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venerdì 28 giugno 2019

Taccuino
PAVESE E VACCANEO
Un destino incrociato
di Angelo Gaccione

L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale.
Il ricordo che porta e il ricordo che lascia
Cesare Pavese

Franco Vaccaneo a destra
con Gaccione a Santo Stefano Belbo

L’invidia è un sentimento che mi è estraneo: che senso ha invidiare ad altri qualità che non si possiedono? Quanto alla ricchezza ed agli “averi”, so da dove nascono e come nascono, e quanto dolore hanno causato lungo la loro strada, perciò mi tengo stretta la mia dignitosa povertà. Dietro ogni grande fortuna c’è il delitto, non l’ho scritto io, lo ha scritto Balzac. E tuttavia mi è capitato, raramente ma mi è capitato, di provare una gioiosa commovente invidia, davanti alla devozione, all’attaccamento, alla preziosa custodia della memoria e della loro opera da parte di alcuni uomini verso altri uomini. Credo non si possa desiderare niente di meglio dal destino. Per uno scrittore, poi, una tale fortuna ha del miracoloso. Questa lunga digressione per raccontarvi di un legame di fedeltà potente e totale che da oltre quarant’anni Franco Vaccaneo, bibliotecario, saggista e intellettuale di Santo Stefano Belbo, ha intrecciato con il suo più illustre concittadino: lo scrittore e poeta Cesare Pavese. Praticamente da quando era poco più che un ragazzo. In tutto questo ampio arco di tempo, Vaccaneo è diventato il più tenace messaggero del poeta: ha portato Pavese in mezzo mondo con convegni, mostre, scambi culturali di ogni sorta; ha contribuito in mondo risolutivo alla costituzione del Centro Studi prima e della Fondazione pavesiana dopo; ha istituito festival, giornate di studi, corsi universitari estivi, ha preso contatti con pittori, scultori, letterati, registi, attori, teatranti, fotografi, critici, studiosi; ha riordinato la nuova Biblioteca nel centro storico dopo la rovinosa alluvione del Belbo nel 1994; ha tenuto costanti rapporti con i familiari del poeta, soprattutto con la sorella Maria, riuscendo ad ottenerne foto, oggetti, documenti, libri appartenuti allo scrittore, fra cui la copia personale dei Dialoghi con Leucò sul cui frontespizio Pavese scrisse il famoso messaggio finale “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono…”, prima di togliersi la vita a solo 42 anni, in una giornata di fine agosto del 1950 in una stanza dell’Albergo Roma di Torino. 


Ha cercato gli amici di Pavese e a loro si è legato di amicizia: in particolare con il costruttore di bigonce Pinolo Scaglione che il narratore ha immortalato nel personaggio di Nuto ne La luna e i falò, con il conte Carlo Grillo (il personaggio di Poli descritto ne Il diavolo sulle colline) ricevendo da tutti loro consigli, confidenze, materiali preziosi. Ha introdotto o scritto libri (a parte questo recentissimo, ricco e documentatissimo dal titolo Cesare Pavese e gli altri, Priuli & Verlucca Editori, voglio ricordare il più volte ristampato Cesare Pavese. La vita, le opere, i luoghi, Gribaudo Editore, che è un prezioso volume stracolmo di foto), ma soprattutto si deve a lui, a Franco Vaccaneo, se il 7 settembre del 2002 i resti del poeta dal cimitero di Torino, dove erano rimasti per oltre mezzo secolo, sono stati trasferiti in quello minuscolo di Santo Stefano Belbo, ritornando nel luogo di nascita, a quei “quattro tetti” che Pavese aveva sempre amato, e da cui aveva attinto la materia viva della sua creatività. Tornava dove era nato, Pavese, nel luogo della sua spensierata adolescenza, dove in piazza della Confraternita ci sono la chiesa dei santi Giacomo e Cristoforo dove fu battezzato, la Biblioteca e la sede della Fondazione dove ho dormito in compagnia dei suoi libri, della sua pipa, della sua stilografica. Dove più in là del cimitero c’è la casa paterna, ora visitabile grazie all’amore che gli portano due meravigliose volontarie: Rosetta Molinaris e Maria Vola tanto disponibili e gentili con me, e tanto legate alla sua memoria e alla loro comune terra. 


Tornava dove Franco Vaccaneo ha voluto che tornasse, ai piedi delle loro dolci colline, del loro Belbo, dei loro vigneti, dell’Albergo dell’Angelo sede dei suoi soggiorni santostefanesi: in verità si chiamava Albergo delle Poste, ed oggi è divenuto più prosaicamente un banale Bar Sport. Tornava dove i loro destini si sono incontrati tanti anni fa e si sono fusi. E davvero mi chiedo che ne sarebbe stato di Vaccaneo, di Pavese, di Santo Stefano Belbo, se questo incontro fatato non fosse avvenuto. Se Franco non avesse deciso di restare qui, nella terra degli avi e dei familiari che riposano proprio di fronte alla tomba di Pavese. 

