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domenica 3 novembre 2019

Il racconto
IL LAGGIÙ
di Rinaldo Caddeo


Rinaldo Caddeo

Non c’era un divieto esplicito, una legge.
Ciascuno aveva un modo diverso di farne cenno, con un gesto della mano o della testa, o con una frase di poche parole ovvero con pochissime, smozzicate circonlocuzioni (nel laggiù, là in fondo, alla fin fine, da lì in avanti, là sotto), da cui si poteva dedurre che indicava ciò che non poteva essere nominato. In fondo non c’era bisogno di parole, bastava il gesto. Per chi se ne intendeva bastava una certa espressione del viso.
Era una cosa piena di paura. Meglio tacere.
Era un luogo senza nome ma che si sapeva che esistesse. Non era nemmeno indicato nelle carte stradali.
Quando non se ne poteva fare a meno o quando uno meno se l’aspettava, se ne facevano delle allusioni. Ma nessuno ne parlava volentieri davanti agli altri e se c’era qualcuno che insisteva veniva pregato di piantarla o in casi estremi, veniva zittito o allontanato.
Circolavano tante voci, persistenti ma clandestine, che si smentivano l’una con l’altra, sull’origine di quel luogo: una mastodontica e modernissima centrale a fusione nucleare, che avrebbe garantito energia sovrabbondante per tutti; un gigantesco inceneritore che avrebbe mandato in fumo tutti i rifiuti di tutti i tipi; una colossale discarica che avrebbe raccolto la spazzatura di tutto il territorio, risolvendo ogni  problema di smaltimento, senza le seccature e le difficoltà della raccolta differenziata. Una delle versioni più accreditate era quella che nel laggiù fosse stato costruito e reso operativo un laboratorio di fisica avanzatissimo, un super-acceleratore di particelle situato in un tunnel di 172 chilometri di diametro, scavato nella roccia, dove si producevano le collisioni tra le particelle elementari e dove gli scienziati avrebbero individuato la particella Ghenesis, quella del big-bang all’origine dell’Universo. In tutti i casi la conclusione era la stessa: una colossale esplosione che aveva spalancato un buco abissale.

Karima era una giovane straniera appassionata di astronomia e filosofia. Si era ambientata bene, lavorando e imparando con rapidità la lingua del posto.
Aveva capito che quel luogo, il laggiù, era situato nella zona semi-desertica a nord della città dove viveva, che non era impossibile da raggiungere e che molti, di nascosto, ci erano andati o dicevano (in segreto) di esserci stati. Anzi, che prima o poi uno ci provava, almeno una volta nella vita, ad andarci e a volte non ritornava indietro. Le persone sparivano così, da un giorno all’altro. E chi ritornava non ricordava niente o diceva di non ricordare o diceva che non si vedeva un fondo e che se ci gettavi un sasso, piccolo o grande, non sentivi il rumore di un sasso che arriva in fondo nemmeno dopo mezz’ora e c’era chi aveva aspettato settimane, mesi, anni, senza muoversi di lì e aveva provato e riprovato inutilmente.
Da laggiù non arrivava un eco o un segnale.
E non mancavano mai persone, dicevano, che guardavano dentro o che si distraevano chiacchierando, mangiando o dormendo lì intorno o stavano lì zitti, immersi nei loro pensieri.
E non mancava anche qualcuno, ogni tanto, che ci si buttava dentro urlando o in silenzio. Qualcuno si è calato legato a una corda, qualcun altro si è gettato con il paracadute e anche di lui non si è saputo più niente.

