Pagine

sabato 27 luglio 2019

Taccuino
LA CASA DEGLI OMENONI
di Angelo Gaccione

La Casa degli Omenoni

Dopo il Duomo e la Galleria forse il palazzo più fotografato di Milano e la Casa degli Omenoni. Tra l’altro, spazialmente è quasi contigua ad entrambi: sbucando in Piazza della Scala, uscendo dalla Galleria e seguendo il profilo dell’enorme palazzo della Banca Commerciale Italiana (ora sede espositiva delle Gallerie d’Italia), appena superato il Palazzo Marino e svoltando in via Case Rotte, dietro la chiesa di San Fedele, la “Casa” ve la trovate lì, all’imbocco di via degli Omenoni n. 3. È una strana piccola via questa degli Omenoni, costituita da appena due edifici che si fronteggiano e contrassegnata da due soli numeri civici, il 3 e il 2. La “Casa” è al 3 e spicca con i suoi 8 enormi telamoni disposti lungo la facciata. Gli otto “omoni” ne fanno indubbiamente una facciata singolare e a questo deve il successo dei tanti che la fotografano o vi si fanno fotografare. L’architettura ci informa che il telamone ha una funzione di sostegno strutturale (lo si adopera al posto della colonna o della lesena), ma può rivestire anche una funzione decorativa. Qui è proprio questa la ragione che appare più evidente nelle otto sculture realizzate da Antonio Abondio. Costruita nella seconda metà del Cinquecento (1565), la data incisa sul frontone può depistare perché porta 1722. Può darsi che questa data si riferisca a dei rifacimenti posteriori, ad uno dei passaggi di proprietà, o alla numerazione civica in vigore nei secoli successivi. I riferimenti alla classicità nascono invece dall’amore che per quella cultura ebbe il Cinquecento. La mitologia ci svela che Telamone era figlio di Eaco e di Endeide e fratello di Peleo. Dalla voce contenuta nel Dizionario di mitologia classica (Libreria Meravigli Editrice 1985) curato da Paola Crescini, Luigi Della Peruta e dall’amico Franco Fava, scomparso prematuramente, apprendiamo che Telamone si sposò almeno tre volte, che commise un fratricidio e che come guerriero partecipò non solo alla spedizione degli Argonauti, ma persino alla guerra di Troia. Proprietari ne furono Leone Leoni e suo figlio Pompeo che oltre ad abitarla, ne fecero il loro laboratorio di scultura e un luogo prestigioso, ospitandovi le loro preziose collezioni d’arte. Un tempo anche il famoso Codice di Leonardo, ora custodito alla Biblioteca Ambrosiana di piazza Pio XI, è transitato da questa abitazione. Leone era stato nominato scultore ufficiale della Zecca di Milano, ma dalle cronache non pare fosse stato uno stinco di santo, visto che la sua vita avventurosa ed estrema gli procurò qualche assaggio ai remi delle galere pontificie. Doveva avere un carattere alquanto “leonino” visto che leone lo era nel nome e nel cognome (nomen omen), e che di leoni ne ha fatti inserire a profusione sotto il cornicione. Persino una allegoria della Calunnia sbranata dai leoni. Ad ogni modo, come ci informa il Vasari, Leoniha con molta spesa condotto di bellissima architettura un casotto nella contrada de' Moroni, pieno in modo di capricciose invenzioni, che non n’è forse un altro simile in tutto Milano”. E singolari e “capricciosi” appaiono questi otto telamoni che non mi sazio mai di ammirare, ogni qual volta percorro i cinquanta passi della via che immette nella settecentesca Piazza Belgioioso. Piazza Belgioioso è un rettangolo formato dall’omonimo palazzo realizzato dal Piermarini per il principe Alberico XII di Belgioioso, e dal neoclassico Palazzo Besana che gli sta di fronte con le sue imponenti otto colonne doriche, ora sede di una famosa banca. Tutta la zona è piena di grandi banche.

