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mercoledì 3 luglio 2019

VENEZIA. LA 58° BIENNALE D’ARTE
di Giorgio Colombo


“Che tu possa vivere in tempi interessanti”, che stampato ovunque in inglese (May You Live in Interesting Times) non fa molta differenza. Con questo antico detto cinese si è aperta la 58. Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (rimarrà aperta sino al 24 novembre): i vari Paesi sono rappresentati negli storici Padiglioni ai Giardini, e all’Arsenale, con i singoli artisti lungo le strutture dell’antico porto intorno alla Darsena Grande, senza contare i numerosi eventi collaterali sparsi nella città. Alla loro apertura nel secolo scorso le distinzioni espositive dei Padiglioni riflettevano, nelle loro divisioni, le diverse varianti nazionali, i propri eroi, le conquiste della indipendenza, le discendenze illustri ecc. Nella metà del secolo scorso si assiste ad un capovolgimento, la conquista del modernismo, uno strutturalismo nemico della decorazione, il fastidio di ogni residuo ottocentesco, l’abbattimento dei confini politici. Qualcosa rimane anche nel nostro presente globalizzato, ma ora la ricerca ama la complessità di un ‘passato-presente’, dirige lo sguardo verso un “un passato negato. Così minoranze sfruttate, residui incerti, popolazioni scomparse, oppure deportate in massa come gli Inuit del Canada negli anni ’50 e ’60 che ora chiedono di ritornare alle loro terre e ai loro costumi. Non un passato decorativo, secondario e subordinato alla trionfante tecnologia, inficiato magari dalle ‘fake news’ di una “Virtual Reality” (come suggerisce il Pavillion dell’Azerbaijan), ma i ritmi preziosi delle antiche musiche e danze: l’attrice (vedi immagine d’inizio) impugna la maschera di carnevale negli spettacoli di F. Antigua e Barbuda. Oppure, al contrario,  un “Mondo Cane” di bamboleggiamenti, come quelli presentati nel Padiglione del Belgio da Jos de Ggruyter & Harald Thys, ‘Flap e Flop’ o la ‘Donna-Topo’ che annuncia la morte.


Ma pure un tentativo di unire la rigidità purista del modernismo, Mondrian e Malevich, con la presenza morbida di visi femminili, sette ritratti di note artiste di colore, cantanti, giornaliste, scrittrici:“The New Utopia Begins Here”, affema l’artista Iris Kensmil  nel Padiglione Czeco-Slocvacco .  
E ancora una mescolanza spiazzante tra vero e riproduzione: tra cuscini, stoffe, veli, contenitori, busti veri e riprodotti a parete si scopre lei, Mari Katayama, l’autrice giapponese, mutilata di una gamba e l’altra dolorante, senza una gamba, circondata, quasi soffocata da forme improprie. I discorsi si moltiplicano. L’uomo non ha manipolato soltanto se stesso, ma anche gli animali, e in particolare il cane, trasformato in macchina, non si sa se minacciata o minacciante. Diversi gli esempi di J. Durhan, USA-Berlino.


Naturalmente non posso riprendere i numerosi casi interessanti che occupano i grandi spazi dell’esposizione e le diverse esperienze sparse in città. Mi limito a ricordare le ‘Cosmo-uova’ del Padiglione Giapponese (insieme ad un bel saggio di accompagnamento), dove l’antica tradizione si ricollega al Grande Masso (Boulder) trascinato dal fondo del mare sulla spiaggia dalla millenaria forza degli ‘tsunami’, per continuare con l’elegante spaesamento italiano, “Né altra né questa”, l’ambigua attrattiva del labirinto, oppure il fiorito e allegro ambiente della Lettonia “Saules Suns” di Daiga Grantina, i numerosi esempi di pittura naif  (“Home as you see me” di Njideka Akunyili Crosby o la voluta semplificazione e ripetizione di Zanele Muholi), gli artisti iraniani al Conservatorio di Musica, l’Indonesia dalle lunghe e ordinate file di cubi trasparenti in vetro, al cui interno s’intravedono i fogli di ‘lost verses’, e infine il caso particolare della Filippina: in un ambiente buio il visitatore, togliendosi le scarpe, cammina circospetto su di un vetro, sotto il quale si illuminano pilastri dalla lunghezza indefinita, moltiplicati, succhiati nel fondo, variati con oggetti dalle più diverse forme e significati: un senso di vertigini. Solo pochi casi di un ricco campionario, nel quale non mancano anche esempi di troppo (nella retorica) o troppo poco (nel minimalismo) e l’eccesso di filmati. Potrei terminare con il “Double Elvis”, la rozza copia dei due ubriaconi, “The great glorification of  low-life hunanity”, dell’americano George Condo, che ci salutano all’ingresso dell’Arsenale.