Spazio
Libero
PER LA RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA ITALIANA:
LINEE DI SUCCESSIONE
di
Franco Astengo e Felice Besostri
Da
molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo di vera e
propria ricostruzione. Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a
nostro avviso ben individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali
della possibile ripartenza: l’inutilità del mero assemblaggio delle residue
forze esistenti e della stanca riproposizione di liste elettorali sempre
diverse, ma immancabilmente votate al fallimento; la necessità di richiamarsi
ad un patrimonio storico e culturale valido sia sul piano della teoria, sia su
quello della dinamica politica, superando in avanti antiche divisioni. Di qui
l’impegno ad evitare d’ora in avanti ogni ridicola diatriba sul “aveva ragione
questo” o “aveva torto quello”, come ogni pretestuosa richiesta di scuse
davanti alla storia (anzi alla Storia) ecc., ecc.;
è
ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli passati (Bad
Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra loro del tutto diversi)
l’elaborazione di un progetto originale che riparta delle contraddizioni e “fratture”
fondamentali, incrociandole però con le nuove contraddizioni imposte dal
presente. Se da una parte infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione
principale” fra capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il
discorso dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la
questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di produzione, o una
strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente attorno alle questioni di
genere. Occorre invece tornare a pensare insieme i due piani: materiale e
immateriale, struttura e sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi
definite “post- materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di
trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta
interpretare il mondo, occorre cambiarlo”.
Strettamente
connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra economia e politica,
finanza e modello sociale, tecnica e vita civile, è anche lo sfrangiarsi
individualistico della società, ma soprattutto la crisi evidente della
democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la fine della Guerra Fredda lungi
dall’aprire ad un’epoca di “noia democratica”, ad un mondo pacificato
all’insegna del liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra
infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico” o
“democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni planetarie
potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione tra procedimento
elettorale e partecipazione dei cittadini, con l’esercizio del potere popolare
messo pericolosamente in discussione. Per questo la sua rifondazione è oggi più
che mai una priorità per una nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle
sfide del tempo nuovo; della crisi di sistema appena richiamata sono indizio
anche alcune pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle
nazionalistiche, a quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il
razzismo e il fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato
nel contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi decenni.
La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi livelli di confronto
tra le grandi potenze e di profonda modificazione del processo di
globalizzazione, così come si era presentato alla fine del XX secolo e,
successivamente, nella fase della “grande crisi” del 2007. Sotto quest’aspetto
il grande tema rimane quello di un rilancio concreto dell’internazionalismo e
della prefigurazione di un modello economico e sociale alternativo a quello
neoliberista;
in
questo quadro un “dialogo Gramsci-Matteotti”, che parta dalla loro analisi
dell’avvento del fascismo dopo la fine della Grande Guerra, può essere
propedeutico ad un rinnovato discorso culturale e politico di sinistra
all’indomani della fine della Guerra Fredda (e in presenza dei ricordati
fenomeni di crisi della democrazia e di fascismo di ritorno). Non ci interessa
costruire una sorta di Pantheon comune fra compagne e compagni che hanno
vissuto passate divisioni e che invece oggi sono unicamente impegnati ad
affrontarne sfide nuove ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca
in mare aperto su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai
grandi del pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.
Ritornare
a Gramsci e Matteotti dunque. E non solo in ragione del grande valore morale e
politico rappresentato dalla loro comunanza di martirio, ma soprattutto per
alcuni tratti comuni della loro analisi. Che ci paiono tanto proficue a tanta
distanza di tempo ed entro tutt’altra temperie politica e sociale.
