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lunedì 23 dicembre 2019

I TRE MAGI
di Donatella Bisutti

Donatella Bisutti

Un racconto su Natività ed Epifania che potrà suonare blasfemo in questi giorni, ma le empietà socio-economiche del nostro secolo e le catastrofi ambientali che abbiamo sotto gli occhi, danno a questo apologo tutto il senso della sua spietata verità.

Presepe con fori di granate


I tre Magi l’avevano saputo. La notizia era volata lontana, sotto un cielo ardente di stelle.
Ed erano partiti. A piedi, perché erano poveri.
Ma non potevano perdere quell’occasione.
Era nato il Bambino. Il futuro Re del Mondo.
Lo Scettro d’Oro, protetto da una teca di cristallo, aspettava di essere impugnato da lui dalla notte dei tempi, da quando i grandi dinosauri dai lunghi colli ondulanti che bilanciavano le tozze code avevano smesso di pascolare nelle radure delle foreste.
E ora il Bambino finalmente era nato. Il Futuro del Mondo era pronto. Bisognava solo arrivare in tempo.
I tre Magi non potevano mancare all’appuntamento.


I Magi camminavano, anche se erano incredibilmente stanchi per il lunghissimo viaggio che ciascuno di loro aveva compiuto.
Il primo di loro, il più vecchio, si chiamava Atsu e veniva dalle foreste dell’Africa. Aveva la pelle scura come il legno di un albero della foresta pluviale, l’ebano, nero con riflessi bluastri. Solo i palmi delle mani, i polpastrelli e le piante dei piedi erano d’un tenero rosa. Aveva occhi rotondi, grandi, la cui iride annegava nel bianco. Benché fosse il più anziano dei tre, era velocissimo nella corsa, e gareggiava con i ghepardi quando attraversava la savana e nuotava nei fiumi in mezzo ai coccodrilli senza paura perché sapeva frantumare loro le mascelle con la forza delle sue mani nude.
Portava con sé una zucca a forma di fiasco chiamata calabash, ripiena di un liquido anch’esso scuro che si chiamava petrolio e spargeva per l’aria uno strano, repulsivo odore, benché fosse considerato un liquido prezioso.
Il secondo dei Magi, che portava sandali di paglia intrecciata, aveva invece un viso giallastro e dello stesso colore anche la pelle del corpo e lucidi capelli nerissimi che crescevano diritti ed erano raccolti in una piccola coda. Portava una lunga veste di seta ricamata. Per arrivare fin lì, dove i tre si erano dati appuntamento comunicando attraverso le stelle per poi giungere insieme al cospetto del Bambino, aveva fatto un viaggio forse ancora più lungo: veniva da una regione dell’Asia percorsa da un lunghissimo fiume che anch’esso era di colore giallo. Giallo, colore della cattiva salute, delle malattie che scavano le guance e rendono flaccida la pelle. Ma il secondo dei Magi godeva ottima salute ed era uno spericolato acrobata, specialista nel triplo salto mortale all’indietro e capace di galoppare in piedi sulla groppa del suo cavallo. Si chiamava Hu e anch’egli portava qualcosa per il Bambino: una coppa di ceramica colore di giada ricolma di prezioso carbone. 
Il terzo dei Magi aveva la pelle lucida e rossastra, o meglio color del cuoio, zigomi sporgenti, occhi allungati e nessun segno di barba, e si chiamava Yanu.  Era abile nel tiro con l’arco e sapeva colpire una preda a più di cinquanta metri di distanza. Portava con sé per il Bambino un collare d’oro ravvolto in un tessuto a strisce geometriche dai colori vivaci. Il suo viaggio era stato il più lungo e il più pericoloso di tutti perché veniva da un continente al di là dell’oceano, che si chiamava America e aveva dovuto attraversare l’oceano in una canoa con la quale sapeva risalire e ridiscendere anche le onde più alte con incredibile abilità. Era seminudo e sulla sua pelle spiccavano disegni geometrici come quelli del tessuto, mentre fra i capelli aveva intrecciati i fiori bianchi di una foresta impenetrabile. 