La Calunnia sbranata dai leoni

Nel palazzo Belgioioso ha sede quello che viene considerato il più antico ristorante di Milano, il “Boeucc”, nato nel 1696. Frequentato dai Carbonari nel 1848 durante i moti rivoluzionari, allora era una semplice osteria popolare, una rivendita di vini. Oggi esibisce con una nota di orgogliosa civetteria il suo elegantissimo blasone retrò. La Casa del Manzoni (oggi Centro Studi dedicato al romanziere) fa da quinta verso il fondo e si salva grazie al cotto dei suoi elementi decorativi, altrimenti sarebbe oppressa dai due mastodontici palazzi. Sul fronte opposto il rettangolo è separato dalle arcate che immettono in piazza Meda con i portici e i preziosi pavimenti e dove troneggia il Disco, la scultura solare realizzata da Arnoldo Pomodoro nel 1980. Purtroppo piazza Belgioioso non è fruibile: su un lato è transennata da cippi e catene (la parte prospiciente di cui è proprietaria la banca) e non ci si può sedere; si presenta solo come un luogo di transito con il traffico che vi scorre nel mezzo. Come ho anticipato più sopra, la via degli Omenoni si compone di due soli numeri civici. Il numero 2 è costituito da un unico palazzo di stile in voga negli anni Trenta. Non sono riuscito a conoscerne il realizzatore né parlando col portiere, né chiedendo ad una delle attuali inquiline; lo stile è tuttavia identico a quello degli edifici vicini progettati da Pier Giulio Magistretti, Piero Portaluppi, Giovanni Greppi, e tutti affacciati su Piazza Meda.
Questa architettura col tempo è diventata molto più dignitosa di come il dibattito sul fascismo ce l’aveva presentata, forse perché la ricostruzione post-bellica dagli anni Cinquanta in poi non ha brillato né per postulati teorici, né per resa inventiva, né per solidità. Banale e priva di idee, e lasciamo pure da parte i dati speculativi e di offesa al territorio. Quella nata durante gli anni del Regime (di devastazioni urbane il fascismo ne ha fatte a iosa) almeno obbediva a una sua idea e a un suo delirio.
La galleria ha persino un tetto ligneo; a me piace percorrerla così al coperto lungo la via Adalberto Catena che costeggia la piazza Meda fino alla via Verri. In genere lo faccio per giungere al numero 10 dove Pietro, il grande illuminista, aveva avuto casa. Nessuna notizia all’ignaro passante ricorda che qui nacque “l’Accademia dei Pugni” o la rivista “Il Caffè”, in compenso dei negozi di lusso di via Monte Napoleone e dintorni, i turisti dello shopping internazionale sanno tutto.  


giovedì 25 luglio 2019

ALBERT CAMUS:
La torsione della Storia nel cielo di Hiroshima
di Filippo Ravizza

Albert Camus

1951 (1951!!!) Albert Camus scrive profeticamente, con una lucidità addirittura spaventosa, perturbante. Egli scrive dei possibili sviluppi della Storia del futuro (visti dal 1951!) a partire proprio dall'invenzione della bomba atomica. Egli percepisce che la possibilità tecnica dell'annientamento dell'intera umanità non può non modificare profondamente, non porre in torsione la dialettica storica nel confronto epocale tra capitalismo e socialismo reale. Ora se voi sostituite alla espressione scritta da Camus "e fino a decomposizione spontanea del capitalismo" l'espressione "e fino a decomposizione spontanea del socialismo reale", voi avrete, leggendo il virgolettato di Camus, la perfetta descrizione di quanto è effettivamente e realmente accaduto nel 1989. Accecante capacità premonitrice di Camus! [Filippo Ravizza]

Hiroshima

"La guerra, fredda e tepida, è servitù dell'impero mondiale.Ma divenuta imperiale, la rivoluzione si trova senza vie d'uscita. Se non rinuncia ai suoi principi falsi (principi di cristallizzazione della rivolta e congelamento dello status quo con rinvio all'infinito di ogni prospettiva rivoluzionaria; nota di Filippo Ravizza) per tornare alle fonti della rivolta, essa significa soltanto il mantenimento, per parecchie generazioni, e fino a decomposizione spontanea del capitalismo, di una dittatura totale su centinaia di milioni di uomini; oppure ove voglia precipitare l'avvento della città umana, la guerra atomica che essa rifiuta, e dopo la quale qualsiasi città, del resto, splenderebbe soltanto su rovine definitive. La rivoluzione mondiale, per legge di quella stessa Storia che essa ha incautamente deificata, è condannata alla polizia o alla bomba" -
[Albert Camus - L'uomo in rivolta 1951]   

Filippo Ravizza

"L'umanità dopo Hiroshima e Nagasaki per la prima volta si è specchiata nella raggiunta capacità tecnica di autoannientamento, autodistruzione e estinzione. Qui la tecnica imprime una torsione, una distorsione allo sviluppo della Storia che è in atto ancora oggi e da cui non sappiamo se e come e quando usciremo. Questo stallo è ciò che nel mondo occidentale è stato percepito come "fine della Storia"... ma la Storia si muove, si muove anche nell'epoca del dominio della tecnica e dell'ideologia pervasiva e totalizzante che oggi governa proclamando che è finita l'epoca delle ideologie. Questo cambiamento, questa torsione deve però essere ancora pensata dalla filosofia, deve ancora essere affrontata, siamo ancora nel pieno del livido giorno della era nucleare, l'era che ha deposto nelle mani della tecnica la capacità di eradicazione dell'intera umanità. Pensare la cesura e lo iato, lo slittamento del senso stesso del procedere del tempo e del rapporto tra idea e realtà provocati irreversibilmente dalla nuova condizione dell'essere - nel - mondo, è urgenza preliminare a qualsiasi tentativo di sistematizzazione futura del futuro". [Filippo Ravizza]   