La lapide sulla casa natale

Mi chiedo quale e quanta straordinaria ricchezza avremmo irrimediabilmente perduto, quanta umanità, quanto patrimonio intellettuale. E allora doppiamente grazie, caro Franco, grazie per quanto hai fatto per Pavese, grazie per quanto hai fatto per tutti noi e per quelli che verranno.  

La tomba di Pavese


POESISMI 
storia di un amore possibile
di Stefano Elefanti

Stefano Elefanti

Con questo scritto di Stefano Elefanti rendiamo omaggio all'aforisma e anche a due degli autori più prolifici in materia (Nicolino Longo e Laura Margherita Volante), che da decenni se ne occupano su queste pagine. Anche oggi pubblichiamo alcuni loro aforismi. Ad entrambi auguriamo pronta guarigione.



Dell’aforisma poetico nella letteratura italiana mi sono occupato in passato e ho cercato di delinearne la genesi, le caratteristiche e gli autori principali in occasione di una ricerca sul tema pubblicata nel 2013, con Edizioni Joker, intitolata appunto Origini e sviluppo dell’aforisma poetico nel Novecento italiano. Cercherò quindi di darvi di seguito alcuni rapidi cenni sul tema e vi invito, qualora vi interessasse approfondire l’argomento, al ben più dettagliato (e ahimè corposo) elaborato sopracitato.
L’aforisma poetico è una particolare evoluzione dell’aforistica tradizionale, si genera dall’ibridazione dell’aforisma con il frammento poetico e, in Italia, si sviluppa a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Lo studioso tedesco Werner Helmich definisce così questo nuovo genere: «testi brevissimi e spesso ellittici che non rappresentano più giudizi basati su concetti astratti, ma osservazioni poetiche ricavate da impressioni spontanee di analogie, generalmente visive».
L’origine è duplice: da un lato la poesia e dall’altro l’aforisma, due generi in apparenza difficilmente conciliabili. È doveroso notare che all’inizio del ventesimo secolo i canoni poetici diventano progressivamente meno rigidi, i componimenti tendono sempre più alla brevità mentre, al contempo, si indebolisce il confine tra i vari generi letterari e aumenta la sperimentazione (un importante laboratorio, in tal senso, furono le riviste dell’epoca, come ad esempio Lacerba e La Voce); se si pensa ad alcuni frammenti di Quasimodo o Ungaretti (Ed è subito sera e Soldati, solo per citarne alcuni) ci si rende conto che le differenze tra prosa e poesia sono ormai minime. Sempre nella prima metà del ventesimo secolo l’aforisma si modifica sensibilmente, passando dalla massima perentoria e sentenziosa (eredità dei secoli precedenti) a una aforistica più fragile e incerta, tanto che gli autori novecenteschi sembrano ormai più concentrati a indagare e valutare se stessi più che il mondo esterno. Sul punto non si può prescindere dai tragici eventi storici, ovvero le due guerre mondiali e i tanti totalitarismi, traumi che furono in grado di provocare (in letteratura e non solo) un sentimento diffuso di incertezza. Inoltre anche in questo genere, come già in poesia, aumenta la tendenza a sperimentare generando nuove variazioni (aforisma psicanalitico, aforisma visivo e altri ancora).