“Eccoci, fratelli” disse il nero Atsu, che era arrivato per primo, abbracciando gli altri due. “Siete pronti? Il grande momento è giunto”.  Tutti e tre rimasero per qualche istante avvinti in un lungo abbraccio. Le loro fronti si toccarono. Poi si guardarono negli occhi. “È giunto” ripeterono tutti insieme. Atsu tese il suo braccio destro con la mano nera rivolta verso la terra.  Hu allungò il suo braccio e pose la sua mano gialla sopra quella di lui. Infine Yanu posò la sua mano color cuoio sopra le altre due per sigillare il loro patto comune.
E si avviarono verso il Palazzo dove era il Bambino.


Le guardie non volevano farli entrare, ma essi mostrarono i loro doni: petrolio, carbone e oro e allora li lasciarono passare.
Quale fu il loro sgomento quando videro il Bambino.
Giaceva in una culla intarsiata di oro e di perle avvolto in finissimi panni di lucida seta nella grande Sala delle Udienze del Palazzo, lungo le pareti della quale erano schierati soldati d’onore scelti per la loro alta statura, con alabarde e giganteschi berretti fregiati anch’essi d’oro. Quindici balie stavano  pronte accanto alla culla, scelte fra quelle il cui latte era stato testato il più puro e insieme il più nutriente. Quattro suonatori di viole e violini suonavano musiche celestiali appena il Bambino mostrava un segno di stanchezza, perché potesse addormentarsi serenamente. Se questo non fosse bastato si sarebbe alternato a loro un meraviglioso coro di voci bianche. Sonagli e palle colorate allietavano la culla solo che il Bambino volesse tendere la mano verso di loro. I genitori del Bambino erano stati fatti ritirare in un’apposita stanza dove venivano sorvegliati a vista perché ormai, con la procreazione, avevano esaurito il loro compito e non avrebbero mai dovuto avanzare alcuna pretesa che potesse in qualche modo mettere in ombra il futuro potere del Bambino.
Lo scettro stava racchiuso in una teca di cristallo ai piedi della culla in attesa del giorno in cui il Bambino avrebbe potuto impugnarlo.
Perché quel Bambino era destinato a divenire il Re del Mondo.
E per questo erano venuti così da lontano a visitarlo i tre Magi.


“È lui” si sussurrarono i Magi uno all’altro mentre si inchinavano entrando nell’immensità della Sala. Avanzando verso di lui lo poterono scorgere nei particolari. Quello che lo contraddistingueva a prima vista era il candore della pelle. Era indiscutibilmente bianca, candida. Di un candore assoluto, senza alcuna traccia di altri colori come il nero il giallo e il rosso. Le guance morbide e paffute sul quel bianco avevano ricevuto lo spruzzo di un tenero rosa, segno di ottima salute e frutto del buon latte con cui veniva nutrito a turno dalle quindici balie. I capelli morbidi e ricci erano anch’essi color dell’oro, in tutto diversi dai capelli neri lucidi e diritti dei tre Magi. E in mezzo a quel suo viso gentile e appena un po’ imbronciato, per la meraviglia al vedere i tre Magi si spalancarono due occhi di un magnifico azzurro, che niente avevano da spartire con gli occhi così scuri dei Magi. Com’era diverso da loro il Bambino! Lui era il Modello Perfetto. Era il Canone. Lui, e solo lui, doveva essere il Re del Mondo.


