di Alberto Barbieri*
Testimonianze di
prigionieri torturati nei campi libici raccolti dagli operatori di Medici per i
Diritti Umani.
“E se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male
del nostro tempo, sceglierei quest’immagine, che mi è familiare: un uomo
scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi
non si possa leggere traccia di pensiero”. L’uomo è seduto davanti a noi nel
posto medico per l’assistenza psicologica, un piccolo modulo di plastica, il
caldo è soffocante. Siamo nel deserto, a pochi chilometri da Agadez, nel campo
allestito dall’UNHCR per i rifugiati in fuga dalla Libia. L’uomo, sudanese, ha
trenta, forse quarant’anni; racconta di come è fuggito dal Darfur, dove il suo
villaggio è stato distrutto e parte della sua famiglia sterminata. Il resto
delle persone a lui care, un figlio e un fratello, le ha perse nei campi di
sequestro libici dove è rimasto quasi un anno; poi la fuga ancora in Algeria
perché l’accesso alle coste libiche e all’Europa era bloccato e il
respingimento da quel paese, con una marcia forzata nel Sahara nigerino, fino ad
Agadez. L’uomo ha perso tutto; le persone, le cose, la sua terra. Racconta la
sua storia con un tono di voce regolare, monotono, in un silenzio assoluto in
cui anche il respiro di noi medici sembra essersi fermato, sembra che la sua
voce debba spezzarsi da un momento all’altro e trasformarsi, se non in pianto,
in lacrime. Ma non avviene. Al termine, il suo sguardo appare perduto, i suoi
occhi vuoti, il suo corpo scarno e ripiegato su se stesso. Da un angolo della
mia memoria riemerge la descrizione di un uomo ad Auschwitz, in Se questo è
un uomo di Primo Levi. Per ogni generazione c’è un momento in cui ogni
certezza si sgretola e ciò che è umano sembra svanire. Per la nostra, quel
momento è arrivato nel quotidiano incontro con uomini, donne e bambini migranti
sopravvissuti alle atrocità commesse nei campi di tortura in Libia e sulle
rotte migratorie del XXI secolo. Si dirà che l’accostamento dei campi di
sequestro e dei centri di detenzione libici in cui dal 2011 almeno un milione
di persone sono state rinchiuse per settimane, mesi o anni, all’Olocausto per
eccellenza, ai campi di sterminio hitleriani, sia del tutto pretestuoso data l’incomparabilità
storica e oggettiva delle due vicende. Forse. Lascerò giudicare a chi leggerà
queste righe.
“Ho lavorato
per la polizia libica ma non era proprio un lavoro. Loro mi usavano, io non mi
potevo rifiutare. Quando ho provato a rifiutarmi mi hanno picchiato violentemente
e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito era quello di recuperare i
cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che morivano durante i
naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi due anni ho contato
circa 3.000 corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla fine non mi emozionavo
più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne che erano visibilmente in
gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a farci
l’abitudine. (L., 17 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta presso
l’Hotspot di Pozzallo, ottobre 2017).
“Vicino alla città di Ajdabiya siamo stati
rapiti da militanti del Daesh (l’autoproclamato Stato Islamico, n.d.r) e per 3
mesi ci hanno tenuto in ostaggio. All’inizio ci maltrattavano con i fucili, con
i coltelli, urinavano su di noi, facevano tutto quello che volevano senza
pietà. Dormivamo ammassati in un capannone senza mangiare e senza bere. Io sono
cristiano, ma quando ho capito che l’unico modo per salvare la mia vita era
convertirmi l’ho fatto…” (M.I., dall’Eritrea, 22 anni, testimonianza
raccolta a Roma presso la clinica mobile di Medu, novembre 2015).
“Da lì, sono stato portato alla prigione di
AlKhums, lontano da Tripoli. C’erano più di 300 persone in ciascuna stanza, non
c’era spazio per stendersi e per dormire. Ci davano poca acqua e poco cibo.
Ogni giorno alle 13 ci portavano un pezzo di pane e un bicchiere di acqua.