Nicolino Longo
L’aforisma poetico ha sei caratteristiche principali, tre sono comuni all’intera aforistica (brevità, isolamento testuale e pointe) e altrettante sono invece proprie (prosa lirica, soggettività, e precarietà). Riassumendo il primo gruppo si può dire che tutti gli aforismi sono brevi (passando dalla massima rapida e fulminante di derivazione francese al ragionamento più esteso di tradizione tedesca) e non hanno legami tra loro all’interno della raccolta (in pratica, cambiando la disposizione non si altera mai il risultato finale). La pointe, invece, non sempre così evidente è un francesismo che rivela l’effetto sorpresa, lo stupore e, in misura minore, l’ironia espressi in termini estetici o semantici. Studiando le caratteristiche proprie dell’aforisma poetico si nota che la vera novità è la prosa lirica, di fatto una scrittura prosastica (quindi priva di versificazione e non soggiacente a regole metriche) che adotta metodi tipici della poesia, come simmetrie retoriche, clausole o valori ritmici; di conseguenza essa non mira soltanto all’espressione di pensieri lineari e precisi ma tende anche a evocare emozioni. La seconda peculiarità del nuovo genere è la soggettività, intesa come predominio dell’io e tema autobiografico (mentre l’aforisma classico è solito usare, sin dalle origini, la seconda e la terza persona). Infine troviamo la precarietà, riscontrabile soprattutto nei soggetti affrontati e nel tono utilizzato, a segnalare come i componimenti non siano più adeguati a formulare precetti universali né riescano a dare indicazioni e comandi imperativi.
Il precursore dell’aforisma poetico in Italia è considerato Giovanni Boine, autore che tentò un generale rinnovamento dei modelli esistenti e che servì da traccia ai poeti successivi, come Camillo Sbarbaro; all’autore ligure si deve invece lo sviluppo della prosa lirica, così in alcuni suoi componimenti la poeticità emerge non solo per la capacità suggestiva ma anche per la cadenza ritmata (e quasi melodica) del sintagma che ricorda, appunto, l’andamento musicale (“I vecchi non vedono più che i bambini - i bambini che non li vedono”, “Da un pugno di concio un gambo di zucca, da un mucchio di carta una riga salvata”). Un altro importante poeta del Novecento italiano prestato all’aforistica è Cesare Viviani che cercò inizialmente di tenere separate le opere in prosa da quelle in poesia; in seguito si verificò però un avvicinamento tra i due poli e nel, 2012, l’autore giunse alla pubblicazione di Infinita Fine, un’opera annoverata tra le raccolte di poesie ma che, per l’assenza di regole metriche e nell’incedere definitorio e riflessivo, rappresenta una perfetta sintesi tra il frammento poetico e l’aforisma. Un’autrice centrale nello sviluppo dell’aforisma poetico fu certamente Alda Merini che partì dalla poesia e giunse all’aforistica soltanto in età senile (esordì nel 1992); il genere breve fu per la poetessa meneghina un naturale approdo dopo anni dedicati a componimenti più estesi e classici, nonché un’attività di riflessione preziosa e terapeutica. Lo stile in questo caso è fortemente diaristico e si nota la quasi totale assenza di punteggiatura; frequente è anche l’uso di un linguaggio ricercato, lirico ed ermetico con un abbondante utilizzo delle figure retoriche (“Gli aforismi sono gli incantesimi della notte”, “I colori maturano la notte”, “Il poeta non dorme mai ma in compenso muore spesso”). Il mentore aforistico di Alda Merini è Alberto Casiraghi, autore chiave nello sviluppo di questa breve cronistoria e predisposto alla sperimentazione (anche unendo all’aforisma l’arte visiva, l’haiku e l’epigramma); la forma di Casiraghi si contraddistingue per l’accentuata poeticità che si esprime attraverso un linguaggio perlopiù metaforico e quasi onirico (“Quando le foglie sono inquiete la pianta pensa”, “Le farfalle vivono alla giornata”). Altrettanto poetici sono gli ultimi due autori che segnalo, ovvero Donato Di Poce e Fabrizio Caramagna.

Laura Margherita Volante
Del primo, autore prolifico e analogico sempre borderline tra prosa e poesia, è doveroso ricordare che ha coniato il termine Poesismi (e così ha intitolato una sua raccolta), neologismo perfetto per definire (in sintesi, come richiede il genere breve) l’aforisma poetico (Anche gli alberi a primavera scrivono poesie e gli stupidi pensano che siano fiori”, “Il poeta è un contadino che semina metafore e raccoglie stupore”). Caramagna si dimostra un ottimo sperimentatore sempre alla ricerca di nuove e ardite soluzioni, spesso scegliendo di centellinare gli aforismi, uno per pagina e in posizione centrale; nell’anno in corso ha pubblicato con Mondadori Il numero più grande è due, un romanzo poetico (e aforistico) davvero all’avanguardia; il suo stile è leggero e immaginifico, tende spesso a suscitare meraviglia nel lettore utilizzando elementi presi dalla natura (“Un grande albero ha un respiro anche per il boscaiolo che vuole abbatterlo”, “La brevità: si vede dall’esile filo di seta se l’autore ha digerito il suo gelso”).

La produzione dell’aforisma poetico è in costante crescita e continua a evolversi, anche dimostrando una maggiore consapevolezza (in Italia e nel resto del mondo), inoltre negli ultimi anni alcuni studiosi hanno iniziato ad avvicinarsi al tema e a delinearne tratti e protagonisti; su tutti cito il capitolo Versi ed epigrammi in briciole, all’interno dell’interessante saggio L’aforisma italiano del XXI secolo di Antonio Castronuovo, apparso sulla rivista Nuova informazione bibliografica edita da Il Mulino. Alla luce di tutto ciò si può ben concludere, utilizzando le parole di Ruozzi, che il genere sia perfettamente «conscio dei propri confini umani e insofferente di quelli territoriali».




