di
Graziano Mantiloni
Graziano Mantiloni |
Una
riflessione su L’incendio di Roccabruna
Sono
qui a riflettere terminata la lettura del libro L’incendio di Roccabruna.
E quando un libro ti fa “fermare”, ti fa raccogliere il pensiero, ti induce a tornare
indietro sulle parole lette, credo che sia stato raggiunto un ottimo risultato:
sia per chi lo ha scritto, ma anche per chi lo legge.
L’incendio
di Roccabruna
è la raccolta di quindici racconti dove il protagonista principale è il mondo
della Calabria, la terra degli Enotri, luogo di nascita e sviluppo di antiche
civiltà, consolidate tradizioni, luogo di scontri e di incontri, di asprezze e
dolcezze insieme. E la Calabria, proprio per questo, non credo sia facile da raccontare.
Come non è facile raccontare un cuore che pulsa, un sangue che scorre, valvole
che si aprono e che si chiudono secondo un arcano mistero. Un groviglio di
immagini, sensazioni, brividi, paure sedimentate, a volte incomprensibili per chi
non ha le “mani in pasta” come Angelo Gaccione.
E
questo è L’incendio di Roccabruna, o meglio un libro la cui risultante
di lettura attrae, coinvolge, sferza il pensiero con aspra ironia come nel
racconto “Il documento rubato”, respinge di terrore per un ineluttabile e amaro
destino come ne “L’innocente”. In ogni caso un fantasmagorico affresco
incastonato di abitudini, codici non scritti che raggiungono il culmine ne “La
faida”. Ecco, proprio in questo racconto credo che Angelo Gaccione riesca
meglio a concentrare in sé l’espressione più alta del raccontare storie,
disseminando iperboli, paure, drammi umani che pur caduti nel dimenticatoio
della storia “aleggiano” come fantasmi solo - dice - per chi è del luogo.
La
scrittura dove a tratti mi è parso echeggiare il conterraneo Strati de Il
selvaggio di Santa Venere, vive di contrasti appassionati, talvolta
brutali e spietati, e sin dalle prime battute del libro mi è suonato nell’animo
un insolito rintocco, un sapore amaro di sole, terra, sudore, un richiamo verso
antiche leggi non scritte, atmosfere metafisiche, grottesche, molto spesso
favolistiche e non per questo meno interessanti. Eppure, al di là delle singole
storie, sono convinto che Angelo Gaccione, abbia voluto rappresentare l’animo
umano, l’essenza di un popolo che gli è familiare, che gli scorre nelle vene, e
il suo sforzo di rappresentare la vita lo abbia portato anche all’eccesso di raccontare
la disperazione della morte come un limite stupefacente, un termine incomprensibile
di quel segmento che pur sempre appare “dopo” la nostra misera esistenza.