Questo era tutto ciò che abbiamo ricevuto per tutti gli 8 mesi in cui sono
stato detenuto lì dentro.” (A. D, 20 anni, dal Gambia, testimonianza
raccolta presso il CAS di Canicarao, Ragusa, novembre 2014).
“Il casolare dove eravamo tenuti prigionieri
era a pochi chilometri dal mare, ad Al Zawiya. Quella sera le guardie entrarono
nello stanzone in cui eravamo ammassati per portare via i cadaveri di alcuni di
noi; poi iniziarono a picchiare selvaggiamente alcuni nuovi arrivati che,
secondo loro, non obbedivano agli ordini abbastanza velocemente. Io e il mio
amico approfittammo del trambusto; la porta era rimasta semi aperta. Iniziammo a
correre senza guardare indietro, con tutte le forze che avevamo ancora nelle
gambe. Eravamo quasi al sicuro in un campo di ulivi quando una raffica di mitra
colpì il mio amico. Cadde a terra. Io mi fermai per un attimo, poi ripresi a
correre perché le guardie stavano arrivando. Piango ora come allora. Lo porterò
con me fino a che vivrò.” (A., 20 anni, dalla Sierra Leone, testimonianza
raccolta al centro Medu Psychè, settembre 2017).
“E c’è una
vergogna più vasta, la vergogna del mondo… c’è chi davanti alla colpa altrui, o
alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato…
nell’illusione che il non vedere sia un non sapere” (I sommersi e i salvati,
Primo Levi). La vergogna del mondo, certo. Dell’Italia, dell’Europa, della
comunità internazionale. La nostra
vergogna che è l’ostinazione a non voler vedere chi sta dall’altra parte del
mare, per non sapere, per declinare ogni responsabilità. Oppure il voler
credere, al di là di ogni evidenza, che sia tutto finto, sia tutta propaganda
perché in realtà “qui da noi arrivano finti rifugiati, giovani palestrati con i
cellulari di ultima generazione e le catene d’oro”. Chiunque abbia
responsabilità di governo, qualunque cittadino degno di questo nome prima di
formulare giudizi e intraprendere azioni dovrebbe riflettere su come i peggiori
crimini del mondo contemporaneo siano sempre stati oggetto di incredulità e di
ogni tipo di negazionismo; dovrebbe per lo meno porsi il dubbio prima di urlare
il proprio verdetto.
“La Libia è
stato un inferno. Io sono maledetta, sono proprio maledetta. A Sabha mi hanno
preso e portato in prigione, volevano da me dei soldi. Sono stata in prigione
sette mesi: dal settembre 2016 all’aprile 2017. Mi hanno fatto di tutto! Ogni
giorno ci prendevano e ci portavano da degli uomini per soddisfare le loro
voglie. Mi hanno preso da davanti, da dietro, erano così violenti che dopo
avevo difficoltà anche a sedermi. Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi
urinavano addosso! Un giorno mi hanno costretta ad avere un rapporto con un
cane e loro mi hanno filmato. Sono maledetta” (N. S., dalla Costa d’Avorio,
40 anni, testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo, giugno 2017).
“Le guardie
si divertivano a vederci soffrire. Ci portavano il cibo una volta al giorno e
mentre ce lo davano ci torturavano con le scosse elettriche. Durante 3 mesi
sono stato picchiato ogni giorno. Le guardie venivano, mi facevano togliere la
maglietta e mi picchiavano sulla schiena con un bastone, dicevano che senza
vestiti faceva più male e loro si divertivano. A volte invece di picchiarmi mi
bruciavano, scaldavano un ferro da stiro e me lo appoggiavano addosso”. (G.O.,
19 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di
Pozzallo, agosto 2017).
“Vivevamo
nel terrore anche perché sembrava che i carcerieri ci facessero del male per
puro divertimento o per proprio piacere. A volte la notte arrivavano ubriachi e
se qualcuno passava sparavano. A volte lasciavano morire le persone
dissanguate.”. (O., 18 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta
presso l’Hotspot di Pozzallo, 8 settembre 2017).
“Il cibo veniva
preparato negli stessi contenitori dove ci si lavava e si urinava. Le guardie
del centro mescolavano gli escrementi che i bambini facevano nella spazzatura
con gli alimenti ed eravamo costretti a mangiare quel cibo anche perché eravamo
da giorni o settimane a digiuno.” (M., dalla Costa d’Avorio, 38 anni,
testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo, agosto 2017).