E mentre i Magi si inchinavano davanti alla culla del Bambino, in un attimo il Futuro fu proiettato come su uno schermo davanti ai loro occhi. Perché i tre Magi conoscevano il Futuro. Non per niente erano Magi, cioè Maghi. Essi vedevano con chiarezza ora, in quel preciso momento, quello che il Bambino avrebbe fatto quando fosse divenuto Re del Mondo. Videro le loro terre, Africa, Asia, America depredate delle loro ricchezze, videro cumuli di cadaveri massacrati, videro mitragliare uomini inermi, mettere schiavi in catene, stuprare donne, sventrare bambini con le baionette, videro portare via ricchezze immani, videro culture distrutte, villaggi incendiati, popolazioni innocenti e pacifiche sterminate, figli separati dai genitori, mariti dalle mogli, uomini costretti a lavorare venti ore al giorno retribuiti solo con poco cibo, corruzione, commercio di armi e di droga, videro la Natura devastata, le foreste distrutte, le pianure coperte da cemento, specie animali e vegetali scomparse, città disumane dove i poveri cercavano cibo nella spazzatura, tradizioni culturali antichissime cancellate, terre rigogliose trasformate in deserti, ghiacciai che si scioglievano, montagne che franavano, campi allagati dalle alluvioni, villaggi trascinati via dai cicloni. Tutto questo avrebbe fatto il Bambino quando fosse divenuto Re del Mondo. E per prima cosa avrebbe sottomesso e sfruttato coloro che non avevano come lui quella bella pelle bianca, ma l’avevano nera rossa o gialla. Perché era proprio il colore della pelle del Bambino a fare la differenza.
“Siamo pronti con i nostri doni?” chiese agli altri il primo dei Magi, Atsu. “Siamo pronti” rispose Hu. “Siamo pronti” rispose Yanu.
Non potevano aspettare più a lungo. Non potevano sbagliare.
E prima che i soldati della Guardia d’Onore, esterrefatti, potessero intervenire, Atsu rovesciò dalla sua fiasca il petrolio sul bianco viso del Bambino, che di colpo divenne nero, Hu gli cacciò in gola un pezzo di carbone e Yanu gli strinse intorno al collo il collare d’oro che lo soffocò.
Avevano liberato il mondo dal Bambino! Il mondo era salvo!
I soldati, riavutisi, si buttarono a dar la caccia ai Magi. Ma i Magi non c’erano più. Spariti, volatilizzati, ora che avevano salvato il mondo. Non per niente erano Maghi. E ora camminavano fra le stelle.

AUGURI



Con questo globo ben augurante di Giuseppe Denti “Odissea” fa gli auguri ai suoi lettori e alle sue lettrici. Ci prendiamo un meritato riposo dando appuntamento al 9 gennaio 2020.

L’INCENDIO DI ROCCABRUNA DI GACCIONE
di Giulia Contri*
Giulia Contri
al centro della Foto

Ossessione dei soprusi dei potenti, o desiderio di alleanza tra conviventi?

A me che faccio la psicoanalista un testo narrativo interessa per la modalità percettiva e stilistica insieme della realtà tipica del narratore.
Il testo di Gaccione mi ha interessato per aver proposto soprusi, misfatti, atrocità interni ad una società contadina chiusa, violenta, arcaica, e per averlo fatto con una modalità e uno stile al servizio di una ripetitività coatta dei conflitti tra individui e tra classi, cui gli uomini pare non riescano a sottrarsi.
Gaccione tali coatti conflitti li rigetta con una condanna silenziosa, che traspare dall’oggettività del suo narrare.
Ecco allora i ‘galantuomini’ feroci con i sottoposti, e poi i sottoposti feroci con i dominatori, senza soluzione di continuità.
Sono i titoli stessi dei racconti della raccolta a dirci di questa ferocia bilaterale di individui e di classi gli uni contro gli altri armati: “La faida”, “Il supplizio”, “I giustizieri”, “I due furfanti”, “I cannibali”, “Il veleno”: anche “L’innocente”, che assume come protagonista un individuo che non si muove con la logica della ferocia, si ritrova necessariamente vittima della stessa in quanto imperante nella società.
Lo stile e il procedimento narrativo comune un po’ a tutti i racconti è quello già caratterizzante il primo, “L’incendio di Roccabruna”: al sopruso intollerabile del potente nei confronti del debole si oppone la risposta reattiva della vendetta, altrettanto distruttiva, dei violentati.
Purtroppo la ribellione è l’unica risposta pensata dai sottoposti, individui di una classe debole a fronte di una classe potente, che poi però tra loro si schiacciano senza pietà.