AFORISMA

“Le foglie: lacrime che l’albero piange, quando l’autunno 
ne frusta col vento i rami”.
Nicolino Longo


AFORISMI
di Laura Margherita Volante


L’indifferenza sociale è un virus contagioso…
Non c’è leggerezza più lieve che liberarsi dagli ipocriti.
L’ipocrisia dei benpensanti è stucchevole.
I deboli si nascondono dietro l’alibi del fatalismo.
Le frasi di circostanza sono il passepartout di chi ingoia il veleno dell’invidia.
Qualunquismo è credere che una cosa escluda l’altra…
“Chi salva una vita salva il mondo intero”. Non ci sono scorciatoie.
Gesù non ha bisogno di esibizionismi ma di umanità verso gli ultimi della Terra.
Compagno=Cum panem. Per molti è condividere “il tuo” di pane,
non “il mio”.
L’immediatezza afferra senza lasciare la presa.
Quando non c’è amore da ricevere si fa di tutto per farsi odiare…
Chi non si mette mai in discussione è un perdente a prescindere.
Per chiunque è dura migliorare e mutare cattive abitudini
senza una motivazione convincente.
Trasformazione epocale. La solitudine è una certezza, il resto è ambiguo…
Dal fare gli amici all’essere amici ci passa un oceano, mai pacifico.
Quando si soffre anche gli amici attaccano nel sentirsi forti
non mancando loro la fantasia di rifarsi…
Chi si sente genio pecca di idiozia.
All’invidioso è bene dire: “stira un bel sorriso e ammira… stupido!”.
Invidia. Fenomeno sociale d’avanguardia fra apparenza e superficialità
privo di empatia, e umiltà e solidarietà umana.
Chi perdona ha una visione lungimirante del proprio destino.
Il rancore è una cassaforte se combinazione e quindi inutile.
I vigliacchi non si assumono mai le proprie responsabilità…
Sfuggono ignobilmente.
Il “me ne frego” è la chiave di lettura di un popolo e della sua cultura.
Il “me ne frego” è l’anticamera dell’indifferenza. Quasi una minaccia!
Chi sa scrivere possiede una libertà che nessuno può portare via,
nemmeno il tempo.
Le difficoltà sono nella testa, le risorse nello spirito che spinge in avanti…
Chi cerca solo svago è uno svagato.
Senza umanità non c’è giustizia.

CAM GARIBALDI A MILANO
Quale futuro per la Costituzione
Mercoledì 10 luglio ore 20,30
Corso Garibaldi (MM Lanza)


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ALLA FONDAZIONE AMBROSIANEUM DI MILANO
Per la Pace e la Nonviolenza
Martedì 9 luglio ore 17,30

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GRADO PER BIAGIO MARIN
Sala Consigliare 29 giugno ore 17,30

Biagio Marin, lo sguardo sulla realtà

Sabato 19 giugno alle ore 17 e 30 avrà luogo nella Sala Consiliare del Comune di Grado la cerimonia di presentazione del volume appena edito dal Centro Studi Biagio Marin Il Fondo Marin della Biblioteca di Grado, Fabrizio Serra Editore, che ha l'intento di consolidare la consapevolezza del valore dell'eredità mariniana conservata a Grado, e illuminare i vari aspetti della personalità del poeta, le sue scelte, la nostra storia. Relatori i prof, Giorgio Baroni, Fabio Russo, Fulvio Salimbeni. Ospite d'onore il prof. Mladen Machiedo. L'incontro è preparatorio ad una giornata di riflessione e di studio sul tema, in programma il 13 settembre prossimo, cui sono invitati al confronto studiosi di generazione diversa.

Edda Serra

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RAPPORTO SULLA CITTÀ
Fondazione Ambrosianeum
2 giugno ore 10,30

