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martedì 20 agosto 2019

DUE LETTERE SU “L’INCENDIO DI ROCCABRUNA


È piuttosto imbarazzante pubblicare scritti che ci riguardano direttamente, ma non potevamo censurare due non “semplici lettori” come Tiziano Rovelli e Nicolino Longo.



Caro Gaccione,
la lettura del tuo libro di racconti L’incendio di Roccabruna mi ha suscitato questa breve riflessione che ti mando.
Un saluto, Tiziano Rovelli
[Milano, 20/08/2019]     
                                                                   
Viviamo in una strana società, che oltretutto ci ostiniamo a chiamare società “civile”. Mentre la cultura ufficiale ci somministra opere noiose e ripetitive, mentre la televisione appiattisce i cervelli con un intrattenimento sempre più tragicamente stupido e superficiale, i pochi Autori validi faticano ad emergere. O a veder riconosciuto il giusto merito. È il caso di Angelo Gaccione, uno scrittore calabrese, milanese di adozione, direttore del giornale “Odissea” e conosciuto in ambito nazionale ed internazionale per le sue numerose pubblicazioni e per l’impegno sociale e politico portato avanti dal giornale. La sua ultima fatica è il volumetto di racconti sopracitato. E così prendo in mano il libro, poco più di cento pagine, formato piccolo, 15 racconti, introduzione e postfazione di due grandissimi scrittori: Vincenzo Consolo e Giuseppe Bonura. E, insomma, dalle primissime righe il volumetto mi ha catturato e l’ho letto quasi d’un fiato, perché mi sono trovato coinvolto in qualcosa di straordinario per come l’autore descrive la realtà cruda e vera del popolo dell’amata Calabria. Racconti che coinvolgono il lettore, fino ad “obbligarlo” a concludere la lettura, perché il sapiente lavoro storico e realistico molto accurato fa di questo libro un unicum appassionante. Angelo Gaccione ha uno stile scorrevole, sa farsi leggere e scrive in quel bell’italiano che sembra ormai morto, assassinato dal linguaggio televisivo e dei “social”.
Tiziano Rovelli

***

Caro Angelo,



ho letto d’un sol fiato, e con voracità, l’intervista fattavi su “La Bottega dei Libri”, nel luglio scorso, dalla Petronilla Pacetti. Sono rimasto colpito dalle vostre esaurienti ed azzeccatissime risposte, e commosso, molto commosso, dall’emergere, da quasi ognuna di esse, del vostro attaccamento, smodato e viscerale, alla terra di Calabria e alla vostra madre lingua dialettale, che vi siete trascinato dietro non solo nei colloqui con amici e parenti, sul suolo della Città meneghina, ma anche, e soprattutto, sulle pagine dei libri. Avevo dedotto, già da quando recensiste il mio volume di poesie “La sottomissiva funzione dei verbi servili”, che voi nutrivate un amore sperticato per tutto ciò che fosse voce e grafica delle nostre connotazioni linguistiche, affondanti, con radici ancestrali, nei nostri dialetti, e nel nostro irremeabile tempo passato. Come quello legato al rito della raccolta delle ciliegie, o quello della mietitura, di cui scriveste, sempre nella recensione al mio libro, su Odissea, in questi termini: “I ragazzi di città e i figli dell’industrializzazione prima e della terziarizzazione selvaggia dopo, non hanno neppure sentore delle meraviglie visive ed olfattive che questi due riti, queste due pratiche dell’universo contadino hanno impresso nella nostra visionarietà e nella nostra memoria di fanciulli”.
Sentimenti bellissimi, che nessuna attrazione o bellezza metropolitana è riuscita, fino ad oggi, a strapparvi dal cuore, o a minimamente scalfire o “blerare” nella vostra sterminata, e già ben radicata e definita, come avete anche voi detto in una risposta alla Pacetti, memoria storica di fanciullo e di ex giovane calabrese. Questo sarà a vostro onore, la vostra bandiera (come scrisse quarant’anni fa per me Nino Scalisi), che sventolerete sempre su un mondo illuso e fanfarone, che ha bisogno della vostra penna per bilanciare, appunto, il vago, l’atarassia degli uomini, l’egoismo, i forchettoni, gli invasati di stelle. Se siete sceso a compromesso con la realtà milanese (su cui avete scritto quattro volumi), l’avete fatto, soprattutto, per affermare, ancora di più, quella calabrese all’interno di essa. Voi figlio della diaspora, sì. Ma solo col corpo. L’ “al di dentro” a casa. Il cosmopolitismo e la globalizzazione, dunque, vi hanno preso solo di striscio. E anche questo torna a vostro onore, gloria e vanto. Cordialmente. Nicolino.
[San Nicola Arcella, 19 agosto 2019]