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lunedì 21 ottobre 2019

L’ERGASTOLO E I DIRITTI DELLO STATO  
Guido Salvini*
 
La strage di via D'Amelio

Nei commenti e nelle reazioni alla sentenza della Corte di Strasburgo che ha rigettato il ricorso dell’Italia sull’ergastolo ostativo, quello che non consente di accedere ai benefici, a molti sembra essere sfuggito il centro del problema. E il centro è il valore simbolico che un detenuto per reati di criminalità organizzata dà sempre alla sua carcerazione.
Prima di tutto la sentenza, e su questo sostanzialmente sono d’accordo, censura l’istituto dell’ergastolo ostativo ma ciò non vuol dire che a breve tutti i boss detenuti da molti anni torneranno in libertà. Il Magistrato di sorveglianza potrà comunque continuare a valutare caso per caso se essi siano ancora pericolosi soprattutto se essi, nonostante la detenzione, siano rimasti sempre all’interno di quel mondo.
A parte questo rilievo, per cogliere il centro del problema bisogna ricordare che tra reati come quelli di mafia e reati del singolo c’è una abissale differenza. Anche chi ha commesso i delitti più efferati, per passione, invidia o anche a scopo di lucro, se è un singolo spesso può essere recuperato in pochi anni, cessa di essere pericoloso e comunque ben difficilmente diventa un esempio per altri. Ma nel caso del crimine organizzato, il crimine cioè che rivolge la sua “proposta” sociale e il suo stile di vita ad altri, il comportamento dei capi in carcere assume un valore strategico decisivo. Infatti se non assume un atteggiamento di critica verso il proprio passato rimane un modello da imitare. I capi condannati all’ergastolo possono durante gli anni della carcerazione aver avuto anche un buon comportamento, essersi dedicati in carcere al teatro o alla pittura o anche essersi laureati. Ma tutto ciò conta poco. Rimangono capi rispettati ai quali si deve sempre obbedienza.
Forse non è una condizione necessaria esigere la collaborazione processuale che, se non vi è stata all’inizio può essere anche divenuta impossibile o poco utile, dopo 20 o 30 anni, al momento della richiesta dei benefici. Ma qualcosa lo Stato ha il diritto di esigere. Quantomeno che il detenuto rigetti in modo convincente le scelte passate, dica pubblicamente “non fate come me” “, non seguite la mia strada”. Serve almeno una resa, pubblica e inequivocabile.
Non si tratta in questo caso tanto degli effetti di una “rieducazione”, che non si sa bene cosa voglia dire, ma si tratta semplicemente di una scelta di detenuti che sin dall’ingresso in carcere sanno quello di cui si parla: perpetuare e far perpetuare agli altri le loro scelte criminali oppure respingerle di fronte a tutti.
Se ciò non accade, ed accade ben raramente, il boss in carcere continua a essere un esempio per le nuove leve ed è proprio l’aver subito senza ripensamenti una lunga detenzione carceraria a farne un modello “positivo” per il suo ambiente.
Del resto è proprio grazie a questo atteggiamento che parenti e adepti rimasti fuori possono continuare a usufruire di quello che viene chiamato il “capitale sociale” del boss che controllava un quartiere o un settore dell’economia lecita o illecita, proseguire con questo “avviamento “sulla stessa strada.
Ricordo personalmente, in ambito milanese, alcuni casi di capi storici che sono rimasti in carcere trent’anni, detenuti anche modello ma che non hanno mai avuto parole di critica per le loro scelte di vita passate , dal carcere hanno continuato a mantenere  contatti solo con lo stesso ambiente in cui avevano vissuto ed ora rimessi in libertà, anche se non più dediti a commettere reati anche per ragioni di età anagrafica, rimangono l’esempio vivente da rispettare e da emulare. E, non è un caso, l’organizzazione che avevano diretto ha continuato negli anni ad operare, a riprodursi, a controllare quel territorio e ne fanno parte spesso gli “eredi”, figli e nipoti.
Bisogna almeno pretendere la rottura convinta di un giuramento criminale. Da questo discrimine, che non è eccesso di punizione ma presa d’atto di una realtà, non si può arretrare.

*Magistrato