“Preciso che
io mi trovavo a Sabha nel ghetto dei nigeriani ed il capo del centro era il
nigeriano Rambo. Ho poi saputo che c’erano ghetti per ogni nazionalità, ma
tutti facevano parte del grande Ghetto di Alì. Ogni ghetto aveva un capo,
spesso della stessa nazionalità dei prigionieri che dipendeva dai padroni
libici. Subivamo ogni giorno violenze atroci. Rambo era una presenza fissa. Era presente
all’appello e procedeva personalmente a torturare i ragazzi che non pagavano
per essere liberati” (W., 20 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta
al centro Medu Psychè, dicembre 2017).
“Sono stato
rinchiuso in una prigione per 2 anni. Non ci portavano niente da mangiare.
Venivano per il cibo un giorno sì e uno no e il cibo era solo un piccolissimo
pezzo di pane. Durante questi due anni mi hanno picchiato tantissimo, tutti i
giorni. E non mi facevano mai alzare, ero costretto a stare sempre seduto. Ho
cominciato a non riuscire più a usare bene le gambe. Non riesco più a stendere
le gambe, non riesco camminare e nemmeno a stare in piedi. Mentre ero in
prigione non potevo muovermi, alla fine. Non sono riuscito nemmeno a salire
sulla barca che mi portava in salvo. Un amico ha dovuto prendermi in braccio… Queste
persone volevano da me un riscatto ma io non sapevo come pagare. Se sono libero
oggi è perché mi hanno dato per spacciato, ero vicinissimo alla morte secondo
loro. Per questo mi hanno liberato. Pensavano che da me non avrebbero potuto
ottenere nient’altro.” (A., 20 anni, dalla Somalia, testimonianza
raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017).
“Il
trattamento che viene riservato agli eritrei e ai somali non è lo stesso. Gli
eritrei in generale vengono trattati un po’ meglio, i somali invece vengono
massacrati. Il cibo e l’acqua non ci sono per nessuno. Però ai somali fanno
subire più violenze e crudeltà. Queste cose vengono fatte da Walid e dai suoi
uomini che sono moltissimi. Si divertono a vederci soffrire. Di solito vengono
la mattina e passano tutta la mattinata a giocare con noi. Ci costringono a
farci del male l’uno all’altro. Per esempio se si accorgono che due persone
sono moglie e marito chiedono ad uno di picchiare l’altra nel modo più forte
possibile. Oppure se una persona sta molto male le guardie vanno lì e dicono
“Tu non sei né vivo né morto, ti devi decidere”. E allora lo picchiano
violentemente. Così la persona deve scegliere se riuscire ad alzarsi e
continuare a vivere o lasciarsi andare e morire.” (G., 18 anni, dall’Eritrea,
testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017).
“Sono stato quattro anni nelle mani di
criminali e miliziani libici. Ho dovuto lavorare come schiavo. Ho subito
violenze senza fine. Ma la cosa che ancora oggi più mi duole è che mi abbiano
impedito di praticare la mia religione. Dicevano che un negro non può essere un
vero musulmano.” (S., 31 anni, dalla Guinea, testimonianza raccolta al
centro Medu Psychè, novembre 2017).
Il cattolico |
Auschwitz
ritornerà? Era una delle domande più frequenti che veniva rivolta a Primo Levi
e agli altri superstiti dell’Olocausto. I lager libici mostrano qui forse
l’aspetto più inquietante: anche senza la letifera ideologia nazista, pezzi di
quel mostro possono ritornare in altre epoche e con altri uomini. Il lettore
avrà notato che le testimonianze riportate in queste righe si arrestano al
dicembre del 2017. I lager libici sono ancora lì, intatte macchine di dolore e
di morte. Semplicemente i migranti che dalla Libia riescono a raggiungere
l’Italia e l’Europa sono oggi enormemente meno. Come ha scritto Levi “Le
verità scomode hanno un difficile cammino”.
*Medico, coordinatore
generale di Medici per i Diritti Umani