La locandina dell'incontro



lunedì 24 giugno 2019

Taccuino
DELLA SALA DEL GRECHETTO E NON SOLO
di Angelo Gaccione


Non ero più stato alla Sala del Grechetto dopo lo spostamento dei grandi quadri, le ventitré gigantesche tele portate nelle Sale delle Cariatidi di Palazzo Reale per esporle nella mostra dal titolo Il meraviglioso mondo della natura. Ero andato a vedere l’allestimento più che altro per verificare, se in quegli spazi enormi a me tanto familiari, il “ciclo di Orfeo”, come alcuni lo hanno definito, per la presenza fra quel lussureggiante “giardino zoologico”, quell’incredibile variopinto mondo di animali di ogni sorta, fiori e piante fra i più diversi, di una raffigurazione del mitico musico e poeta che regala la magia della sua armonia a uno stuolo di animali che lo attorniano, avrebbe funzionato. Non che fossi prevenuto, ma conoscendo a memoria ogni dettaglio di questo singolare e stupefacente arredo (non so più quante volte mi ero soffermato a fissare quello strano gatto che agile si protende verso la zampa caprina di Bacco, o l’occhio vigile del cavallo incorniciato tra i bordi delle due finestre e che pareva volesse venirmi incontro) per essere un assiduo frequentatore di quella Sala e anche protagonista attivo in qualità di scrittore per avervi presentato libri, letto versi, preso parte a dibattiti; del suo raccolto contesto; della sua oramai secolare collocazione; della mia sedimentata memoria, nutrivo più di un dubbio. Ed infatti quella visita al Palazzo Reale mi aveva deluso e infastidito. Fuori dal loro contesto, dalla loro collocazione storica, dalla ratio e dalle motivazioni profonde dei loro committenti, quelle tele “scomposte” e isolate, avevano perso ai miei occhi ogni unitarietà, ogni giustificazione, e fluttuavano, alcune di esse collocate ad una altezza esagerata, dentro un vuoto privo di sostanza, un vuoto che le immiseriva, e da cui non ricevevano né bellezza né forza espressiva. Avevano perso tutta la magia che allo sguardo unitario e d’insieme la Sala del Grechetto aveva fino ad allora conferito. Avrei voluto scrivere di questo, ma non lo feci, certo che la stessa impressione avessero avuto gli altri visitatori e gli stessi propugnatori della mostra e che col ritorno delle tele al Grechetto, il mio disagio si sarebbe dileguato. L’ipotesi di una collocazione del tutto diversa e definitiva, ha spinto alcuni di noi alla creazione di un Comitato e ad interrogarsi sulla bontà di quella scelta. “Odissea” ha ospitato sulla sua prima pagina gli interventi contrari di studiosi e appassionati, cercando quanto più possibile di tener desto il dibattito, e nella speranza che la città più attenta e consapevole si interrogasse, prendesse parte, dicesse la sua, convinto come sono che “L’amministrazione di una città consiste nella custodia che ciascuno ne fa per la sua parte”, come ha ben scritto Licurgo nel suo pamphlet Contro Leocrate.

Il libro di Morandotti

Non ero più stato alla Sala del Grechetto dove “il diorama botanico-zoologico” (non sono parole mie, la definizione è della studiosa Vittoria Orlandi Balzari di cui i nostri lettori hanno potuto leggere, su queste pagine, le sue pertinenti riflessioni) ornava così bene le pareti di quella che era stata una Sala nobiliare, e ne avevano fatto non una semplice Sala, ma un luogo pieno in grado di sedurre e di stupire i suoi proprietari, i suoi ospiti, e quanti vi sono finora transitati. Vi sono tornato in occasione della conversazione sul necessario libro di Alessandro Morandotti: Una mostra, un trasloco. Destini della sala del Grechetto di Palazzo Sormani a Milano (Scalpendi Editore, pagg. 106 € 15,00) che ha funzionato come un vero e proprio istant book, come un libro militante, per richiamarci alla vigilanza, per invitarci ad essere prudenti su certe scelte irreversibili, per diventare parte attiva nel civile confronto che si è aperto, e non spettatori passivi o, peggio, indifferenti. Ben documentato, utile agli studiosi e non solo, il libro dà conto della storia delle tele, dell’iter che le ha portate dal Palazzo Visconti-Lunati-Verri (sono i vari passaggi che il Palazzo di via Monte Napoleone ha subìto) fino a Palazzo Sormani in Porta Vittoria. In linea con altri studiosi Morandotti da anni studia e indaga per venire a capo dell’autore (o degli autori, dato che le mani appaiono diverse) del complesso pittorico. Di ipotesi e di nomi ne sono stati fatti più d’uno e nel tempo quello del genovese Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, ha perso quota. Si parla di scuola fiamminga, di mano polacca proveniente dalla corte medicea di Firenze… e il dibattito resta apertissimo. Morandotti invita alla prudenza, aspettando l’emersione di documenti più probanti. La verità potrà venire prestando una più rigorosa attenzione agli elementi dello stile. Ad ogni modo quello che sappiamo con certezza è il nome del vero committente, si tratta di Alessandro Visconti di Carbonara per diversi anni capocaccia dei Medici a Firenze, e chissà che proprio questo incarico abbia contribuito ad alimentare in lui la passione per quell’universo fatto di botanica e di zoologia.


