di
Massimo Pamio
Rolando D'Alonzo |
La
misura del cielo il romanzo di Rolando D’Alonzo
Non
per tutti l’esistenza è un’esperienza semplice o gradevole. La paura di
affrontare la vita, alcuni l’avvertono così prepotentemente che cercano di
liberarsi da quell’assillo, tanto da affidarne il pungolo ad altri, della cui
vita divengono partecipi spettatori, estranei alla propria di cui evitano
l’impatto per non ridursi come ectoplasmi gravati da un incubo che si ripete nelle
forme di una quotidiana vessazione, di una perniciosa condanna. Analoga
situazione è quella che coinvolge lo scrittore, il quale, per ottemperare alla
sua vocazione, deve necessariamente dar vita a un fantoccio, a un personaggio e
sostenerne le vicende, e renderlo credibile, coerente con se stesso, impedirgli
passi falsi e contraddizioni, vestirlo ogni giorno e nutrirlo, premuroso nei
confronti del suo personaggio così fragile e inconsistente a cui affida la
propria capacità di immaginare, istigandolo a compiersi, a essere, a ingrassare
a colpi di finzione, in un tortuoso e angosciante percorso.
Tra
l’inetto, che delega un altro individuo alla vita, e lo scrittore che dà vita a
un fantasma, la distanza è breve, lo stesso filo li regge entrambi, forse è
questo il motivo per cui in alcuni romanzi i protagonisti si scoprono disadattati,
disagiati, solitari, esclusi, emarginati, eccentrici, misantropi, asociali,
mentre in altri appaiono abbigliati sotto le mentite spoglie di una figura
eroica pronta ad affrontare la vita, per sfida o per rivolta, con sprezzo, con coraggio
e audacia, indici di una visione “romantica” della giovinezza, ritenuta l’età
dell’avventura e della scoperta, dell’energia, della forza.
Questi
casi umani e romanzeschi implicano entrambi una lettura verosimile dei fatti, pur
sempre approssimativa, o convenzionale. Nulla autorizza a escludere che la
realtà possa al contrario costituire una lunga ininterrotta serie di
mistificazioni, in base alla quale lo scrittore, obbligato a continuare la
trama degli inganni, la esporrebbe nel genere più adeguato, quello teatrale
della commedia o della farsa o della tragedia. Se invece si dovesse approvare l’affermazione
husserliana secondo cui l’eccellenza dell’espressione e dell’esteriorizzazione
si realizza a pieno non nel dialogo, bensì in un monologo assoluto in cui la
coscienza non si allontana in alcun modo da se stessa, le forme di scrittura
più credibili sarebbero i monologhi, i diari, le autobiografie, e la
letteratura si mostrerebbe per quel che è: l’incapacità di accettare la vita
così com’è, il tentativo di deformarla, di riformarla, di migliorarla, di
completarla, di aumentarla, di annullarla, di trascenderla, annullandone la
potenza in un segno, simbolicamente.
L’inetto
non vive, lo scrittore riconduce la vita alla sua verità intrinseca, la finzione,
e la costringe a misurarsi su un piano diverso, a porsi di fronte a uno
specchio deformante in cui l’alterità che la costituisce, il suo senso, quello
che proditoriamente si nega all’uomo e gli sfugge, per un attimo rifulge, nel
riflesso. In verità, è lo stesso scrittore a restare incantato del doppio
sguardo della vita, che rende possibile perfino la sua finzione, e anzi in lui la
sollecita a rivelarsi (a svelarsi e a velarsi doppiamente).
La
doppiezza della vita è nelle mani dell’inetto e dello scrittore, che ne trattengono
l’ambiguità, osservabile per mezzo di una sorta di specchio o di una lente che
ne cristallizza il sortilegio di coscienza universale sminuzzata in molteplici
sfaccettature, forse componenti di un unico messaggio.
Rolando
D’Alonzo è accecato dalla ricerca del vero o meglio dell’ipocrisia che si
mimetizza nel gioco di rapporti che costituisce la comunità sociale del suo
tempo, la comunità che rinuncia al comunismo in nome dell’individualismo più
sfrenato, a cui ci si ribella sprofondando in un ritorno al caos, all’indistinto,
scegliendo la via di un anarchismo fortemente critico. Un atteggiamento che ha
contagiato pochi scrittori, casi isolati nella storia della letteratura del
Novecento, scrittori ai quali non sono spettati riconoscimenti o pagine nelle
antologie della storia letteraria, forse perché non è stato possibile
ricondurli a tendenze, a movimenti, a scuole, ovvero agli estensori di una
visione media orientata dall’ideologia dominante, corroborata dalla critica
ufficiale, sostenuta dall’imprenditoria editoriale; scrittori che sembrano non
appartenere alla storia letteraria del loro Paese.
