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martedì 5 marzo 2019

GRECHETTO
di Giacomo A. Graziani


Non separiamo il ciclo pittorico di Orfeo da Palazzo Sormani.

Stiamo attenti a non tradire il valore contestuale di architettura e opere d’arte: attenti a non dissolvere con improvvide separazioni il significato dei luoghi radicati nell’immaginario collettivo e fondativi di un sentimento di appartenenza.

Ci sono architetture che ospitano opere d’arte divenute nel tempo consustanziali al contenitore architettonico di cui sovente costituiscono lo scrigno più prezioso. È il caso del ciclo pittorico che occupa interamente le pareti della “Sala del Grechetto” di Palazzo Sormani.
È pur vero che la sua collocazione originaria era quella di Palazzo Visconti, distrutto dalla guerra. Ma il suo spostamento a Palazzo Sormani fu voluto dagli stessi proprietari alla fine dell’800 e la sua collocazione attuale risale agli inizi del ‘900.  La sala fu aperta al pubblico per visite coordinate dalla Segreteria della Biblioteca fino all’inizio dei lavori preparatori al distacco delle tavole, in vista della prossima mostra a Palazzo Reale. Questo ambiente prestigioso di Palazzo Sormani, dedicato periodicamente a una qualificata e partecipata attività culturale, ospita il ciclo pittorico di Orfeo, i cui autori fiamminghi sono stati oscurati dalla consuetudine di citare con il nome del Grechetto l’iniziale errata attribuzione dell’opera. Si tratta di un luogo che ha acquisito una risonanza meritevole di una migliore visibilità con una nuova e più adeguata illuminazione, facilmente realizzabile. Inoltre, come suggerisce con specifica competenza la Orlandi Balzari, la restituzione delle tele a Palazzo Sormani potrebbe abbinarsi a ricostruzioni multimediali della sala di Palazzo Visconti-Verri, offrendo una completa rivisitazione storica dell’opera, con un allestimento scenografico di alto interesse culturale/didattico, realizzato in una contestualità tra opera e contenitore impossibile altrove.
Si parla invece di un trasferimento definitivo del ciclo di Orfeo in un imprecisato ambito museale. Operazione che viene contestata da autorevoli esperti (v. l’articolo degli storici d’arte Vittoria Orlandi Balzari e Alessandro Morandotti sul Corriere della Sera del 2 febbraio scorso) per ragioni storiche e per motivi tecnici che data la fragilità dell’opera suggerivano un restauro in situ.



Corrono infatti proposte che vogliono preparare il terreno per uno spostamento dell’intera opera in altro luogo, che sembra non si sappia o non si voglia per ora definire, quasi a delineare un’operazione poco chiara, una di quelle di cui i cittadini vengono a conoscenza a cose fatte. Occorrono invece chiarezza e un dibattito aperto, in grado di orientare il Comune verso una decisione che sia autorevolmente condivisa.
Con questa finalità mi sembra opportuno accennare più puntualmente ad altro ordine di considerazioni che attengono al significato del rapporto tra quest’opera e il pubblico, specialmente milanese, che fino ad oggi l’ha considerata inscindibile dal contenitore architettonico che la ospita. 


In effetti quest’opera fa parte di un immaginario che la identifica in un luogo preciso e in un particolare contesto storico e architettonico. Si può parlare di contesto in quanto l’opera, con un rapporto consolidato con i fruitori, è entrata in una memoria collettiva che assume un significato di appartenenza e quindi è referente di un valore sociale. Intendo dire che quest’opera trova il suo significato non solo come oggetto d’arte in sé, ma come elemento che appartiene per la sua collocazione al vissuto dei milanesi. Essi fanno riferimento da più di quattro generazioni a un’opera e a un luogo che unitamente entrano nella dimensione soggettiva del loro mondo quotidiano. Su questi processi di appropriazione culturale e di appartenenza psicologica ai luoghi vissuti hanno lavorato negli anni ’70 del secolo scorso i precursori della nuova “geografia Umanistica” e dello “Spazio vissuto” Yi-Fu Tuan e Armand Frémont e a proposito di queste nuove discipline troviamo un interessante passaggio di Maria Mautone che afferma:
“(…) ciò avviene perché con i propri segni la collettività caratterizza il proprio territorio e si radica in esso esaltando il senso di appartenenza che consente agli uomini di riconoscersi ed identificarsi nei luoghi dove le stratificazioni sedimentate nel tempo consentono la continuità dell’identità storica.”*


Con lo spostamento del ciclo di Orfeo, Palazzo Sormani diventerà nell’immaginario collettivo “il luogo dove si trovavano le tavole del Grechetto”; una definizione che denuncerà una perdita irreparabile. Una delle tante purtroppo, che con una alterazione del paesaggio della memoria ci distaccano progressivamente dal sentimento di appartenenza a un luogo. Ma davvero con una operazione di restauro e di ricollocazione si vuole togliere a Palazzo Sormani un ambiente dal fascino irripetibile e isolare le tavole del “Grechetto” spaesandole in un asettico ambiente museale? Se si tratta di trovare soldi per pagare il restauro, discutiamone e intanto aiutiamo con i nostri mezzi di comunicazione la sponsorizzazione per la raccolta di fondi avviata dal Comune. Ma se si danno per decise soluzioni che snaturano il contesto di un’opera così significativa, forse i cittadini vorranno dire la loro.

[*M. Mautone: “Il paesaggio tra identità e territorialità
Bollettino. Soc. Geografica Italiana - Serie XII vol. IV - Roma, 1999 
Pagg. 331-338.]


FIRMATE LA PETIZIONE


https://libertariam.blogspot.com/2019/02/unappello-per-i-dipinti-del-grechetto.html