di un pensiero che insegue un “senso altrove”. Non è cambiato il deserto spettrale della scena, il vuoto di uomini ed eventi, ma in esso, rispetto al passato, si è insinuato qualcosa che pare sempre attendere e al tempo stesso temere (“comprimere”, dice a p.14) una scoperta essenziale, una sorta di “miracolo” montaliano in cui tutto si scopra coincidente col nulla di un riconoscimento inappellabile, in un continuo gioco di “divenire e dissolversi”. È dentro queste coordinate che prende corpo e fiorisce l’autentica “rifondazione” dell’ultima poesia ruffatiana che scopre una nuova, autentica “felicità” nella lingua materna alle soglie di una tappa importante della sua vita. “Nel sesto decennio/el me xe spanìo da vero sincero/smissià del precordio e pression/el me ninanana anca nel troto/roto senile, el me liga al concreto/cavandone i selegati sensa sigarme/par sgorbi de acenti e ortografia/nel volerlo maridare co la lengua/matricolada…” È un lungo lacerto, questo dal programmatico Dialetto, tratto da Diavoleria (1993) e ora raccolto in Scribendi licentia, che dice a mo’ di elegiaco Tristia il difficile periplo operato dall’autore alla conquista e definizione della sua cifra poetica più forte ed essenziale. Oltre (e contro) una lingua “matricolada”, oltre la polvere e il deserto di troppi libri, nella stanchezza e tristezza della carne, ecco “sbocciare” all’improvviso la “lengua” di un fecondo scontento che come investe e stravolge l’esistente più abituale e quotidiano, così riannoda i fili con un mondo rimosso e sotterraneo, tellurico, di valori, al ritmo di una struggente “ninanana”, di una “parola fiaba” improvvisamente riaffiorata, nel senso più etimologico del termine, dal “bitume del progresso escaroso” (Parola fiaba, un Parola pìrola, 1990), dal Gran Ciarpame che oscura e ammorba ogni anelito di verità e di speranza: tra indignatio e nostalgia, la “lengua materna” riconquista dignità e autorevolezza viaggiando “da le vissere a la metafora”, dall’urgenza più profonda a un’impietosa e franca formalizzazione, incurante “de acenti e ortografia” per raggiungere “un tesoro de luce fogo acqua aria” e far emergere un mondo “de fede e emossion”, nella cui sostanza geroglifica si inscrivono “license e libertà” altrove soltanto intraviste e sognate. A misurare l’importanza di un simile acquisto, conseguito a costo di assalti e sabotaggi della lingua “patria” con conseguente impressionante accumulo e collasso di detriti (un autentico “maremoto metalinguistico”, secondo la definizione di Luigi Fontanella), valga il carico di distanza e amarezza rivelato dall’aggettivo “matricolada” che della lingua egemone tradisce una visione nient’affatto rassicurante e positiva con tutto ciò che comporta di ambiguo e truffaldino, quasi a dire che è soltanto nell’alone disegnato dall’“eco de la vose materna” inscritto nel dialetto che è possibile trovare risarcimento e risposte alle grandi inquietudini di un oggi sempre più vuoto e stralunato, alle insidie e alle aggressioni di un sistema (quello linguistico del “talian ufficiale”) che conculca e omogeneizza le differenze, svenando vampirescamente coscienze e storie d’ogni risorsa sentimentale e fantastica. È sull’impulso di tale “vose” che nasce e s’afferma, dalle rovine della retorica, una nuova retorica, consistente nel disporsi con l’orecchio e col cuore accosto alla vita coi suoi flussi e i suoi spinosi ritmi per intravedere una qualche redenzione e salvezza, ritrovando nella pietas della lingua un senso al Gran Vuoto letargico della cosiddetta “civiltà”. Solo sfidando (e sfibrando) il gioco lessicale e sintattico della lingua “patria” (una lingua “rompibale” e castratrice) riemerge il “tesoro pulviscolare” (in Etica declive) della prima lingua, quella agita da una “scarga placentare” potentissima, che non ha bisogno dei galatei della letteratura per cavare dai precordi i segreti più gelosi e dar loro corpo in una forma scevra di indulgenze simboliche e simboliste, fino a proporsi come una lavica colata di suoni, come una “secrezione di linguaggio”, sulla scena di un Vuoto, che è il vuoto di un mondo contrassegnato da un’oggettiva perdita di orizzonte e di senso. Spazio della concretezza e insieme del desiderio, dunque, questa “lengua”, spazio in cui diventa concreto il sogno e al tempo stesso si sfilaccia e diventa sfuggente “el concreto”, in un gioco di interminabili spostamenti e condensazioni, come si addice alle dinamiche dell’inconscio che si fa scrittura. “Allampanata pallida figura/sguardo scavato nell’orizzonte/degli eventi d’una eterna gioia/di bellezza a rinascere sentimenti/impronte profonde d’irripetibili/emozioni d’un presente inesistente/d’un tempo nulla immenso”: nel margine estremo di Sinopsìe (Marsilio 2002), alle soglie convenzionali di un silenzio comunque aperto ed eloquente, perché disponibile a essere forzato e invaso da sempre nuove occasioni e suggestioni, da venti ed “eventi d’una eterna gioia” rinata nel segno di una memoria di “bellezza”, il poeta leva il suo sguardo a un nuovo “orizzonte”, a nuove prospettive di lucidità e saggezza, affioranti già nei suoi libri precedenti (e penso soprattutto a Poema a Chieti) approdate ormai finalmente a più evidente consapevolezza. Con l’intrepida fierezza di chi la sua difficile battaglia esistenziale continua a combatterla, nonostante tutto, giorno per giorno, con dialettica determinazione. Come sottrarsi alla suggestione di quello “sguardo scavato nell’orizzonte”, che sembra riecheggiare un’immagine celeberrima del Leopardi più eroico e rassegnato dell’ultima stagione esistenziale e poetica, quello di Amore e Morte (“erta la fronte, armato / e renitente al fato”), proteso a non cedere al male, fissando fieramente in faccia il suo destino?  