lunedì 22 luglio 2019

Taccuino
MONLUÈ
di Angelo Gaccione

L'abbazia di Monluè

Ho sempre immaginato che le abbazie disseminate lungo quelle ampie distese e quelle pianure scarsamente abitate ricche di campi un tempo poco coltivati, con i loro campanili in cotto svettanti verso il cielo, fungessero da veri e propri segnali visivi, da mappe, da tracce di orientamento per viandanti e pellegrini. In lontananza li si sarebbe potuti vedere ergersi da un terreno piatto come una placida, immobile, distesa marina, e stagliarsi sullo sfondo azzurro estivo, o schermati da un velo di nebbia ai primi umori autunnali. Proprio così mi sono immaginato spesso la fuga da Milano di Renzo Tramaglino dopo l’assalto ai forni, per sfuggire alla cattura e riparare in quel di Bergamo: una serie di campanili di abbazie che lo hanno guidato, che lo hanno condotto. Ancora oggi da Città Alta, dalla parte che guarda sul fondovalle, se la giornata e limpida e sgombra, è possibile scorgere all’orizzonte il profilo dei grattacieli di Milano, i suoi campanili, la sua “foresta” verticale. E così mi sono sempre immaginato quella meraviglia che è l’abbazia di Chiaravalle con il suo imponente campanile che emergendo improvviso dava conforto e rassicurava lo sguardo al suo apparire. Così l’abbazia di Morimondo col suo minuscolo borgo protetto tra le mura, così quella di Viboldone, così quella di San Lorenzo in Monluè, dove non ero più stato da anni, e dove sono ritornato in un pomeriggio di luglio vinto da un ineffabile, strano, malinconico, doloroso sentimento di affetto. 

L'antico borgo

Monluè, detto Mons luparium, era stato per secoli un armonico, minuscolo, fertilissimo, autosufficiente borgo agricolo fondato nel lontano 1267 da mercanti e religiosi Umiliati, in quella parte di campagna che l’urbanizzazione selvaggia ha successivamente inglobato, e poi schiacciato, tra un fianco della via Mecenate, la Tangenziale Est, la via Fantoli che ha aperto un varco per raggiungere il paesino di Linate costeggiando una dorsale della pista dell’Aeroporto Forlanini e le acque inquinate del Lambro. Non lontano da qui, nel quartiere chiamato appunto Ponte Lambro, c’è tuttora una Via degli Umiliati a ricordo della loro presenza e della loro intraprendenza di frati agricoltori e mercanti, prima che Carlo Borromeo secoli più tardi ne scioglierà l’ordine e ne incamererà i beni. All’epoca il Lambro doveva essere limpido e le sue acque benedette per le varie attività del borgo, fra cui la tessitura della lana ed il funzionamento del mulino. Per fortuna la Seconda guerra mondiale lo ha risparmiato: gli stabilimenti di produzione aeronautica della Caproni in zona, avrebbero potuto far sorgere qualche malsano pensiero. Io questa zona ho potuto vederla ancora nel suo pieno vigore, con le tante piccole industrie, la Montecatini, la Fabbri editore e poi la Bompiani, la Sip, le case per i lavoratori. Nelle sere d’estate non c’era ancora l’illuminazione lungo i campi che portavano a Monluè, e per le coppiette di innamorati era una gioia. Non si sentiva parlare di maniaci e di violentatori, e l’incoscienza giovanile e la baldanza facevano il resto. 


Io quel campanile così ardito l’ho amato subito, come le sue cascine disposte a corte, il parco circostante, le casette a un solo piano con l’orto o un piccolo giardino attorno, l’odore dello stallatico, alcuni vecchi mestieri che resistevano, l’Antica Trattoria Monluè che risale al 1450, per me la più romantica di Milano, assieme all’Antica Trattoria Bagutto che era quasi attaccata all’ospedale “Le Quattro Marie” (ora Centro Cardiologico Monzino) col suo enorme camino, fantastico d’inverno. E poi il pioppo secolare nel centro della corte che gareggiava in verticale con il campanile di San Lorenzo, il bell’edificio scolastico cinto di prati, le stradine che percorrevamo al sicuro con biciclette improbabili. L’arrivo della Tangenziale ne ha decretato l’agonia. Ha tagliato in mezzo il borgo, ha reso triste e disperato l’edificio scolastico, ha lasciato l’abbazia come sospesa in un limbo, nascosta dalle barriere in plexiglass anti-rumori che tuttavia continuano con il loro sottofondo fastidioso e ossessivo, assalita com’è da un traffico inarrestabile e perenne, oppressa dal rombo di auto, camion, tir, se già non bastasse quello minaccioso degli aerei della vicina pista di Linate. E pensare che questo borgo con la sua abbazia era simbolo di laboriosità e di raccoglimento; di meditazione e di preghiera; di acque che fluivano quiete, di piante che stormivano, di suoni di campane, di dolci cinguettii di volatili. 