La
loro unica religione è stata quella della letteratura e, in subordine, quella
della verità, religioni poco professate e imbarazzanti, elitarie e non
necessarie, scomode e portatrici solo di illusioni e di utopie anziché di
certezze e di speranze. Di altre religioni è piena la società, di religioni a
portata di mano, professabili da chiunque, accettabili, consolatorie,
rassicuranti.
Che
cosa hanno a che fare con la storia letteraria italiana i romanzi Giù la
piazza non c’è nessuno di Dolores Prato o Horcynus Orca di D’Arrigo?
Da dove sono spuntate queste recherches del tempo perduto e di lingue
perdute, senza alcun precedente, senza riferimenti se non quelli che lo stesso
scrittore detta all’interno del testo? Che
cosa sono i racconti di Cancroregina o de Le labrene di Landolfi
o de Il ricordo della Basca di Delfini? Quale linguaggio esplicano,
quale tema raffigurano? A quale società, a quale stagione o periodo sociale si
riferiscono? E come si permette Luciano Bianciardi nel capolavoro La vita
agra di criticare un sistema, svelandone tutti i meccanismi, con un’analisi
degna di un anatomopatologo che nel 1962 trascrive un’opera profetica,
pienamente realizzata ai nostri giorni?
Sembrano
scrittori di un Altrove, di un reale che a noi non è dato conoscere ed
apprezzare, cittadini di uno Stato che non è mai esistito, e che da lontano può
sembrare il nostro, ma è solo un miraggio: la letteratura è essa stessa un
Altrove. Ed è accanto a queste voci isolate di scrittori, che testimoniano
l’appartenenza a un mondo migliore di quello che gli uomini riescono a
elaborare e a generare, voci di abitanti di un paradiso artificiale in cui si
può fare a meno delle droghe per avere allucinazioni e iperolfattismi, e
intattilità, ed è accanto a questi miniaturisti dell’Altrove che si pone, nel
romanzo La misura del cielo, Rolando D’Alonzo, autore di un lungo
meditato monologo in cui il protagonista narra la sua storia di giovane
emigrato che, abbandonato un paese del Meridione per cercare fortuna e lavoro
all’estero, torna in paese, povero come prima, libero e consapevole dell’incurabile
male oscuro degli uomini, per citare Berto e il suo capolavoro, che con D’Alonzo
condivide la tecnica di una scrittura interiore, consistente in un vero e
proprio flusso di coscienza (stream of consciousness) dinamico e propulsivo.
Personaggio
da romanzo, prima che scrittore, mestiere riflettente la propria sorte, Rolando
D’Alonzo è un’icona letteraria, un punto di riferimento per gli scrittori
abruzzesi e per il confronto delle idee libere e non asservite ai giochi di potere.
Con La misura del cielo D’Alonzo ha scritto il capolavoro che
tutti attendevamo, che pretendevamo da lui - l’Infingardo, che teneva nascosto
questo libro lasciato macerare negli anni in un cassetto, a dispetto e
all’insaputa di noi che ascoltavamo attenti i suoi discorsi, adusi alle sue improvvise
e teatrali menate, sovente travolti dalle sue polemiche, affascinati da acute
osservazioni, divertiti dalle sue convinzioni poco coerenti sempre superate dalla
successiva, soggiogati dalla sua cultura e dalla sua libertà, da un prorompente vitalismo che lo costringevano e lo costringono a un nomadismo non
solo del pensiero, delle opinioni, delle idee, ma soprattutto dell’animo: noi lo
eleggevamo voce dei nostri silenzi, dei nostri consensi e dissensi, e
soprattutto lo avvertivamo un po’ come l’eroe che parlava in nostro nome, per
nostro conto, contro tutte le forme di potere, di organizzazione umana, contro tutte
le ipocrisie, le violenze, la cattiveria, contro l’avidità ben nascoste nei
volti dei nostri simili e nelle fondamenta delle loro istituzioni.
Ebbene,
in questi casi la letteratura può diventare il luogo libero del discorso, il
rifugio entro cui far fluire e rendere concreta tutta una vita spesa
all’insegna della libertà, dell’anarchia, della fede abbracciata poi respinta o
rimossa; delle sconfitte, delle cocenti delusioni, dell’emarginazione, che costituiscono
le dirette conseguenze di un mancato allineamento o di uno spettrale, lugubre asservimento, in cambio della rischiosa scelta
di aderire a un rigoroso rispetto della libertà interiore. Rolando è il
fratello maggiore che istiga alla libertà, alla ribellione, allo sperpero della
giovinezza, a diventare se stessi prima che a divenire elementi amorfi della
società civile, che infine sollecita
alla pratica costante e quotidiana dell’affabulazione polemica, vivendola sulla
propria pelle e nelle più esplosive contraddizioni, prima di ridurla a testo
letterario o a favola o leggenda. Chi spende la propria esistenza per viverla
fino in fondo rischia di non riuscire mai a tradurla in letteratura, ritenendola
una sorta di avvilente e pedagogica riduzione implicante necessariamente una
morale, una visione del mondo egocentrica, un indebitarsi con le regole e con i
compromessi sociali e civili; chi vive e pensa di vivere fino in fondo la sua
esperienza, forse, sta già facendo vera letteratura, con il suo corpo,
con la sua mente, con il suo modo di agire, e perciò non può specchiarsi in
quella, né può pronunciarla o evocarla per renderla in una forma leggibile,
giacché la vita non ha forma, ma può, se rispecchiata, sfoggiare solo lo stile
che noi siamo, e lo stile non può essere narrato, la consapevolezza ucciderebbe
Narciso.