Come
preziosa ci appare la coerenza e l’intransigenza, scevra di settarismo, che
sempre sottese la loro vita. Sicuramente qualcuno potrà trovare fra i due
autori testi o passaggi contradditori tra loro: condanne reciproche, interventi
svolti sull’onda del contingente, che in apparenza parrebbero smentire la
praticabilità di una ricerca attorno appunto a comuni “linee di successione”,
ma si tratterebbe di letture superficiali e strumentali. Non ci si rapporta
così ai classici. E Gramsci e Matteotti sono certamente dei classici della
nostra modernità politica. Di certo a noi non interessa indulgere in polemiche
di corto respiro. Molto più utile fissare alcune “linee” di lavoro:
intanto
l’impegno a sviluppare una adeguata “profondità di pensiero politico”. Potrebbe
essere utile in questo senso riscoprire la categoria di “pensiero lungo”, a
indicare uno sforzo di analisi e proposta che abbia respiro e profondità;
premessa indispensabile tanto alla ricerca delle origini classiche di una
teoria critica dell’esistente, quanto alla immaginazione e realizzazione di
scenari futuri all’insegna della qualità e della civiltà;
recuperare
poi la capacità di riflessione e intervento sul presente che fu innanzitutto
propria di Gramsci e Matteotti. Se il primo infatti è stato tanto
l’organizzatore degli operai di Torino, quanto l’acuto interprete dei termini
essenziali della “questione meridionale” (all’epoca coincidente in larga parte
con la “questione contadina”), Matteotti è stato il riferimento dei braccianti
di una delle zone più povere e d’intenso sfruttamento, quella del Delta del Po,
ma anche chi indagò e denunciò le trame spesso oscure che intrecciavano già
allora finanza e sfruttamento delle fonti energetiche;
ma
decisiva è anche la questione morale. In Gramsci essa costituiva una sorta di
stile di pensiero e di vita, strettamente connessa alla fatica del pensiero, al
rigore degli studi e delle analisi indispensabili all’azione politica di una
classe operaia che doveva essere classe dirigente nazionale. Ebbene era la
stessa serietà e intransigenza che animava Matteotti, quella che sempre ne
sostenne l’azione politica e parlamentare; si pensi solo alla capacità
d’inchiesta, alla fermezza con cui agitò proprio la “questione morale” in
faccia al fascismo rampante, quella stessa che costituì la vera ragione della
sua condanna a morte; ora fu proprio una radicale e coerente capacità di analisi
a consentire sia a Gramsci sia a Matteotti di antivedere le dinamiche sociali e
politiche che avrebbero portato al regime fascista. La cosa è tanto più
significativa perché le loro intuizioni si sviluppavano in un clima nel quale,
anche in ambiente antifascista, inizialmente ci si illuse che il movimento
mussoliniano potesse essere solo un fenomeno passeggero, una “parentesi”,
magari addirittura utile per riportare all’ordine liberale, dopo i drammi della
guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra. Del resto allora addirittura a
sinistra vi fu chi non riuscì a cogliere la pericolosità del fenomeno,
considerandolo mero elemento degenerativo del capitalismo, cui ovviare
attraverso il mero rilancio della dinamica della lotta di classe.
Ebbene
le analisi ben altrimenti approfondite di Gramsci e Matteotti, un certo stile
intellettuale e morale, tornarono utili non solo dopo il 1945 per la
ricostruzione dei grandi partiti della sinistra dell’Italia repubblicana, ma
mantengono un’intatta utilità ancora oggi, in un paese in cui la sinistra è
letteralmente scomparsa e ci troviamo di fronte a problemi immani ed inediti di
rifondazione e ricostruzione.
Per
questo ci sembra indispensabile avviare un processo di “confronto costituente”.
Gramsci e Matteotti possono contribuire a trovare la giusta direzione di
marcia. Resta per altro per noi chiaro che quella che ci attende non è una
operazione di mero valore scientifico, individuare infatti le linee “di
frattura” e “di successione” deve servire a meglio preparare il terreno per lo
sviluppo del più alto livello possibile di progettualità sistemica.
Se
ancora a cavallo tra il XIX il XX secolo definire cosa fosse il socialismo era
abbastanza semplice e la divisione era su come raggiungere l’obiettivo di una
società senza classi e con i mezzi di produzione in proprietà collettiva, oggi
non solo in quel che resta della sinistra ci sono profonde differenze
programmatiche, ma proprio il punto del socialismo è tutt’altro che condiviso.
Si tratta dell’ennesima riprova della profondità di una crisi che è politica,
teorica, morale, di classi dirigenti. Di qui l’esigenza, che avvertiamo
impellente, di un ripensamento dei fondamenti di una teoria e pratica politica
che possano dirsi di sinistra, socialiste, riformiste, radicali, intransigenti.
Partire
da Gramsci e Matteotti dunque come modo migliore per riprendere il cammino. Per
dare sostanza ad un progetto politico ambizioso: che mira a ridare a poveri e
sfruttati il loro partito e alla democrazia italiana una soggettività politica indispensabile.
Necessaria alla sua qualità, alla sua rappresentatività, alla sua stessa
sopravvivenza.