La corte con le cascine

Lo sviluppo ha cancellato tutto questo, ha mortificato gli orti, fatto decadere le attività, disperso gli abitanti. Non ci sono ora più di venti residenti, mi dice suor Gabriella, in questo complesso rurale. Parti delle strutture, scuola compresa, sono occupate da associazioni che si occupano di accoglienza per stranieri, di protezione per richiedenti asilo. Per Salvatore, anziano pensionato di Acerra che si prende cura di un ordinatissimo e lussureggiante orto e che mi ha regalato un cespo di basilico, i residenti non arrivano a quindici. Ci vive dal 1974 e per lui qui è come un angolo di paradiso. Decentrato com’è, dovete arrivarci per espressa volontà: ora è più noto ai milanesi per l’Antica Trattoria e per le sue prelibatezze culinarie, più che per l’abbazia. Chi viene da queste parti ci viene per gli Studi Rai e televisivi, per gli show room degli stilisti, per i locali alla moda. La via Mecenate è in parte sfigurata: i vecchi stabilimenti, anche quelli bassi e dai tetti spioventi a mattoni che erano una preziosa archeologia industriale, sono stati fatti alterare e sono divenuti irriconoscibili. 

Il pioppo secolare al centro della corte

Manomissioni ed azzardi si susseguono senza sosta. Da parte sua l’abbazia è tenuta male; agli antichi fasti è subentrata un’aria dimessa e di provvisorietà. Vi ho avvertito come una sinecura e ritornarvi mi ha fatto male, me ne sono tornato più triste e più deluso. È un oltraggio alla memoria e alla bellezza la marginalità a cui è stata ridotta e temo che ben poco venga fatto anche dal circuito dei beni culturali. La lastra marmorea murata all’interno con la scritta che rivela i restauri del tempio “dagli Umigliati nel 1267 fatto sede della parrocchia nel 1584 alla prima forma restituita… onde sia più augusto e caro…” suona come una beffa. Col tempo le sue condizioni sono destinate a peggiorare, e se non si interverrà con sollecitudine, la città tutta sarà responsabile di un tale disinvolto abbandono. È immorale che noi posteri non sappiano preservare e custodire, i tesori che le generazioni precedenti ci hanno così splendidamente consegnati.

ALBUM


Foto 1


Il campanile

La lapide interna all'abbazia

Particolare delle cascine


L'Antica Trattoria vista da fuori

Scorcio dell'Antica Trattoria

Grigliata alle Cascine Monluè

AGNES HELLER:

PER UNA "CRITICA ALLE RAGIONI DEL VIVERE"
di Franco Astengo

Agnes Heller


Nella sua radicalità l'opera di Agnes Heller si colloca sicuramente al di là della stessa esperienza del marxismo e va considerata e proiettata in un orizzonte di più ampi di temi e suggestioni già presenti nella riflessione di alcuni pensatori centrali del '900.
La Heller infatti ha rimesso in discussione il problema della funzione della filosofia e del compito del filosofo nella modernità. È risultata fondamentale l'idea che il bisogno insopprimibile di filosofia rappresentasse il solo punto di connessione possibile con  la soddisfazione di ogni altro bisogno.
Riecheggiando Bloch la Heller identificava lo spirito della filosofia con lo spirito dell'utopia costruendo proprio quella che mi sono permesso di definire "critica alle ragioni del vivere".
Una critica che parte dall'analisi di Bloch e Luckas in relazione al rapporto tra utopia e marxismo considerato come il punto più alto nella ricerca delle ragioni umane per arrivare, attraverso Heller, al nodo centrale della dimensione utopica del pensiero. Ci siamo trovati così davanti al nodo centrale per descrivere una "utopia concreta e razionale".
A fianco dell’attenzione alla dimensione della storicità umana, il pensiero etico di Heller risuona di un ideale di filosofia il cui destinatario è l’«uomo che cerca la verità» e «il filosofo la sua comunità».
Si configurava così una ‘discussione filosofica’ nella quale ognuno apprezzava nell’altro un rappresentante dell’umanità e diventava concreto il tentativo di «dare delle norme al mondo» ma anche di «dare alla norma un mondo» perché secondo Heller «esistono bisogni radicali oggi non esplicitabili senza filosofia" Tutto questo significava porsi in ascolto di un invito che è rivolto a ogni essere umano: «Venite, vogliamo pensare insieme, vogliamo cercare insieme la verità».
Il tentativo è stato quello di tematizzare un’antropologia in grado di indagare non l’ideale del genere, ma la natura sociale dell’uomo per allestire una nuova antropologia da contrapporre a quella di Hobbes.
La ‘comunità’ alla quale si rivolgeva Heller incarnava un ideale di discussione filosofica il cui modello non era quello del consenso totale né quello che rendeva impossibile la contrapposizione tra valori veri. E là dove ripete: «Non voglio che ci sia solo un’interpretazione di Amleto “vera”, oppure che ci sia solo una forma di vita “buona”», appare come formulatrice dei “valori guida” a cui richiamarsi: quelli della libertà, della comunità e della personalità.
In questo modo si è guidati verso i valori del ‘Vero’, del ‘Bene’ e del ‘Bello’ all'interno di un percorso nel quale non basta la ricerca della «situazione linguistica ideale» di Habermas.
La ricerca del "Vero" occorre che si attui in una società già fondata su rapporti simmetrici in quanto in società dove valgono rapporti di subordinazione e di dominio la razionalità non viene mai pensata rispetto al valore, ma rispetto al fine e in esse il sapere specialistico ha sempre il peso decisivo.
Il richiamo ai “valori guida” della prassi è ricondotto allo stesso Kant che ha messo in guardia dal guardare «con occhi di talpa fissi nell’esperienza» nell'ambito della morale: riducendo il ‘Vero’ ai giudizi di fatto, spezzettando i linguaggi e i discorsi, considerando i fatti come indipendenti dai valori - secondo la modalità di procedere delle scienze della natura - la filosofia contemporanea si è trovata schiacciata da una ideologia che ci propone l’«utopia negativa» di un’umanità atomizzata e estraniata, dominata dalla «quantificabilità» ed eterodiretta da «specialisti».
Nel richiamo forte alla «verità dei valori» che la Heller ha compiuto si colloca la distanza da quella filosofia che ha fatto della scienza un ‘mito’ e si apre un percorso di ricerca per un ideale filosofico che riesca a farsi carico di una "filosofia della vita": appunto per una "critica delle ragioni del vivere".