È incredibile come le cose si fissano in noi e diventano memoria necessaria. Ritrovarmi ora in quella Sala dalle pareti vuote, spoglie; asportati quei duecento metri quadrati di arredo che rivelavano il gusto dell’abitare dei suoi proprietari, quel salotto si era trasformato improvvisamente in un non luogo: un non luogo straniato e straniante, senz’anima e con la storia fatta a fette. Un luogo ferito, un semplice banale spazio vuoto addirittura rimpicciolito. Può apparire paradossale, ma è proprio così che si è presentato ai miei occhi: aveva perso di profondità, spazialità, volume. Era diventato un nulla. Se le tele non ritorneranno più in questa Sala e quando gli imbianchini faranno il resto, quello che poteva diventare un delicato salotto-museo, sarà definitivamente una stanza simile a mille altre. Quando un poeta veniva qui, quando vi veniva uno scrittore, un appassionato di pittura, un frequentatore assiduo o un visitatore occasionale, sapeva di trovarsi dentro un mondo, un mondo compatto, unico, coerente, e ne gioiva. Ora quel mondo non c’è più, è semplicemente sparito. Ho provato la stessa spaventosa sensazione di vuoto, di annientamento, di manomissione, di estraneità, di perdita, che avevo provato nella primavera del 2016 ritornando dopo un lungo periodo di assenza, nella mia città di origine. Era sparito un intero viale di robusti bellissimi platani che ne ingentilivano il percorso e che si avviavano verso il mezzo secolo di vita. A tratti i rami sui due lati quasi si toccavano; in alcuni punti avevano formato una piccola galleria con degli archi a sesto acuto; offrivano ombra, solidità, bellezza di colori con le loro foglie, concerti sonori con cinguettii e squittii di ogni sorta, riparo, svolazzi. Come scrittore sapevo che non erano stati massacrati dalla stupidità e dalla insensibilità semplici alberi; sapevo che era stato cancellato un angolo di mondo, di memoria che mi era appartenuta. Quel luogo mi divenne improvvisamente ostile come i suoi indifferenti abitanti, e questa ostilità, questa perdita, si materializzò in due testi poetici: Requiem per gli alberi di via Capalbo (20 luglio 2016) e nella ventottesima elegia della raccolta Lingua mater (8 luglio 2017). Mesi prima del mio ritorno in Calabria, in quello stesso 2016 mi ero occupato del bellissimo libro dello scrittore svedese Stig Dagerman La politica dell’impossibile. Uno degli scritti di quella raccolta, l’ultimo che chiude il volume, si intitola “Passeggiando per le strade di Klara”. 

Stig Dagerman

Riguarda la memoria di ciascuno scrittore, e penso che chiunque pratichi questo strano ed insano mestiere, può farlo proprio, a qualunque luogo egli appartenga. Lo scritto ragiona, con malinconica amarezza poetica, sulla cancellazione ristrutturazione-ammodernamento del vecchio quartiere Klara di Stoccolma. Poiché “la nostra memoria è sedentaria”, come scrive magnificamente Proust - e per un certo tipo di scrittore lo è al massimo grado -, cancellare un luogo, o semplicemente manometterne anche un solo elemento che è stato parte della sua creatività e della sua immaginazione, vuol dire alterarne il contesto e dunque eliminare quella che per lui era una creatura viva. Sacrificare, assieme a questa, anche una parte della vita del suo creatore.
Personalmente ne so qualcosa, e scrivendo i racconti de “L’incendio di Roccabruna”, ho conferito una seconda vita, seppure sulle pagine di un libro, a nomi e luoghi che mi erano stati cari.
Per Dagerman la memoria non si rassegna: “è gelosa e del tutto irragionevole” e se “la ruspa sa di essere al servizio dell’espansione, e l’espansione ha sempre ragione”, tuttavia la memoria resta irragionevole e si mette a strillare: “Non abbattetele, sono le mie case. Non potete demolire il quartiere di Klara!”. E se la ragione chiede perché no, la memoria risponde: “Perché è in questa parte di mondo che hai vissuto i momenti più lucidi e intensi della tua vita”. Quelle case e quel quartiere sono stati lo “scenario” di “sogni” e “cospirazioni”: in uno di quei palazzi ormai demoliti ha preso vita la storia di un uomo e della sua morte, e con quella sparizione definitiva autore e personaggio hanno perso per sempre il luogo fisico del loro incontro, sono cioè morti entrambi. Per le vie dove ora lo scrittore-creatore si avventura, è sceso il lutto, un lutto che non si potrà più colmare, perché Klara era un intero mondo dove si respirava un’aria di indipendenza e di libertà. Qui aveva sede il giornale anarchico “Arbetaren”; qui c’era la redazione di “Storm” che Dagerman per un certo tempo diresse, e qui giovani “cospiratori” proletari e antifascisti, coltivavano la passione ardente dei loro sogni per un mondo migliore e più giusto.
“Se la rivoluzione scoppiasse in Svezia, il suo quartier generale sarebbe Klara”, scrive Dagerman. Ora Klara è un’altra cosa, un luogo freddo e senz’anima; come è avvenuto qui a Milano per il vecchio, popolare, ribelle quartiere Ticinese, simbolo della nostra inquieta giovinezza. Quella meravigliosa “enclave” libertaria non esiste più. Al suo posto moda e movida, speculazione e affari.