C. Azzola - G. Contri
L. Cantelmo - F. Ravizza
alla Libreria Zivago
in occasione della presentazione
del libro di Gaccione

Con le vittime del potente resta sul terreno il rudere scheletrico del castello del violentatore incendiato dai violentati: a mostrare anche metaforicamente l’annichilimento totale dei contendenti.
Certo la storia mostra che nei secoli le rivolte dei deboli in risposta ai soprusi dei potenti non hanno mai spostato, almeno nel breve periodo, gli equilibri della società: dopo l’eccidio di Roccabruna del 1806, nel caso, ci dice Gaccione, in cui i roccabrunesi si alleano con i banditi fuorilegge che “incendiano”, “violano”, “squartano” chi ha, chi possiede, i borbonici approfittano della rivolta per ristabilire l’antico dominio.
E sono i “minchioni” che con i loro sconsiderati comportamenti “fanno camminare il mondo dei furbi”, afferma ancora il narratore (nel caso a seguito di una credenza fanciullesca mostrata dai roccabrunesi in una certa circostanza): a dire che le masse non vanno spesso storicamente al di là della reattività del momento, spalancando così le porte ai profittatori della loro debolezza.
È stato detto nella Postfazione da Giuseppe Bonura che Gaccione ha l’ossessione del male: la ripetitività infatti delle azioni sadiche oggettivamente descritte nei suoi racconti - si tratti di sgozzamenti, massacri, stragi, orrendi omicidi tra famiglie diverse o all’interno di una stessa famiglia - sarebbe lì a dimostrarlo.
Le ripetitività di faide di tipo mafioso, di associazioni per delinquere, di intese assassine che caratterizza il suo narrare, ci fa capire che Gaccione conosce il male per l’infinito suo riproporsi nel pensiero di ciascuno di noi oltreché nella storia.

La copertina del libro

Per averlo voluto e volerlo, insomma, anche lui nei propri rapporti, il male, e non importa se non nelle stesse forme distruttive mafiose.
E per la difficoltà di vincerlo, personalmente e politicamente, con intese, accordi, alleanze, che a quella volontà malefica facciano da contraltare.
Il male di cui ci parla Gaccione ha a che fare, insomma, con quella pulsione di morte del pensiero individuale di cui tratta Freud: pulsione asfittica, che imprigiona nel provincialismo riduttivo e omicida della famiglia chiusa gli uomini, e fa loro rinunciare all’universo degli altri con cui costruire un pacifico e fruttuoso rapporto vedendone la convenienza.

*Psicoanalista della Società Amici del pensiero
Sigmund Freud di Milano

CI ASPETTA L’UOMO FORTE?
di Franco Astengo


La democrazia senza futuro

Di seguito la sintesi del Rapporto Censis 2019:
“Gli italiani non ne possono più della politica. O meglio, non vogliono più vedere i politici: il 90% dei telespettatori, per intendersi, non li vorrebbe ‘tra i piedi’ mentre fa zapping. Se a questa stanchezza si uniscono tutte le incertezze sul fronte economico e sociale che caratterizzano questi tempi, ecco farsi strada nella mente dei concittadini una soluzione: l’uomo forte, al di sopra del Parlamento, che rassicuri.”