ALLI BENIGNI LETTORI

“Odissea” segnala il Blog WWW.LIMES LETTERE su cui l’amico critico e poeta Vincenzo Guarracino tiene una stimolante Rubrica  dal titolo "Guarracismi". In essa tratta sia di argomenti letterari che di argomenti civili, con un occhio attento anche all'attualità. Buona lettura.


domenica 21 luglio 2019

MILANO RICORDA
di Guido Fogacci*

Il cippo (Foto: Odissea)

Venerdì 19 luglio 2019, come avviene oramai da diversi anni, la Milano che non dimentica si è riunita in via Benedetto Marcello davanti ai Giardini Falcone-Borsellino. Qui c'è una bella magnolia, c'è la fotografia dei due magistrati, ci sono i nomi dei caduti della scorta incisi a futura memoria su un cippo. Sono intervenuti Lucilla Andreucci di “Libera”, Nando dalla Chiesa, il procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia Alessandra Dolci, Michela Ledi, Angela Portosi, Rosy Tallarita, il sindaco di Milano Sala, il maestro Raffaele Kohler (che ha riempito i momenti musicali alla tromba) e Guido Fogacci che ha coordinato il tutto e ha letto il documento introduttivo che ospitiamo.


Il cippo (Foto: Odissea)

Oggi   commemoriamo le vittime della strage di via D’Amelio, che segue di soli 56 giorni quella di Capaci dove, il 23 maggio 1992, vengono uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
In questi minuti prima delle 16.58, quando suonerà la sirena, vi inviterei a ripercorrere alcuni fatti da ricordare della vita di Paolo Borsellino nei giorni che precedettero la sua morte. Fatti ancor più significativi alla luce delle sue dichiarazioni alla commissione parlamentare antimafia, rese pubbliche nei giorni scorsi, in cui denunciava lo stato di solitudine a abbandono nel quale i giudici di Palermo si trovavano a lottare contro la mafia.

25 giugno 1992: Paolo Borsellino, in un incontro pubblico, dichiara: “In questo momento, oltre che un magistrato, sono un testimone e attendo di essere sentito sulla Strage di Capaci dai colleghi di Caltanissetta”.
Borsellino non sarà mai ascoltato come testimone.

28 giugno: nell’aeroporto di Fiumicino, quasi per caso, Paolo Borsellino viene a sapere che il suo capo Pietro Giammanco non l’ha avvisato che il tritolo per lui era già arrivato in Sicilia.
Racconterà la vedova Agnese: “Paolo perse le staffe, tanto da farsi male a una delle mani che, mi disse, batté violentemente sul tavolo del procuratore”.

Fine giugno: Paolo Borsellino piange davanti a due giovani pm, Massimo Russo e Alessandro Camassa mentre dice a loro: “Un amico mi ha tradito”.