Alessandro Morandotti

Anche la mia memoria non si rassegna e “resta irragionevole”. Perché è parte integrante dei luoghi di questa città: perché a due passi c’è la “mia” Università Statale dove ho consumato una parte della mia giovinezza e dove nei suoi chiostri continuo a venire a leggere e meditare, e nella sua Aula Magna a seguire dibattiti e concerti; c’è la libreria Claudiana dove ho presentato tanti libri, c’è il Giardino della Guastalla all’ombra dei cui alberi mi fermo a riposare, a guardare i pesci della peschiera, a fotografare il gelso bianco i cui frutti squisiti mangiavo da bambino sulle terre dei miei nonni materni e che i bimbi milanesi neppure conoscono; c’è la Biblioteca Sormani della cui storia so praticamente tutto, c’è il monumento a Carlo Porta di cui ho sempre amato la sua splendida lingua, c’è il Verziere, c’è la piazza della strage di Stato, e ci sono le tante vie, scenari vivi dei miei racconti. La mia memoria non si rassegna e vuole che i dipinti tornino al loro posto, perché mai, quello straordinario, appassionato, disinteressato, sensibile, colto, geniale, sovrintendente di Brera che è stato Ettore Modigliani e di cui ho appena letto le trecento pagine delle sue incredibili memorie, dico mai, avrebbe acconsentito a questa rimozione e vi si sarebbe opposto con tutte le sue forze. Avrebbe agito e parlato, contrariamente alla stragrande maggioranza degli storici dell’arte, dei sovrintendenti, degli artisti, dei critici d’arte, degli intellettuali, degli opinionisti di questo nostro brutto tempo, silenziosi, indifferenti, borghesemente pavidi. La mia memoria non si rassegna. Forse è nostalgia, forse è vecchiaia. O forse solo rabbia.

La facciata della
Biblioteca Sormani

PS
Mi chiedo inoltre se non sia più saggio, e anche più sicuro, per Milano come per qualsiasi altra città, avere le sue eccellenze artistiche diversificate nei contesti che le ospitano. Non solo questo mostra al mondo l’ampiezza dei suoi tesori, la sua ricchezza, ma in caso di disastri sempre possibili, questa non concentrazione in un unico immenso luogo, può rivelarsi preziosa dal punto di vista della salvaguardia. Sarebbe tempo di aprire una discussione seria anche sull’uso di merce da supermercato del patrimonio artistico, sulle orde che invadono sale con capolavori fragili e a rischio, sulla concentrazione di giornate aperte che spostano masse umane enormi tutte in una sola giornata (perché non prevederle quotidianamente in modo da evitare questi afflussi ingovernabili?), su questo mandare avanti e indietro per il mondo opere irripetibili. E se si schianta l’aereo che le trasporta? E se prende fuoco il mezzo che le conduce? Se si verificano incidenti gravi? La messa in Rete dei capolavori mondiali permette oggi di entrare dentro le sale dei musei senza muovere le opere. Se si vogliono ammirare i Bronzi di Riace si vada al Museo di Reggio Calabria, si conosce in tal modo un’altra città e se ne aiuta l’economia. Dipendesse da me, mai autorizzerei questo “via vai”. E del resto finora non è mai venuto in mente ad alcuno di spostare per un paio di mesi la torre Eiffel a New York, o il Colosseo a Londra.    



UN GIARDINO PER TUROLDO

Il bassorilievo realizzato dallo scultore
Salvatore Sanna del
"Comitato di Odissea per Turoldo"
che sarà donato domenica 30 giugno
al tempio di San Carlo al Corso

Il Comitato di Odissea per Turoldo” è lieto di annunciare che martedì 25 giugno dalle ore 16 in poi i festeggiamenti per Turoldo continueranno nel vicino Auditorium del tempio di San Carlo al Corso, ingresso da Corso Matteotti n. 14 (Metropolitana Rossa MM1 fermata San Babila). Sono previste letture poetiche, testimonianze, video, mostre, intermezzi musicali alla presenza dell’arcivescovo metropolita Mario Delpini e di Concetta Turoldo nipote del frate. Moltissimi gli ospiti provenienti anche da altre città.
       
Sabato 29 giugno dalle ore 16 in poi, sempre presso l’Auditorium di San Carlo al Corso, proseguiranno le testimonianze, i ricordi, i momenti musicali e l’omaggio che alcuni poeti provenienti da varie città tributeranno a Turoldo.

Domenica 30 giugno alle ore 13, donazione al tempio di San Carlo al Corso di un bassorilievo dello scultore Salvatore Sanna del “Comitato di Odissea per Turoldo”, ispirato al religioso friulano.  