Nonostante
tutto e in barba a queste premesse logiche, Rolando ce l’ha fatta. È riuscito a
scrivere il romanzo della sua esperienza esistenziale, trasformandola - non
sublimandola - nella storia di un alter ego, che assume su di sé la colpa di
aver scelto la strada quale maestra di vita e della propria libertà personale. Se
ne La vita agra (secondo quel che lo stesso autore afferma) “il
protagonista è il narratore coinvolto nel suo narrare proprio in quanto
narratore”, similmente ne La misura del cielo si stabilisce un
misurato equilibrio tra la finzione narrativa e il racconto autobiografico, in una
lunga confessione, in un colloquio con se stessi che costringe il lettore a
identificarsi con la coscienza del narratore, e dunque a interpretare le
vicende e a riflettere proprio come lui, fatta eccezione per quegli avvenimenti
e vicende in cui il protagonista assume comportamenti non sempre condivisibili.
Attilio
Saraceni, Ilio per gli amici, emigrato in Germania, stalliere in un ippodromo,
risiede ad Amburgo, in una sistemazione “assai confortevole”, dove ritiene di
“aver portato a buon fine” il suo pellegrinare, grazie a un paese che lo ha
accolto “a braccia aperte, senza riserve”. La sua figura non è descritta
fisicamente, ma per richiami colti e icastici: “Il mio, il profilo incerto di
un Pizarro, il quale, molto prima che suoni la mezzanotte, abbandona lo
sgabello e il posto sfortunato di una interminabile partita a carte, si alza
deciso, esce dalla tela e si lascia condurre dallo slancio dei muscoli verso
altri luoghi”. Si tratta di una descrizione originale che, tramite la citazione
colta, nella suggestione dell’immagine pittorica grazie a cui viene suscitata
la descrizione fisica del personaggio, sceglie una soluzione volta a accendere
la curiosità e la fantasia e a offrire spazio all’elaborazione di un disegno
interiore da parte del lettore, al fine di inquadrare e sottolineare la
condizione psicologica del protagonista, piuttosto che a produrre elementi utili
a individuare le caratteristiche fisiche e fisiognomiche di Ilio.
Nel
prosieguo della storia, scopriremo che Ilio conduce una vita al limite della
moralità e della legalità, inseguito da creditori mafiosi, che lo costringono a
nascondersi. Miria, la donna da lui sempre amata ma andata in sposa poi a un
altro, improvvisamente si ripresenta da Ilio, svelandogli di essersi separata
dal marito. La storia d’amore finalmente si compie tra di loro, senonché la
donna si ammala gravemente. Ilio, sempre più disperato e solo, vaga alla
ricerca di denaro per provvedere alle cure della donna.
Per
adempiere a un compito affidatogli da Miria, Ilio tornerà in Italia, dove ancora
perdura una situazione identica a quella che lo aveva spinto a emigrare.
In
una narrazione nervosa, frutto della coscienza agitata e del pensiero ansioso e
sempre vigile del protagonista, si sciolgono la sua insopprimibile sete di
avventura, il suo senso di libertà, i nodi della condizione dell’emigrato e
dell’eterno esiliato, del pellegrino in terra. La carica vitale di Ilio non si
esaurisce mai, rendendolo però vittima di una tensione che giunge fino allo
spasimo, e che si quieta solo in pochi momenti.
Il
vero protagonista de La misura del cielo è comunque il viaggio, il percorso
che il protagonista compie per nascondere un’alterità forte e per renderla
docile al racconto che si svolge davanti ai nostri occhi ad illuminare una metafora
della vita: quel che conta e che guida i passi del protagonista, è un
riferimento spaziale, la Distanza, ovvero la misura del cielo, il riferimento
astrale per eccellenza, ciò che ci rende cosmicamente umani e che solo gli
anarchici, i folli, i poeti, i mistici, gli iniziati, i maghi, i nomadi, i
circensi e pochi altri determinano giorno per giorno, nel cuore, nell’animo,
nei gesti che sono sempre riferiti a quella misura aurea.