Karima ne parlava con Bagos. Cercando di dare un nome a quel luogo senza nome, evitava, almeno con lui, le circonlocuzioni avverbiali degli altri e lo chiamava con dei sostantivi scientifici: il magnete, la simmetria, la singolarità, il vuoto quantico, l’orizzonte degli eventi.
Un giorno Karima chiese a Bagos, suo compagno di lavoro al ristorante, una persona di cui si fidava ciecamente, di accompagnarla .
Bagos aveva cercato di distogliere Karima, ma vedendo che era decisa, preferì essere lui ad accompagnarla, piuttosto che un’altra persona, poco consapevole, inesperta o malintenzionata o piuttosto che magari ci andasse da sola, senza dir niente a nessuno.
Ci andarono un martedì, quando il ristorante era chiuso per turno.
Bisognava attraversare in macchina il deserto per due ore. Poi comparivano i cartelli di divieto, ma dando una buona mancia, i guardiani del confine lecito, chiudevano un occhio.
Poi c’era un pezzo di mezz’ora circa, da fare a piedi, per un sentiero scosceso e tortuoso, sempre più ripido, tra rocce, belve infrattate e cespugli. Un tragitto incerto e pericoloso in cui molti cadevano, venivano sbranati o si facevano male o si perdevano.
Quindi si raggiungeva l’orlo da cui saliva la nebbia.
Per fortuna, oltre a conoscere le insidie della strada, Bagos, che evidentemente c’era già stato da solo (anche se non lo ammetteva), ora, accompagnato da Karima, lui davanti lei dietro, in cordata, aveva portato l’equipaggiamento adeguato: un fucile automatico (che teneva lui), un coltello da caccia (che aveva consegnato a lei), scarponi da montagna, corde, ramponi e giacche-a-vento perché , sia d’inverno sia d’estate, faceva sempre freddo.
Si arrivava alla fine che c’era un occhio enorme aperto sul vuoto, come l’apertura di un enorme pozzo. L’orlo di pietra era coperto di muschio verdenero. Rocce, spuntoni, pinnacoli, cespugli spinosi, ne impedivano, in parte, la visuale.
E quello che c’era aldilà sembrava un oceano svuotato con dei fantasmi che scendevano o che salivano dalle strette scale di una cripta.

Un vento di risucchio scendeva nel buco. È un vento a spirale che porta con sé polvere, frantumi, a volte strappa via copricapo, capelli, foulard, occhiali, guanti, fogli di carta, un vento che stordisce. Quando raggiuge l’orlo crea una vaporosità spumeggiante che sale dalla superficie come di una pentola che ribolle colossale. Frammenti di roccia, terriccio e rametti ruotano con il resto. C’è un rombo caotico, come quello di una frana o di una cascata, in cui si sentono voci, risate, grida di aiuto, fischi, ruggiti, ululati, miagolii ma ci sono anche lunghi periodi di calma.
Qualche volta ci sono folate dal basso che aprono dei varchi in cui guardare.
Tutti guardano giù, cercano di vedere. E c’è chi dice di aver visto un prato, e chi una foresta, e chi un villaggio, e chi un grattacielo o un oceano o un castello o un gigante di pietra o una gradinata di marmo o un arcobaleno… tutte cose lontanissime.
All’improvviso il vento cessa e c’è un grande silenzio.

Quando raggiunsero l’orlo, Karima aveva chiesto a Bagos di slegarla e Bagos aveva acconsentito subito ma controvoglia. Si sedettero su di un masso, a un metro l’uno dall’altra, e rimasero seduti per un tempo che nessuno dei due è in grado di ricordare quanto fosse.
C’è grande silenzio. Nessuno osa parlare. Bagos vede Karima sempre più presa. Immersa nella contemplazione, si sporge pericolosamente.
Finché non la agguanta, con tutte e due le mani, per un braccio e la tira indietro.
Lei oppone resistenza, s’inclina dalla parte opposta. Poi si libera della presa. Sembra che stia per cadere e rotolare lungo il precipizio. Oscilla, fa un passo doppio e riprende l’equilibrio, si volta e lo guarda: «andiamo via, basta così, sappi, però, che non avevo nessuna intenzione di buttarmi».

Tornarono a casa a testa bassa, senza dire una parola. Da allora anche loro non ne parlavano più volentieri e cominciarono a usare le circonlocuzioni linguistiche degli altri.