Fa paura, pensando alla nostra storia, quel che emerge dall’ultimo rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese. Lo stato d’animo dominante tra il 65% degli italiani è l’incertezza. La crisi economica, l’ansia per il futuro e la sfiducia verso il prossimo hanno portato anno dopo anno a un logoramento sfociato in parte in “stratagemmi individuali” di autodifesa, dall’altra in “crescenti pulsioni antidemocratiche”, facendo crescere l’attesa “messianica dell’uomo forte che tutto risolve”. Per quasi la metà degli italiani, il 48% per la precisione, ci vorrebbe “un uomo forte al potere”.
Si conferma così un’analisi che pure si era stati tentati di portare avanti qualche tempo fa e che così può essere sintetizzata.
La scena politica italiana appare percorsa, ormai da molti anni, da fenomeni ricorrenti: all’interno di un quadro generale di “sfrangiamento” sociale e di cessione di sovranità da parte dello Stato verso poteri lobbistici e corporativi sia nazionali sia sovranazionali.
Nella società l’egemonia del “consumismo individualistico” ha generato una sorta di “individualismo competitivo” che adesso si sta trasformando per certi versi in un pericoloso “individualismo della paura” e di conseguenza in forme massicce di agire collettivo all’interno del quale agiscono fenomeni di vera e propria “cattiveria” di massa che arrivano a determinare pulsioni di tipo razzista e comunque di estremo conservatorismo. Naturalmente la risposta non può venire dal semplicistico richiamo in piazza che si verifica sulla base di quello che è stato definito “buonismo populista”.
Emerge, nella situazione italiana, una “questione morale” che ormai attraversa anche i settori che tradizionalmente hanno interpretato un ruolo di “supplenza” nella difficoltà del sistema democratico com’è stato nel caso della Magistratura. Nasce da questi elementi uno spostamento massiccio della pubblica opinione verso tensioni di vero e proprio qualunquismo.
 Si è trasformato radicalmente il ruolo dei partiti e accentuata la reciprocità tra il corporativismo sociale e l’autoreferenzialità di quello che era stato definito come “ceto politico”.
Si è cercato di andare incontro a questo profondo cambiamento attraverso la ricerca di forme di governo che stabilissero l’autonomia del “comando politico” anche e soprattutto rispetto al Parlamento, esaltando la “governabilità” e riducendo lo spazio per la rappresentanza attraverso leggi elettorali poi clamorosamente giudicate fuori dal perimetro costituzionale da parte dell’Alta Corte. Meccanismo che oggi si cerca colpevolmente di reiterare ancora una volta in forma del tutto ingannevole.
All’interno di questo quadro si è consolidata quella che è stata definita come “Costituzione materiale”: “Costituzione materiale” che si è cercato varie volte di suffragare attraverso proposte di modifica della Costituzione formale; tutte proposte respinte; in due occasioni anche dal voto popolare seguito all’approvazione da parte del Parlamento.
All’esito di quei voti (2006 e 2016) non ha però corrisposto un’adeguata capacità di riproposizione da parte delle forze politiche della centralità parlamentare così come espressa negli articoli della Costituzione del ’48.
Di conseguenza è mancata una “visione” della democrazia e si è fornito ulteriore spazio a questo processo di vera e propria disgregazione i cui fattori, già ricordati all’inizio di questo intervento, non sono stati arrestati e stanno provocando l’emergenza di una costante disaffezione dell’agire nel senso dell’interesse collettivo.
Una vera propria “disaffezione democratica” dimostrata anche dall’emergere di una assolutamente eccessiva volatilità elettorale ormai portata al limite dello sbandamento collettivo e da una crescita del fenomeno della personalizzazione della politica fino al punto da rendere, come stiamo costatando, l’idea del cosiddetto “uomo solo al comando” quasi come una sorta di “vox populi”.
In sostanza: una società sfibrata e disorientata in cerca di un “Lord Protettore”; così si giustificano anche i repentini mutamenti di scena verificatisi nel corso degli anni con il passaggio del testimone da Berlusconi a Renzi, da Grillo a Salvini (il tutto condito da mirabolanti promesse elettorali elargite al limite del “voto di scambio”). Attenti: alla disgregazione subentra sempre la reazione. La crisi del governo giallo verde verificatasi nella scorsa estate è derivata proprio dall’incapacità dei suoi protagonisti di non essere riusciti a proporre una diarchia efficiente, un nuovo bipolarismo da sistemare al posto appunto del “rettore pro-tempore”.
Si è molto discusso in questi mesi di similitudine tra lo stato attuale e il fascismo: da questo punto di vista si può tentare un parallelo con l’analisi gramsciana. Nella sua analisi del fascismo Gramsci era partito dall’esempio del bonapartismo, pur sottolineando le differenze tra tale forma di Stato d’eccezione e il fascismo. La comparazione con l’oggi, stando dentro al quadro della riflessione proposta da Gramsci, può partire dalla constatazione delle difficoltà che, per varie ragioni di carattere interno e internazionale, stanno attraversando le classi economiche tradizionalmente dominanti e ormai incapaci di esercitare egemonia.
A questo punto, pur di conservare il potere socio-economico, è avvenuta un’operazione trasformista. L’idea è quella di una cessione provvisoria e parziale di potere verso - appunto - l’ipotesi (non ancora concretizzata) di un “Lord Protettore” che, nel caso di Renzi, Grillo, Salvini (fatta salva ovviamente la diversità dettata dai modi d’interpretazione della politica spettacolo e della “democrazia recitativa”).
Un “Capo politico” (che brutta questa espressione riesumata dal M5S) proveniente (com’era accaduto del resto anche per Mussolini) dalla piccola borghesia. In sostanza un tentativo di saldatura tra grande capitale e piccola borghesia corporativa e/o assistenzialista nell’intento di salvaguardare una continuità di comando per interessi storicamente prevalenti nella pancia della conservazione eversiva caratteristica costante della borghesia italiana: quella borghesia italiana tenuta buona a suo tempo dall’impasto terribile formato attorno al regime democristiano (nei tempi però della guerra fredda e della “conventio ad excludendum”).
Insomma: la formazione di un nuovo blocco sociale reazionario, come del resto ben evidenziano i dati del CENSIS e non mi si replichi che ormai queste categorie d’interpretazione sociale non esistono più: proprio nella modernità che molti evocano queste categorie “classiche”, si riaffermano e consolidano.
Si realizzerà questo disegno che potremmo definire di “corporativismo populista” a cui il PD sembra prontamente essersi adeguato seguendo la propria vocazione “governativista” ad oltranza, senza concedere mai nulla ad un’idea di alternativa, anzi rifuggendola di continuo?
Si determineranno in questo modo nuovi equilibri di potere sufficientemente stabili fondati su un nuovo equilibrio spostato pesantemente verso destra, tanto per continuare a usare terminologie soltanto apparentemente desuete?
È questo l’interrogativo più importante che si pone in questa fase di fronte ai democratici. Il quadro è molto incerto, sicuramente lo scivolamento progressivo in una sorta di regime autoritario è in atto: ed è questo il punto di riflessione fondamentale per chi ritiene necessaria un’opposizione radicale e intende pur nelle difficoltà del momento pensare ad un’alternativa altrettanto netta sul piano delle opzioni politiche, della concezione della società, della stessa prospettiva di sistema e di conformazione dell’impianto politico complessivo. A sinistra, preso atto della radicalità delle condizioni complessive anche sul piano internazionale (di cui, in quest’occasione si è omessa l’analisi) si può stare soltanto in questa dimensione di alternativa.


