di
Franco Astengo
Accantonata
ormai l’idea di “aprire il Parlamento come una scatola di tonno” il M5S si
acconcia all’idea della governabilità così come concepita dal suo nuovo partner
di governo, il PD, nato - a suo tempo - sulla base dell’idea della “vocazione
maggioritaria”. Si annunciano così, almeno stando a notizie giornalistiche,
ipotesi di modifica della Costituzione che accompagnerebbero la riduzione del
numero dei parlamentari, provvedimento il cui iter legislativo non è stato
ancora completato e che per il M5S ha assunto nel tempo una funzione di vera e
propria “bandiera” almeno sul piano della visione istituzionale. Applicando per
la prima volta il secondo comma dell’articolo 15 della legge 152 del 1970
(quella istitutiva del referendum) l’obiettivo del nuovo governo sarebbe quello
di arrivare a un “referendum day” su due quesiti: quello - appunto - relativo
al numero dei parlamentari e quello riguardante un pacchetto di riforme
costituzionali tese ad accompagnare il primo quesito con una serie di
provvedimenti tesi a garantire, se non a “blindare”, proprio la continuità
governativa.
Accanto
a tutto ciò sarebbe prevista una nuova legge elettorale a formula proporzionale
con una soglia di sbarramento al 4%.
Nel
merito dei 5 punti di modifica costituzionale previsti è evidente che
occorrerà, dato e non concesso che le anticipazioni giornalistiche risultino
veritiere, una riflessione di grande profondità con un impegno da parte dei
costituzionalisti a definire un quadro teorico di riferimento in base al quale
tracciare una possibilità d’intervento complessivo: com’è stato del resto
nell’analoga occasione delle riforme del 2016.
Sarà
indispensabile allora riprendere la trama tessuta dal Comitato per la
Democrazia Costituzionale che, nel richiamato frangente del 2016, ebbe un ruolo
assolutamente determinante. Al momento sembrano previste l’adozione della
sfiducia costruttiva, la riduzione del numero dei delegati regionali
nell’elezione del Presidente della Repubblica, la partecipazione dei Presidenti
di Regione ai lavori del Senato allorquando si discuteranno leggi d’interesse
regionale, l’unificazione delle età utili per aver diritto all’elettorato
attivo e a quello passivo (18 anni per votare, 25 per essere eletti),
l’espressione del voto di fiducia al Governo in seduta congiunta di Camera e
Senato,
Mi
soffermo soltanto su quest’ultimo punto perché mi pare che su di esso possano
immediatamente sollevarsi questioni proprie di ordine costituzionale. Le due
Assemblee, infatti, sono elette su base diversa dal punto di vista del riferimento
geografico: ritorna, infatti, la questione della “base regionale” per
l’elezione del Senato.
“Base
regionale” il cui riferimento è stato recentemente violato in maniera clamorosa
con l’assegnazione di un seggio siciliano a un eletto umbro: una decisione
sicuramente anticostituzionale che ha aperto un vero e proprio “vulnus” che
andrebbe superato e colmato ripristinando la legalità costituzionale.
Nel
caso della fiducia espressa in seduta comune, considerato il diverso numero dei
componenti le assemblee, si potrebbe infatti verificare un annullamento della
possibilità di formazione di maggioranze difformi tra le due Camere che nella
votazione separata oggi prevista dalla Costituzione possono di conseguenza
esprimersi diversamente tra di loro sulla fiducia.
Maggioranze
difformi che, nel caso, risulterebbero però espressione della volontà di elettrici
ed elettori nel rispetto dell’articolo 57 della Costituzione.
Ci
troviamo dunque di fronte ad un ennesimo tentativo di riforma della
Costituzione tendente a eliminare presunti ostacoli alla “governabilità”
cercando di modificare la funzione costituzionale del Parlamento.
Parlamento
che rimane formato da due Camere in forma paritaria come confermato proprio dal
già citato referendum del dicembre 2016 all’esito del quale dalla parte del
“NO” fornirono sicuramente un importante contributo anche le elettrici e gli
elettori del M5S.
Una
riforma attraverso la quale secondo accreditate voci giornalistiche si
punterebbe a formare un nuovo “arco costituzionale” in condizioni però di
sostanziale limitazione nelle possibilità di espressione della democrazia
repubblicana. Quanto alla legge elettorale un cui progetto di modifica dovrebbe
accompagnare questo disegno di tipo costituzionale che fin qui è stato
descritto, tutti convengono sulla necessità di misurarsi con la doppia
questione della rappresentanza: quella politica e quella territoriale.
Per
affrontare questo tema non basta però pensare soltanto a una formula legata al
sistema proporzionale: risulterà fondamentale anche il disegno dei collegi
attraverso il quale si dovrà garantire il massimo possibile di estensione nella
rappresentanza territoriale.
Quanto
allo sbarramento al 4%, previsto dal progetto inserito nel patto PD- M5S, si
segnala soltanto, in attesa di entrare meglio nel merito, che con le elezioni
del 4 marzo 2018 una sua applicazione avrebbe lasciato fuori dal Parlamento circa
2.800.000 espressioni di voti validi.
In
realtà i nodi veri che sono necessari da affrontare rimangono quelli della
forma parlamentare di governo e della possibilità di espressione istituzionale
per le più importanti sensibilità politiche presenti nella cultura e nella
società.
Possibilità
di espressione da porsi naturalmente in relazione anche ai grandi cambiamenti
avvenuti nel campo della tecnologia comunicativa e del relativo mutamento nelle
forme di organizzazione politica: dal partito di quadri al partito di massa, al
“pigliatutti” al “personale; dalla democrazia “del pubblico” fino a quella
definita “recitativa” del cui modello è in atto un’ampia sperimentazione
all’interno del sistema politico italiano.