L’autore
predica il fallimento di una società essenzialmente ferma, incapace di
muoversi, patriarcale anche nella modernità, dove il patriarcato diventa il
potere politico ed economico, e la società si concentra sul commercio, sul
mercato, sul profitto, sul denaro. Occorre un paradigma culturale diverso, che
superi l’antropocentrismo e recuperi il nomadismo e ponga al centro tutti i
fenomeni vitali e ambientali: in tal senso il romanzo di D’Alonzo appare come
uno dei primi romanzi italiani a preconizzare l’avvento di un nuovo pensiero
interessato a rinnovare il rapporto dell’uomo con il mondo e a decretare la fine
della civiltà occidentale. Soltanto una cultura ecocentrica e antispecista
potrà salvare l’uomo dalla sua estinzione.
Nell’opera
ci sono pagine di inenarrabile bellezza e suggestione, pagine degne di
antologia, in cui Ilio si abbandona a riflessioni critiche nei confronti del
consesso umano e civile. Cito la pagina in cui viene nominato per la prima
volta il titolo del romanzo:
“Attraversai
le strade del centro, stregato dall’idea della fuga, della liberazione, della
morte solitaria. La vecchia signora con la veletta mi avrebbe condotto per mano
in quel pezzettino di terra dove l’unica misura del cielo è il rettangolo della
finestra da cui hai osservato il mondo la prima volta. Come seguendo una rotta
ortodromica mi sarei ritrovato là dove avevo mosso i primi passi e sognare di
diventare un uomo libero, un uomo che non teme le avversità, il dolore, il
tradimento degli affetti, uno che ha bisogno solo della coscienza pulita e
della voglia di viaggiare. Sarei stato un conoscitore dei crocicchi della vita
meglio di qualunque altro mio compagno, più di qualunque individuo stanziale e
soddisfatto. Ecco, un marinaio senza desiderio di tesori, un rom amico di tutti
i rom perseguitati, un migrante come i migranti imbrogliati, sedotti dalla
propaganda infine sfruttati fino a morirne, Ecco, tornare a essere un pugno di
memorie che si apre al vento, un’orma di cammino persa nelle sabbie di tutte le
anse delle mie stagioni infelici. Cambiare gli occhi, cambiare le orecchie e,
con un nome qualsiasi, andare incontro al sogno della vita sul vetro del
finestrino di un treno in partenza dalla Stettiner Bahnohf… o a un altro sogno
che saluta, convalescente fantasma di me stesso, adolescente temerario e avventuroso,
dalle vetrate del ponte di terza classe di un piroscafo che lascia gli ormeggi
a Bremerhaven, affrancato da tutti gli affanni, da tutti i debiti, da tutte le
usure delle usure…” (pagg. 68-69)
E
più avanti:
“Tutte
le città, tutti i palazzi, tutte le fortezze, i negozi, i teatri, gli idoli e
gli arsenali sono costituiti sull’inganno: valgono meno di un pugno di
calcinacci di fronte all’unica città dell’uomo, edificata nel vento del
deserto, sulle acque del Tigri, dell’Eufrate, del Giordano, sulla roccia
impalpabile dello spirito. La città umana è fatta per i templi, i templi sono
fatti per il dominio, per la paura, per la compravendita. Soltanto i mercanti
possono sentirsi a loro agio dentro una città e questa città dovrà essere
sempre più vasta, più popolosa, più potente. Gli uomini non possono morire in
pace dentro una città, perché la loro vita lì dentro è stata comprata e lì
dentro è stata venduta. E anche la loro morte è stata comprata, è stata
venduta. In città questo si può fare, tutto si può fare nella città mercantile:
vendere l’inferno, vendere il paradiso, vendere la terra, vendere il cielo e le
stelle e perfino vendere niente. Questo è lo spirito dei tempi”. (pag.
96)
Si
leggono pagine indimenticabili sul paese di nascita, avvertito come una
persona, che sente come un essere vivente, oppure sul “sistema Italia”, su una
società italiana basata sullo scambio di favori, clientelare e familistica.
Il
ritorno alle origini non è quello vittoriniano, Ilio fugge di nuovo, ma il suo
destino è quello di un eterno viaggiatore in pena, per il quale “non ha più
senso capire” e quel che conta sta nei “riflessi della luce sulle imposte,
certi messaggi criptici sui muri degli androni”. (pag. 9)
Bisogna
recuperare la vita e il rapporto con la natura se si vuole continuare a
raccontare la storia dell’uomo.
La copertina del libro |
Rolando
D’Alonzo
La
misura del cielo,
De
Felice Edizioni, 2019,
Pagg.
341, € 20,00.
Per richieste
Di Felice Edizioni via Pescara 23
64014 Martinsicuro (Teramo)