BUCAREST
Fino al 6 gennaio il vernissage di artisti italiani.
Presenti anche opere del nostro collaboratore Claudio Zanini.

Cliccare sulla locandina
per ingrandire



IL PENSIERO DEL GIORNO

Opera di Max H. Sauvage

“L’uomo intelligente dove non arriva con le mani, 
arriva con la mente”.
Nicolino Longo


domenica 22 dicembre 2019

MARTINSICURO E LE MIE CITTÀ
di Valeria Di Felice

Valeria Di felice
(foto di Paolo Soriani)

Ci sono due tipologie di città nell’immaginario di ognuno. Le prime sono quelle che vivi quotidianamente, che entrano in contatto con il tuo respiro biologico, necessario, fisico; sono quelle in cui ti muovi, agisci, sperimenti un tempo paziente e ordinario sopravvivendo alla costante immersione nel frastuono della vita di tutti i giorni. Poi ci sono le città che alimentano la tua casa interiore, che nutrono ideali, sogni, desideri, in cui vieni in contatto con te stesso, scopri la tua identità, ti accorgi di esistere con la promessa di imparare a vivere (se mai si possa imparare a vivere!). 
Ad un certo punto accade che inizi a interagire con lo spazio intorno a te, non ti limiti ad attraversarlo ma lo trasformi da terra a mondo: associ un ricordo a una panchina, dai un nome a un albero, rievochi il profumo di una strada. Insomma, cerchi nel luogo qualcosa che possa rappresentare una parte di te per vederla meglio! Ed ecco che le cose iniziano ad avere un nome, ma non quello denotativo, comune a tutti. Un nome che sia il riflesso del tuo linguaggio intimo. Questi nomi iniziano a suggerirti parole nuove, magari parole che conoscevi ma che avevi dimenticato o che ritenevi poco importanti per la tua geografia interiore. E poi accade che inizi a dialogare con questi luoghi che tu stesso hai scelto e hai reso parlanti, inizi a interrogarli, ad amarli, a detestarli, a ribellarti contro di loro, a difenderli. In poche parole, inizi a viverli perché è lì che tu senti la vita.