Un’esigenza etica e civile, insomma, la coscienza di dover assolvere un compito essenziale, liberando la lingua della poesia da ogni rumore di fondo per restituirla nuda e palpitante alla sua verità testimoniale, al miracolo della sua epifanica sapienzialità nel mondo dell’insensatezza, quella stessa che Ruffato ora dichiara con forza nella nuova raccolta, Il poeta pallido, da poco uscita da Marsilio. “La realtà ipocrita callida/è una metafora di vita/da meditare e depurare”, dice nel primo testo della sezione che dà il titolo al libro e senti in quei due verbi, “meditare” e “depurare”, un vero e proprio manifesto di poetica (e di vita), un’urgenza morale, per così dire, manzoniana (è possibile sottrarsi al ricordo del celebre “sentire e meditar”, dell’Ode in morte di Carlo Imbonati del "quadrilustre vate" milanese?), come di uno compreso della necessità di capire ad ogni costo per affrontare il mondo (la "realtà ipocrita", nella perdita di ogni fede) con le armi di una fiera intelligenza, grazie alla quale portare un contributo per la propria parte alla “costruzione dei mondi” possibili (in Fulminea la psiche), a un progetto cioè di trasformazione civile e culturale della realtà circostante, a partire da quella più direttamente fisica delle “molecole semplici/e perspicaci” (in La vita proviene forse) e dei “tegumenti del creato” (in Dinnanzi alla tavola di Haechel) e addirittura fisiologica (la “gravità/ insostenibile del corpo”, in L’accenno a una flessione) per arrivare alle strutture più intime e sofferenti della “lega umana effimera” (in Viene voglia talora). “Una metafora di vita/da meditare e depurare”: nella trionfante “vanità di gruppo” del nostro oggi (in Hai ragione su molte cose) di “crisi economica e di ghiottona/politica” (in In crisi economica e di ghiottona), in cui tra “gelidi kalashnikov e bombe umane” (in Viene voglia talora) si sconta una perdita progressiva di “grazia” (in L’eleganza delle mani) e l’annichilarsi soprattutto nei giovani di ogni vitalità (in Hai ragione su molte), il poeta con “il pudore del dolore” (in Fulminea la psiche) fa intorno a sé il silenzio per ripiegarsi in una “complessa introspezione” e sulla scorta di “meridiane acute della mente” (in Distaccati dal vissuto) trae, come l’antico poeta ex praecordiis, la forza lucida e serena di un verso di tenerezza o di sdegno, che rifiutandosi di “appartenere al ritratto” o “all’occasione” (in Nella statua ti nascondi), a uno sguardo cioè mimetico e superficiale sulle cose, vive assorto “nel midollo del passato” (in Restiamo una scelta), nella fedeltà a un mondo di valori eterni e non degradabili: giusto come l’archetipo foscoliano del poeta, da cui alla raccolta derivano spiriti e titolo, l’Alfieri cioè del carme Dei Sepolcri, con sul volto “il pallor della morte e la speranza” (v.195).
È entro queste coordinate, tra istanze etiche e sociali, tra “sguardo del desiderio” (in Gli uccelli stravaganti) e “pena per la verità” (in I pargoli ci vengono), che si inscrive, in questo libro più che nei precedenti, l’esposizione del poeta alla “grazia della notte” (in I sensi frammentano), la pacificata attesa cioè di quella necessaria resa dei conti con la vita segnata nell’ordine delle cose e cui mente e cuore tendono in un “fiume di emozioni” (in Orpelli le bollicine), in un misto di sentimenti contrastanti, tra “nodi e fughe” (in Attendo le pupille), tra timore, accettazione e trepidante “speranza”, come ad un “impercettibile avvio” (in Mi ripeto costante). È la morte, il "cuore cordis della morte" (in Anche il silenzio della morte), vista come “conforto e richiamo” (in Il candelabrum eloquentiae), il tema che occupa insistentemente tutto il libro e soprattutto l’ultima sezione, Tot es niens, contrappuntando con la sua presenza “i riflessi del pensiero verbale” ruffatiano fino a costituirsi come “lirico finale” (in L’oriolo della morte), come palingenetica attesa oltre i “libri loculi di lettere” (in La parola affanna) e la “chiasmatica sabbia” delle parole, lasciando in conclusione emergere, attraverso il profilo dell’“agonica/figura del Cristo in croce” (in Fiamma cigno airone), l’auspicio di “sparire/nel suo odore nella scia della sua/resurrezione” che è desiderio e certezza di ogni credente.

                                             ***


Vedo le luci dell’altra riva
avvicinarsi lente sulle acque
e sento il loro tremare nel mio sangue.
Questa notte è solo parole
che varcano sponde.
Le membra sono ulivi
la bocca è una valle le mani un vento.
II mondo non sa il mio segreto
ma tu conosci i miei approdi.
Il tuo volto esce dall’acqua
soave come un’onda.
Preghiamo il tempo
che ci porti lontano.

1962

(Da: Tempo senza nome)


Cesare Ruffato, è nato nel 1924 a Padova, dove è morto il 23 novembre del 2018.