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lunedì 9 settembre 2019

PARLAMENTO E COSTITUZIONE
di Franco Astengo


Accantonata ormai l’idea di “aprire il Parlamento come una scatola di tonno” il M5S si acconcia all’idea della governabilità così come concepita dal suo nuovo partner di governo, il PD, nato - a suo tempo - sulla base dell’idea della “vocazione maggioritaria”. Si annunciano così, almeno stando a notizie giornalistiche, ipotesi di modifica della Costituzione che accompagnerebbero la riduzione del numero dei parlamentari, provvedimento il cui iter legislativo non è stato ancora completato e che per il M5S ha assunto nel tempo una funzione di vera e propria “bandiera” almeno sul piano della visione istituzionale. Applicando per la prima volta il secondo comma dell’articolo 15 della legge 152 del 1970 (quella istitutiva del referendum) l’obiettivo del nuovo governo sarebbe quello di arrivare a un “referendum day” su due quesiti: quello - appunto - relativo al numero dei parlamentari e quello riguardante un pacchetto di riforme costituzionali tese ad accompagnare il primo quesito con una serie di provvedimenti tesi a garantire, se non a “blindare”, proprio la continuità governativa.
Accanto a tutto ciò sarebbe prevista una nuova legge elettorale a formula proporzionale con una soglia di sbarramento al 4%.
Nel merito dei 5 punti di modifica costituzionale previsti è evidente che occorrerà, dato e non concesso che le anticipazioni giornalistiche risultino veritiere, una riflessione di grande profondità con un impegno da parte dei costituzionalisti a definire un quadro teorico di riferimento in base al quale tracciare una possibilità d’intervento complessivo: com’è stato del resto nell’analoga occasione delle riforme del 2016.
Sarà indispensabile allora riprendere la trama tessuta dal Comitato per la Democrazia Costituzionale che, nel richiamato frangente del 2016, ebbe un ruolo assolutamente determinante. Al momento sembrano previste l’adozione della sfiducia costruttiva, la riduzione del numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica, la partecipazione dei Presidenti di Regione ai lavori del Senato allorquando si discuteranno leggi d’interesse regionale, l’unificazione delle età utili per aver diritto all’elettorato attivo e a quello passivo (18 anni per votare, 25 per essere eletti), l’espressione del voto di fiducia al Governo in seduta congiunta di Camera e Senato,
Mi soffermo soltanto su quest’ultimo punto perché mi pare che su di esso possano immediatamente sollevarsi questioni proprie di ordine costituzionale. Le due Assemblee, infatti, sono elette su base diversa dal punto di vista del riferimento geografico: ritorna, infatti, la questione della “base regionale” per l’elezione del Senato.
“Base regionale” il cui riferimento è stato recentemente violato in maniera clamorosa con l’assegnazione di un seggio siciliano a un eletto umbro: una decisione sicuramente anticostituzionale che ha aperto un vero e proprio “vulnus” che andrebbe superato e colmato ripristinando la legalità costituzionale.
Nel caso della fiducia espressa in seduta comune, considerato il diverso numero dei componenti le assemblee, si potrebbe infatti verificare un annullamento della possibilità di formazione di maggioranze difformi tra le due Camere che nella votazione separata oggi prevista dalla Costituzione possono di conseguenza esprimersi diversamente tra di loro sulla fiducia.
Maggioranze difformi che, nel caso, risulterebbero però espressione della volontà di elettrici ed elettori nel rispetto dell’articolo 57 della Costituzione.
Ci troviamo dunque di fronte ad un ennesimo tentativo di riforma della Costituzione tendente a eliminare presunti ostacoli alla “governabilità” cercando di modificare la funzione costituzionale del Parlamento.
Parlamento che rimane formato da due Camere in forma paritaria come confermato proprio dal già citato referendum del dicembre 2016 all’esito del quale dalla parte del “NO” fornirono sicuramente un importante contributo anche le elettrici e gli elettori del M5S.
Una riforma attraverso la quale secondo accreditate voci giornalistiche si punterebbe a formare un nuovo “arco costituzionale” in condizioni però di sostanziale limitazione nelle possibilità di espressione della democrazia repubblicana. Quanto alla legge elettorale un cui progetto di modifica dovrebbe accompagnare questo disegno di tipo costituzionale che fin qui è stato descritto, tutti convengono sulla necessità di misurarsi con la doppia questione della rappresentanza: quella politica e quella territoriale.
Per affrontare questo tema non basta però pensare soltanto a una formula legata al sistema proporzionale: risulterà fondamentale anche il disegno dei collegi attraverso il quale si dovrà garantire il massimo possibile di estensione nella rappresentanza territoriale.
Quanto allo sbarramento al 4%, previsto dal progetto inserito nel patto PD- M5S, si segnala soltanto, in attesa di entrare meglio nel merito, che con le elezioni del 4 marzo 2018 una sua applicazione avrebbe lasciato fuori dal Parlamento circa 2.800.000 espressioni di voti validi.
In realtà i nodi veri che sono necessari da affrontare rimangono quelli della forma parlamentare di governo e della possibilità di espressione istituzionale per le più importanti sensibilità politiche presenti nella cultura e nella società.
Possibilità di espressione da porsi naturalmente in relazione anche ai grandi cambiamenti avvenuti nel campo della tecnologia comunicativa e del relativo mutamento nelle forme di organizzazione politica: dal partito di quadri al partito di massa, al “pigliatutti” al “personale; dalla democrazia “del pubblico” fino a quella definita “recitativa” del cui modello è in atto un’ampia sperimentazione all’interno del sistema politico italiano.