Torre Carlo V
(foto di Pasquale Tucci)

A volte queste città-luoghi (le prime e le seconde) coincidono, altre volte no.
Partiamo dal luogo delle origini, in cui sono cresciuta fino a diciannove anni: Martinsicuro. Con i suoi 16.000 abitanti, si affaccia sul mare Adriatico e sulla foce del fiume Tronto, che fino a circa un secolo e mezzo fa divideva il regno borbonico dallo Stato del Papa. Terra di confine tra Marche e Abruzzo,  è sempre stata nel mio immaginario di giovane e adolescente una parentesi selvaggia nel cordone ininterrotto delle città della riviera adriatica; selvaggia nello sviluppo disordinato e nella poca lungimiranza politico-sociale accumulata negli anni ma anche nella segretezza (inconsapevole) di una bellezza custodita involontariamente nel tempo: della spiaggia quasi intonsa, della campagna dentro la città, della collina vista mare (o meglio del mare vista collina), del contatto quotidiano di un tessuto sociale e culturale complesso perché diverso.

Una veduta marina

A Martinsicuro ho frequentato la scuola materna, primaria, secondaria di primo grado (per poi andare al liceo classico fuori porta, a San Benedetto del Tronto), mi sono allenata per quindici anni in una società di pattinaggio artistico, ho sperimentato l’incomprensione, la rabbia, la delusione, ma anche il coraggio e la forza di credere ai propri sogni. E nelle tante difficoltà che accompagnano qualsiasi crescita, ho incontrato la poesia, la mia preghiera laica. A diciannove anni mi sono trasferita a Bologna per studiare antropologia all’università e a Martinsicuro sono tornata a ventisei anni per “fondare” una casa editrice dedita alla poesia, sarà stato un caso?
Dopo la laurea avrei preferito rimanere a Bologna. L’idea di tornare in una periferia culturale come Martinsicuro non mi entusiasmava, temevo che il mio sogno si sarebbe arenato. Ma è il caso di dire che l’amore ha prevalso sulla paura e con un pizzico di sana incoscienza ho aperto ex novo la Di Felice Edizioni e ho proposto al Comune di Martinsicuro due iniziative culturali: il Martinbook festival (di cui ho curato le prime quattro edizioni) e il Premio letterario Città di Martinsicuro. Una impresa culturale - quella nella mia città - che in quasi dieci anni ha man mano cambiato la mia percezione del territorio, facendomi scoprire e apprezzare angoli di città prima ignorati. È il caso della Torre Carlo V con l’adiacente casa doganale, baluardo del XVI secolo, oggi museo archeologico. Ma anche le barbute dune del biotopo costiero, che aprono uno scenario veramente insolito e magico a chi è alla ricerca di bellezza e di silenzio.   
Martinsicuro. L'ex fornace Franchi
  
Quello con la mia città non è stato un rapporto sempre facile, ma sicuramente fecondo, una palestra che attraverso tanti sforzi ti forgia, ti aiuta a comprendere i tuoi punti deboli e le tue risorse. La poesia va di moda oggi (nella forma non nella sostanza), ci sono tante persone che grazie alla facilità con cui si pubblica si sentono legittimate ad autoproclamarsi poeti. Fortunatamente ho avuto la possibilità di conoscere presto poeti e persone di grande esperienza culturale che mi hanno aiutata a “riconoscere”, a “distinguere”, a non diffondere l’omologazione in un’attività editoriale che dovrebbe essere (come qualsiasi lavoro) responsabile, basata sulla scelta e non solo sui moltiplicatori commerciali. Proprio a Martinsicuro ho un debito morale con Antonio Camaioni, poeta schivo e solitario, il quale è diventato una sorta di mentore regalandomi la possibilità di pubblicare due suoi libri e ancor di più regalandomi la fiducia nella poesia, in quella poesia che ha la forza di costruire la realtà.