Letture poetiche di: R. Carusi, M. De Vita, G. Quillico  

Testimonianze di: E. Ronchi, R. Salvi, R. Cenati, C. Bianchi Iacono,
A. Poz, E. Colonna, G. Langella, L. Tussi, F. Cracolici, G. Deiana,

Interventi musicali di: V. Bonaretti, C. D’Ariano, E. Colaci, S. Covri,
R. Quagliarella

Cori Gospel: “Black Inside” e “Be Spirit  
Direttore: Ulrica de Giorgio




“Comitato di Odissea per Turoldo”
Via Scrivia n. 5 Milano
Tel. 348-8760129
latoestremo@gmail.com





Ancora adesioni pervenute al “Comitato di Odissea per Turoldo” da varie città. Ricordiamo che la cerimonia pubblica del giardino dedicato dal Comune di Milano al poeta e religioso David Maria Turoldo è per martedì 25 giugno alle ore 12,15 in Largo Corsia dei Servi. Alle ore 16 festeggiamenti con testimonianze, letture poetiche, musiche e proiezioni video a San Carlo al Corso (ingresso da Corso Matteotti n. 14).

Adesioni
Raffaella Beano, direttore del Comitato Scientifico dell'Associazione
padre David Maria Turoldo, Coderno di Sedegliano (Udine)
Enrico Fantin, presidente onorario del dell’Associazione culturale
“La Bassa”, (Latisana, Udine)
Graziella Bernabò, saggista (Milano)
Mariateresa Rigoli, (Milano)
Giuseppe Muscarà, (Milano)

                                                            

LETTURA PER L’ESTATE
Aforismi semiseri o irriverenti 
di Nicolino Longo



1.A Malta: a fine d’ogni Corso universitario, son così tante
le mal/tesi, che solo un esiguo numero di aspiranti arriva,
poi, alla laurea”.

2.“La città più ambita dai vampiri: Roma, avendo sette colli”.

3.“Il Sol sarò per te sempre a levante, e tu la Luna in ciel
giammai calante”.

4.“Cilindro e pistone: un caso di pederastia meccanica”.

5.“Il miracolo dei sensi: un muto gridò talmente forte che un cieco
vide un sordo tapparsi le orecchie”.

6.“Per una moto, su strada sterrata, l’unico ostacolo è la mota”.

7.“Il mio oggi è piatto: piatto in cui mangio a boc/coni amari
il domani”.

8.“I politici sono avvezzi a rispondere, più che alle richieste
dei propri elettori, alle inchieste dei procuratori”.

9. Questo è l’uomo: un Cristo che, dalla nascita alla morte, vive
attaccato ai chiodi della propria croce”.

10.“In famiglia: era bello quando c’eravamo tutti; quando, d’inverno,
pur senza stufe, il fianco dell’uno riscaldava quello dell’altro”.

11.“Il colmo per un ortolano: non avere neanche un cavolo nell’orto,
e averne poi tanti per la testa”.

12.“Le prue tagliano i mari, lasciandoli interi”.

13. “Se, di Quaglia e Corbo, nemico fu Cacciatore, non son
che Mazza e Martello, quelli di Ferro e Chiodo”.

14. “Il cerchio alle altre figure geometriche:-Voi, dietro ogni angolo
potreste trovare la morte. Io, invece, posso vivere tranquillo-”.

15.“Uno strano scrupolo: prima di dare il veleno ai topi, si accertava
sempre che non fosse già scaduto”.

16.“Chi s’abbassa, s’inabissa”.

17.“Solo Dio è riuscito a scrivere il libro di poesie più paginoso del mondo
con un solo verso: l’Uni/verso”.

18.“Ciò che Il mare fa alla terra: la schiaffeggia ov’essa è riva.
L’abbraccia, ov’essa è isola”.

19.“Quando bellezza incanta, cuor di poeta canta”.

20.“Quant’eran belli i tempi, quando pochezza d’ogni cosa, ricchezza
era d’ogni casa!”.

21.“Un vecchietto, sulla porta, alla sua ragazza dell’Est:
-Torno TOSTO-. Era uscito a comprarsi il viagra”.

22.Sarai sol tu per me la donna-gomma, con cui cassar dal mondo
ogni altra donna”.

23.“Pur chi viaggia su via retta, non rinunci mai alla fretta”.

24.“All’uomo tecnotronico: Ti reputi, fra tutti, l’essere meno schifoso
e più evoluto dell’universo? Potresti aver ragione, solo se tu
non avessi ancora la bocca collegata con il culo”.

25. In una serale Kermesse di poesia all’aperto. A tratti, il cielo 
s’illuminava a giorno: era per i lampi di genio di alcuni poeti”.