L’INCENDIO DI ROCCABRUNA
di Laura Cantelmo
Laura Cantelmo |
Sperduto in
Calabria tra mare e monti, Roccabruna è il nome di fantasia di un paese reale,
luogo d’origine di Angelo Gaccione e teatro delle storie narrate. In
bilico tra realtà e leggenda, esse risultano “talmente reali da parere inverosimili”,
come avverte l’Autore, ma ciò che sorprende è come resti immutabile nel tempo
la rete di soprusi e di sopraffazioni che si ripresentano ogni volta con la
stessa brutalità. Quasi che nei secoli i rapporti umani e sociali fossero
segnati da una insanabile dannazione che si tramuta in violenza spietata verso
i propri avversari o verso gli animali, senza essere mai scalfiti dalla
razionalità, da una consapevolezza umana o dal perdono cristiano. Ne emerge una
distopia, un vero inferno dantesco i cui dannati, in corpo e in spirito, sono
gli stessi abitanti di Roccabruna. Il nucleo narrativo sgorga da azioni e
reazioni all’interno di una società ancorata a superstizioni ancestrali e alla
conservazione di un precario equilibrio legato a un codice di comportamento che
vede le indicibili vessazioni dei potenti nei riguardi dei “villani” e le
reazioni uguali e contrarie di questi ultimi, esplodere come impulso catartico,
ma mai come ribellione tesa a un riscatto sociale. La violenza si manifesta
senza pietà verso veri o presunti rivali e non risparmia neppure inermi
animali. Il problema è l’assenza di qualsiasi barlume di redenzione, mai
vagheggiata né ricercata, quasi che nella vendetta o nello scorrimento di
sangue si trovi l’unica possibilità di rivalsa a causa dell’accettazione
fatalistica di un destino ineluttabile. Anche la storica vicenda del brigantaggio,
che altrove ha visto non solo ruberie, ma possibilità di riscatto, nel
territorio di Roccabruna si configura come furibonda resa dei conti contro
tutti, galantuomini, preti e giacobini – forse portatori, questi ultimi, di una
supremazia socioculturale da tenere in grave sospetto e quindi da tacitare. Non
a caso l’episodio dell’incendio eponimo cade nel 1806, poco dopo la Rivoluzione
francese, quando anche quella speranza di cui Roccabruna non avrà percepito
neppure il vento, aveva già registrato una seria involuzione. Ne conseguirà
un’altra devastante vendetta da parte dei giacobini, conclusasi nel massacro
più truce. E l’incendio appare qui una radicale quanto illusoria opportunità di
catarsi. A quel punto l’Autore stesso si chiederà, con evidente angoscia, quale
sangue scorra nelle sue vene, essendo tutti gli abitanti, senza distinzione di
casta o di classe, corresponsabili delle nefandezze avvenute. In sintonia con
lo spirito che pervade i racconti, “Sepolta viva” testimonia di una concezione
ancestrale della donna, tanto che la dirompente sensualità della protagonista e
la sua orgogliosa mancanza di sottomissione vengono atrocemente sanzionate fino
a condannarla a essere seppellita viva. E in modo speculare, nelle vicende
delle mogli dei migranti – le “vedove bianche” – al tempo della grande speranza
della migrazione verso il continente americano, le lettere anonime verranno
usate come miserabile strumento per denunciare i tradimenti delle giovani
lasciate sole al paese. La pena per le sventurate e per i loro amanti,
commisurata alla gravità dello sfregio, raggiungerà livelli di inaudita crudeltà.
In un caso, il depistaggio delle indagini contribuirà ad accrescere l’orrore,
portando alla condanna di poveri innocenti, destinati a finire ingiustamente i
loro giorni in galera. La lettura pessimistica della realtà del Meridione si
colloca a buona ragione all’interno del paradigma Verga /Sciascia. L’indagine
sulla “grande disgregazione del Sud”, come la definì Gramsci trattando la
questione meridionale, si dipana attraverso una rappresentazione corale, priva
di alcun cedimento sentimentale. E in quanto narratore onnisciente, a
conclusione di ogni storia l’Autore si manifesta con le proprie osservazioni,
lasciando trapelare la fonte d’informazione, ossia il dovizioso ricamo di
leggende ereditato dalla tradizione orale.