1° luglio: Paolo Borsellino è a Roma, nella sede della Dia per interrogare, in tutta segretezza, Gaspare Mutolo, ex boss che decide di pentirsi dopo la strage di Capaci e che si fida soltanto di lui. Durante l’interrogatorio viene chiamato al Viminale per incontrare il neoministro dell’Interno Nicola Mancino nel giorno dell’insediamento ufficiale.
Borsellino torna nella sede della Dia sconvolto. Si accende due sigarette alla volta, dice a Gaspare Mutolo di aver appena visto Bruno Contrada e si lamenta con alcuni agenti di un progetto per favorire la dissociazione dei mafiosi. (Contrada subirà anche una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa).
Borsellino annota nella sua agenda grigia “Ore 18.30 Parisi. Ore 19.30 Mancino”.
Mancino negherà per oltre quindici anni di aver incontrato Borsellino quella sera dicendo “Non sapevo nemmeno che faccia avesse, non l’avrei proprio riconosciuto”. Il ministro dell’Interno Nicola Mancino, quindi, non conosce il volto del magistrato più famoso d’Italia. Non riconosce il volto di colui che accompagnava la bara del suo amico Giovanni Falcone durante i funerali trasmessi da tutte le televisioni.


La magnolia del Giardino
(Foto: Odissea)


In quei giorni Borsellino confida alla moglie: “Mi resta ancora poco tempo per vivere” e intensifica furiosamente i ritmi di lavoro per le sue indagini solitarie sui retroscena della strage di Capaci annotando tutto nella sua agenda rossa.

10 luglio: Paolo Borsellino incontra a Roma il comandante del ROS Antonio Subranni. Il collega Diego Cavaliero dirà che quel giorno Borsellino aveva “l’aria assente”.

13 luglio: Paolo Borsellino confida a un agente della scorta: “Sono turbato per voi, perché è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi”.

15 luglio: Paolo Borsellino sta male, dopo una giornata di intenso lavoro rientra a casa in preda a conati di vomito e dice alla moglie Agnese: “Sto vedendo la mafia in diretta. Mi hanno detto che Subranni è punciutu”, cioè affiliato a Cosa nostra.

16 luglio: Paolo Borsellino interroga a Roma Gaspare Mutolo, che accetta di verbalizzare le accuse a Bruno Contrada.

17 luglio: Paolo Borsellino passa in Procura, chiude i verbali di Mutolo in cassaforte, poi abbraccia a uno a uno i colleghi. Dinanzi alla loro meraviglia risponde “Perché vi stupite? Non vi posso salutare?” Poi si confessa e fa la comunione.

18 luglio, sabato: Ricorda Agnese: “Andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse: “Mi ucciderà la mafia, ma solo quando altri glielo consentiranno”… Da settimane mi diceva che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato” e che “aveva visto la mafia in diretta”, parlandomi di contiguità tra la mafia e parti infedeli dello Stato.

19 luglio ‘92, domenica. Paolo Borsellino è al mare con la famiglia a Villagrazia di Carini.
Dopo pranzo rientra a Palermo per la consueta visita all’anziana madre, in via D’Amelio, mai transennata nonostante i ripetuti allarmi di pericolo attentato. Alle 16.58, mentre preme il citofono, una Fiat 126 imbottita di tritolo esplode. Insieme a lui muoiono gli agenti della scorta Agostino Catalano (di 42 anni), Emanuela Loi (di 25 anni), Vincenzo Li Muli (di 22 anni), Walter Eddie Cosina (di 31 anni) e Claudio Traina (di 27 anni). Paolo Borsellino aveva 52 anni.


Paolo Borsellino viene assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia ignava che l’ha visto morire senza far nulla.
Ma non fu solo ignavia, purtroppo. Ora sappiamo che lo Stato trattò coi mafiosi. Nel processo sulla trattativa Stato-mafia i giudici di primo grado (20.04.2018) hanno condannato, oltre ai mafiosi, anche gli ex generali Antonio Subranni e Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno del Ros dei Carabinieri a 12 anni e - sempre a 12 anni – l’ex senatore e fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, peraltro già agli arresti perché condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Le bombe del 1993 di Firenze (5 morti), Milano (la strage di via Palestro, il 27 luglio del 93, 5 morti) e Roma servono per intimorire ancor più l’interlocutore istituzionale, cioè la controparte di un dialogo segreto e scellerato.
Mentre gli innocenti muoiono, la latitanza del capo mafia Bernardo Provenzano continuerà per 43 anni.
Oggi, il boss Matteo Messina Denaro è latitante da 26 anni.
Grazie.

*Scuola di Formazione Antonino Caponnetto

Note
Intervento liberamente tratto dai seguenti libri:
Uomini soli di Attilio Bolzoni, Melampo editore
Il patto sporco di Nino Di Matteo e Saverio Lodato, Chiarelettere
Padrini fondatori di Marco Travaglio e Marco Lillo, Paper First



PER TUROLDO
Milano. Federico Migliorati
a San Carlo al Corso per Turoldo
(Foto: Fabiano Braccini)

