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giovedì 25 aprile 2019

LA MIA SFIDA CON IL DIALETTO
di Maddalena Capalbi

Maddalena Capalbi

Ho iniziato anni fa a scrivere poesia in dialetto romanesco perché sono romana anche se da molti anni vivo a Milano. Ho pubblicato una prima raccolta Arivojo tutto (LietoColle), poi qua è là poesie sparse e, recentemente Ribbelle (Edizioni Il Verri). Perché dopo aver scritto poesie in lingua ho scelto questa strada? Perché il romanesco mi piace. Mi piacciono la musicalità, le immagini colorite che si trovano in molte espressioni, le metafore e addirittura le parolacce e le invettive. Scrivere in dialetto però è stata anche una sfida: la ricerca di un’altra lingua rispetto all’italiano per esprimere sentimenti, emozioni, gioie e dolori.
Non mi definisco, quindi, come poetessa dialettale perché mi sembrerebbe di rinchiudermi in un recinto: scrivo poesie anche in questa lingua.  
Spesso si dice che il dialetto è la lingua della madre. È ovvio che chi decide di adottarlo sceglie quello della sua città ma credo sia necessario andare oltre questa semplificazione. Io ho scelto questa strada perché ho tentato la ricerca di un linguaggio alternativo all’italiano, che sia in grado di arricchire la poesia con colori, emozioni, suoni, e passionalità.
Se nei poeti dialettali classici, dal Belli al Trilussa, dal Porta al Tessa, le poesie, spesso nella forma del sonetto, sono di genere comico e satirico e di tono popolare, io ho scelto un’altra strada, la stessa che percorre da anni un’altra poetessa, Franca Grisoni, che scrive in dialetto bresciano.
I temi che tratto nelle poesie in italiano sono per lo più legati alla condizione della donna nella società. Per certi versi mi sento di dire che la mia può essere identificata come poesia civile laddove denuncio la violenza sulle donne, il perbenismo della famiglia tradizionale, il bigottismo della società, l’invadenza della religione. Questi temi sono tutti ripresi nelle poesie in romanesco. La mia, quindi, non può essere considerata una poesia dialettale popolare nel senso che non riprendo neppure il modo di parlare delle borgate, impoverito da un pessimo italiano. Cerco attraverso uno studio meticoloso del romanesco di aggiornarlo quando è possibile ai giorni nostri. Non mi sono rifugiata nel ‘classico’ ma neppure ho scelto la strada intrapresa, per esempio, da Pier Paolo Pasolini che nella traduzione del Miles gloriosus di Plauto, diventato il Vantone, così come in molti suoi film, adottò la lingua parlata nella desolata periferia romana: un dialetto imbastardito da una lingua italiana poverissima.
Nell’ultimo libro, Ribbelle, ho tradotto alcuni canti della Divina Commedia rispettando l’endecasillabo e la rima alternata. Ho cioè fatto ciò che avrebbe fatto un traduttore inglese, francese, tedesco o di un’altra lingua.
Sarebbe impensabile immaginare un romanzo scritto tutto in dialetto, solo la poesia consente questa operazione perché le immagini, le metafore, le similitudini e i modi di dire che offre sono così potenti e ricchi che la loro traduzione in italiano li svilirebbe.
Nell’epoca della globalizzazione e del trionfo della lingua inglese, non quella di Shakesperare ma quella del businnes, stiamo perdendo la ricchezza dell’italiano che grazie a molti scrittori, aveva inglobato anche i coloriti cromosomi del dialetto. Il rischio è che si approdi a una lingua di plastica alla quale è necessario ribellarsi. Non si tratta di utilizzare il dialetto per l’affermazione dell’identità intesa come diversità, operazione purtroppo portata avanti in questi ultimi decenni da qualche partito politico. Si tratta di scrivere in dialetto come lingua alta, capace di suscitare emozioni e nello stesso tempo per salvare quelle culture locali che tutte insieme contribuiscono a formare un Paese unito e unico per il suo policentrismo e pluri-mistilinguismo.

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Vita mia


L’occhi belli dicheno
- famose male dai! -
aripijamo a magnà tanto da
stremì lo stommico,
vita mia sta bono, intignete su l’argomento      
guardate intorno
er Pincio, Villa Borghese, li ponti
der Tevere pareno strasecolà      
e se incajano a la bocca rosa
vita mia me stai a magnà er core.
Maddalena Capalbi