I racconti, bellissimi nella loro scarna
linearità, con un andamento musicale nella pregnante essenzialità del
linguaggio, ricercano nella storia di un piccolo paese del Meridione le radici
della violenza dei “vinti” che deflagra negando il diritto di vivere a chi è
vittima della fatalistica immobilità del proprio destino fino ad esporsi
alle vessazioni e allo scherno dei propri pari (vedi “Il delitto di Santo
Stefano”) il cui privilegio di servire il padrone, immedesimandosi nei suoi
interessi, finisce per renderli viepiù schiavi. Ne
“La promessa” lo scrittore vede riconosciuto il suo ruolo di intellettuale
impegnato che non scende a compromessi nella ricerca della verità. La storia si
svolge in un tempo abbastanza recente, allorché nella “paralisi” di Roccabruna
(mi si consenta il paragone con la Dublino joyciana) si affaccia con la carica
di Prefetto proveniente dal Nord un forestiero timorato di Dio, amante
dell’ordine e della legalità. Il quale ignora i codici di comportamento e le diverse
sensibilità dei notabili locali, che mirano ad attirarlo in tutti i modi nella
propria cerchia di relazioni sociali e di interessi economici con un matrimonio
di convenienza da combinare con la di lui figlia. Il fatto di sangue che ne
consegue sarà la vendetta contro la resistenza della giovane – un delitto
perfetto – “una cosa pulita”, da gente che non si sporca le mani, garantendo
l’impunità agli assassini. Dopo molti anni dall’evento, lo Scrittore riceverà
un anonimo plico corredato dalle generalità dei responsabili dell’insospettato
errore giudiziario: un tacito invito a rivelare in forma narrativa l’identità
dei veri colpevoli ormai defunti, che coprirà per sempre di ignominia l’onore delle
famiglie coinvolte. Una vendetta sottile, perversa e coerentemente anonima. Altrove Gaccione concede libero sfogo alla
sua vena affabulatoria ricorrendo alla categoria del grottesco (che introduce
anche un po’ di ironia) grazie a un classico espediente letterario, quello di
un antico documento risalente al secolo XI, rinvenuto negli archivi di
Roccabruna. La responsabilità dei fatti strabilianti e dei crimini che vi si
narrano viene addossata ad alcuni animali – una rivolta incontrollata, simile
nelle conseguenze a un flagello biblico: “Pareva un castigo del cielo”. Una
evidente forma di rivalsa degli ultimi tra gli ultimi, quegli animali che i
contadini hanno spesso trattato alla stregua di schiavi e che il documento
afferma essere divenuti loro alleati, con “scambi” scandalosi come
l’accoppiamento carnale. Ne consegue una inevitabile confusione
nell’interpretazione delle leggi e dei limiti del diritto per quanto riguarda
l’attribuzione delle responsabilità e delle relative pene. Si conferma, in
questo caso, l’ipotesi che per Gaccione il paradosso della colpevolezza degli
animali rappresenti un artificio allegorico che pervade in forma diversa tutti
i racconti, alludendo a storture e ingiustizie ancora evidenti nel nostro
presente. Nel suo aspetto più truculento la vena grottesca si ritrova anche
nell’ultimo racconto, nel quale, tuttavia, una difficile pacificazione viene
finalmente portata nel paese dalla serena saggezza di alcune figure femminili. Certamente
la forma racconto, nella sua brevità, si presta bene alla pittura vivida ed
essenziale di una realtà complessa e ricca di violenti contrasti come
quella del Meridione d’Italia. Una scelta che ha consentito all’Autore di
diffondersi in esperimenti linguistici e in storie sempre incentrate sul tema
del male – il male concreto, ascrivibile alle diverse manifestazioni del potere
e, in generale, alla bassezza umana. [Agosto 2019]
Angelo Gaccione,
L’incendio di Roccabruna
Di Felice Edizioni,
2019
Pagg. 128 €
12,00
Pubblicato il 5 settembre 2019 su
“MILANOCOSA”