Custode del bene, uomo del fare,
inquieta anima del nostro tempo,
docile sguardo alla Croce, vibrante
nel candore dell’esistenza, il tuo
abbraccio al mondo sofferente, di ieri, di sempre.
Irrompa il tuo esempio in quest’epoca imbastardita e buia,
involgarita e arida, chiusa al pianto
di fratelli naufraghi di ogni dove.
E a noi che viviamo in opulenta società,
il tuo esempio si faccia cristallino, puro nella sua essenza,
negli antri del cuore apra scorci di palpitante emozione,
ci renda vigili nella Notte che viene, come la tua attesa
nella sera a S. Egidio, rischiarata dalla suprema Luce.
Non scorra, la tua poesia, senza lasciare tracce,
ma sia preghiera laica, sia forza che sorregge,
sia consolazione che aiuti, sia speranza che mai si spegne.
Ci evochi, il tuo ricordo, sorriso gentile,
e gaio spirito, fraterno abbraccio, lungimirante azione,
primizia di un cuore rinato nell’amore.
E così la tua vita ancora s’incieli, 
splendente di intima adesione al Vero Verbo.
Federico Migliorati



venerdì 19 luglio 2019

ECCESSO E MISURA NEI RACCONTI DI GACCIONE
di Pino Aprile
Pino Aprile

Roccabruna è ogni posto in cui un ordine viene dissolto


La copertina del libro

Dov'è Roccabruna? Non esiste. È il nome letterario dato da Angelo Gaccione al paese calabrese (di facilissima identificazione), in cui sono ambientate le storie del suo nuovo libro: “L'incendio di Roccabruna”. Sono vicende in cui ogni ragione e sentimento vengono portati all'estremo, in quel punto in cui l'una e l'altro si incontrano e si giustificano a vicenda, fondendosi nella follia umana che non concepisce altre azioni se non quelle che saziano la ferocia dei sentimenti che reclamano un conto da saldare.
Se vi sembreranno storie atroci, cruente, eccessive, sfrenate, sappiate che la ricerca della giustizia, della misura fra le ragioni del torto e quelle della ragione, l'equilibrio e il limite del fare quando, cosa e perché, procede nella nostra e in ogni civiltà, attraverso il racconto, la contrapposizione dei giudizi, l'analisi degli eccessi: se Medea uccide i figli per punirne il padre; se Erode ordina la strage di innocenti; se Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia; se il conte Ugolino si ciba della carne dei suoi ragazzi; se Enrico VIII usa stragi per raggiungere il cuore di una donna che poi farà uccidere...
È attraverso eccessi che si traccia la via e la necessità della misura. Così, quelle storie di Roccabruna che del “troppo” paiono tarate, sono un ritorno alla radice prima della nostra ricerca di equilibrio: persino noti esperimenti (con colonie di topi) sulla nascita di comunità, mostrano che la formazione dei canoni di convivenza avviene attraverso massacri di inaudita crudeltà.
Roccabruna, ci fa capire Gaccione, non è un paese; è ogni posto in cui un ordine viene dissolto e un altro, sorretto da diverso potere, deve imporsi.
E il modo in cui ce lo racconta è apparentemente minimale, racchiuso in un luogo che non è nemmeno sulla cartina geografica. Questo potrebbe rassicurarci, ma così non è, perché Gaccione usa quei racconti come uno specchio: quelli siamo noi. E che il posto sia piccolo, inesistente, non significa proprio niente, anzi: essere non localizzabile è prova (e non si vede altra ragione del nome letterario, visto che quelli di alcuni protagonisti sono reali e ben noti) che quel posto è ogni posto, è l'ovunque. Universale come i sentimenti e le presunte ragioni che ci rendono tutti di Roccabruna.
Non fidatevi dello stile sommesso di Gaccione: è il modo per entrare più facilmente nelle nostre anime e portarvi inquietudine. Altro non si può chiedere a un autore.

Angelo Gaccione
L’incendio di Roccabruna
Di Felice Edizioni 2019
Pagg. 120 € 12,00


IL COLLEZIONISTA ILLUMINATO
di Gabriele Scaramuzza  
 
La copertina del volume

Andrea Baboni (www.andreababoni.it) - con cui condivido da decenni il soggiorno estivo a Bonassola, nonché interessi culturali anche per me (che pur mi muovo in ambiti diversi) ricchi di suggestioni - mi ha fatto gentilmente omaggio del suo ultimo lavoro nell’ambito di cui è riconosciuto specialista: la pittura italiana dell’Ottocento. Per inquadrarne meglio la figura, ricordo quanto meno le sue ampie ricerche (sfociate in impegnative pubblicazioni) dedicate ai Macchiaioli e segnatamente a Fattori, ma anche a Fragiacomo; sul libro dedicato a quest’ultimo è apparsa una mia recensione (sempre su “Odissea”, nel 2016).
Non è tanto, né solo, doveroso per me segnalare questo suo ultimo lavoro; è soprattutto stimolante e - perché no? - piacevole. Il libro è una sorta di catalogo ragionato di una “collezione lombarda” non meglio identificata, e tuttavia di tutto rispetto, degna di esser conosciuta per chiunque ami la pittura tout-court, oltre alla pittura italiana dell’Ottocento. Vi troviamo splendide riproduzioni a colori, in grande formato: emblema e vertice ne è I marmi a Carrara Marina di Vincenzo Cabianca (capolavoro “macchiaiolo” datato 1861), non a caso presente anche in copertina; ma altri dipinti non sono da meno. Alle pagine dedicate alle “Tavole” segue poi il “Catalogo delle Opere” (l’ordine è dato dalla data di nascita dei loro autori), accompagnato da puntuali schede tecniche. Completano il testo i profili dei pittori (succinti, ma a loro modo esaurienti, oltre che vivi): le “Biografie degli artisti”, poste nell’ordine delle loro date di nascita. Infine non manca un’accurata e pertinente “Bibliografia”, che completa, in modo esauriente, i testi citati sinteticamente nelle schede dal 1867 e 2017. Conclude il tutto l’“Indice degli Artisti”.
S’impone a questo punto uno sguardo all’introduzione del curatore, Andrea Baboni: una presentazione compiuta, che prende per mano e guida nell’itinerario il lettore attraverso il testo; e su cui ovviamente cade per prima cosa l’occhio del fruitore (tanto più se dilettante, come nel mio caso). A pag. 8 sono indicati i criteri della composizione del libro.   
Il titolo già di per sé è significativo, enigmatico quel tanto che basta a conferire una deliziosa pennellata di giallo al libro, che non può che stimolare il lettore, indurlo a scorrere le pagine verso una soluzione finale che, con rammarico, non troverà.
Il titolo dell’introduzione dunque: La pregevole raccolta di un collezionista illuminato; più consono al contesto sarebbe stato però dire: innominato. In tutto il libro si evita accuratamente di fare il nome del collezionista; che è lombardo si evince già dal titolo di copertina, che abita a est di Milano l’ho carpito da qualche cauto cenno di Andrea Baboni. Spingersi oltre nelle precisazioni non è concesso. Il caso è raro, e invita a ulteriori indagini….   
L’introduzione dunque: compiuta nel suo genere. Un invito alla lettura, a soffermarsi sulle immagini, certo; ma soprattutto ahimè alla visione in prima persona delle opere: “ahimè”, dato che proprio questo è inibito: col nome, anche il luogo della collezione resta segreto. La presentazione dei singoli artisti è già un’interpretazione e, insieme ad essa, lo è l’ordine in cui vengono presi in considerazione (in riferimento, ovvio, alle loro opere riprodotte nel testo): già da solo è indice dei gusti, della visione della pittura italiana ottocentesca che anima l’autore. Il quale peraltro (da autentico esperto) è stato di stimolo e non poco aiuto al collezionista, mettendogli a disposizione le proprie competenze nella scelta delle opere da acquistare. Possiamo anzi dire che il nostro giallo è - sia pure solo in modo desolatamente parziale - risolto: la collezione così com’è, e dovunque sia, è frutto del contributo dell’ignoto collezionista, ma anche dei consigli, determinanti, del noto autore del nostro libro. 
Tra i pittori considerati nell’introduzione, dunque, Fattori (oggetto, ça va sans dire, di gran parte degli studi di Baboni) non a caso viene primo; seguono Lega, Signorini, Banti, Cabianca, Tedesco, Borrani, Abbati, Sernesi, Gelati, Cecconi, Panerai, Gioli, Simi, Tommasi, Ricci, Lessi, Morbelli, De Nittis, Boldini, Zandomeneghi, Nono, Barbison, Canella, Migliara, Bossoli, Beccaria, Gigante, Palizzi. L’ordine non è certo gerarchico: si mescolano poche righe dedicate a minori e spazi più ampi dedicati a grandi nomi. Credo (ma è solo una mia ipotesi personale) che l’ordine della citazione sia piuttosto dettato dalla logica del susseguirsi delle opere nel catalogo, e dall’itinerario suggerito da Andrea Baboni nella visione di esse; oltre che dalla logica interna del suo discorso.  
D’altronde questo stesso discorso esplicita momenti chiave di una visione della pittura e, in essa, se è lecito dirlo, di un’intera visione del mondo. Di questo è già indice il ricorrere di taluni termini, tra cui particolarmente “il vero” mi sembra sintomatico.
Concludo facendo mie le parole finali dell’introduzione di Andrea Baboni: “Questa collezione deve la sua importanza nel documentare momenti tra i più rappresentativi della pittura italiana del XIX secolo con opere di assoluto rilievo. Ci si augura quindi che non vada dispersa visto l’alto valore che ricopre, non solo storico e commerciale, ma anche affettivo”.  

Andrea Baboni
L’Ottocento italiano
in una importante collezione lombarda
con la collaborazione di Francesca Baboni,
Daniela Prati, Matteo Ziveri,
Edizioni Tip.Le.Co, 2018,
Pagg. 127; e.f.c.  

DISTICI

“Mi spengo per la pochezza dei tanti
che vivon bene e sono lestofanti”   

***
Il rimedio
“Indigeste ti son segrete stanze?
Cura miglior è far buone vacanze”
[Luigi Caroli]