Veduta di Casablanca

Se Martinsicuro è stata ed è la città che accompagna il mio respiro quotidiano, ce ne sono altre - inattese - che hanno nutrito la mia casa interiore: Reggio Calabria, Casablanca, Teramo.  
Reggio Calabria, una città con una vista mozzafiato sullo stretto di Messina e sull’Etna con i suoi sbuffi stagliati nel cielo. Una città dove sono scesa una ventina di volte dai ventitré ai ventisei anni (mentre studiavo ancora a Bologna) perché collaboravo con una casa editrice reggina. Tre anni in cui ho iniziato a maturare la volontà di aprire una casa editrice tutta mia e soprattutto si è fatta strada dentro di me la necessità di farlo senza tradire il senso di responsabilità. Iniziavo a capire i meccanismi dell’editoria facendo tesoro dell’esperienza di numerosi editori, iniziavo a conoscere la marea sterminata di persone che si avvicinavano alla poesia (senza amarla né conoscerla, solo come forma terapeutica o di “legittimazione sociale”), a sentire il bisogno di fondare un “luogo” protetto, nel quale scegliere la qualità.

Veduta notturna di Reggio Calabria

Poi è arrivata Casablanca, città dove convivono modernità e arcaicità: essa è entrata nella mia vita a ventisei anni, due mesi prima che aprissi la casa editrice. Un viaggio al SIEL, la fiera internazionale del libro, che mi ha fatto incontrare per la prima volta la poesia araba. Amore a prima vista, la musica della poesia araba ha dilatato il mio orizzonte, ha stimolato la curiosità di conoscere la poesia straniera, soprattutto di lingua araba, un mondo vicino al nostro ma che percepiamo molto distante e soprattutto come un blocco monolitico. E così sono tornata più volte a Casablanca, il luogo che rinnova l’avventura, il fascino del diverso, la magia della poesia; mi ha aperto le porte del Marocco ma anche della Siria, della Palestina, dell’Egitto portandomi a pubblicare scrittori e poeti come Rita El Khayat, Hassan Najmi, Nazìh Abu 'Afash, Fatiha Morchid, Murad Sudani, Yousef al Mahmoud, Emad El Mohsen, Asrhaf Fayadh e molti altri. 
    
Teramo vista dall'alto

Con l’apertura della casa editrice nel 2010, i viaggi si sono moltiplicati, le città anche, ma ce n’è una che si sta facendo strada nella mia geografia emotiva: Teramo. Capoluogo di provincia abbracciato dalle mani perlate del Gigante Buono (Il Gran Sasso) e coccolato da tramonti di lungo raggio, a mezz’ora di distanza da Martinsicuro, Teramo è la città dove vivo insieme a mio marito Dino. Da sempre plumbeo e chiuso nel mio immaginario per qualche ragione irrazionale (che lo sguardo tra i cittadini di mare e quelli di montagna sia per natura diffidente?), è un luogo che - per molte frequentazioni lavorative e quindi per la mia esperienza soggettiva - finora è stato un esempio di provincialismo e di un atteggiamento che sostiene più l’erba infestante che la pianta nutriente per quei valori su cui dovrebbe fondarsi una società “sana”. Tuttavia, a Teramo sono immensamente grata per avermi ricompensata con dei doni inaspettati come la conoscenza di alcune persone straordinarie, come il romanziere e traduttore Roberto Michilli e il poeta Leandro Di Donato: stra-ordinarie proprio perché continuare a rispondere al qualunquismo di molti ambienti cosiddetti “culturali” con onestà intellettuale e rispetto per il prossimo, mi sembra il solo atto rivoluzionario capace di praticare una reale resistenza.

RIDUZIONE DEL NUMERO DEI PARLAMENTARI:
ARGOMENTI PER IL REFERENDUM
di Franco Astengo


In Parlamento è stato raggiunto il numero di firme necessario perché si addivenga alla celebrazione del referendum popolare abrogativo della legge che stabilisce la riduzione nel numero dei parlamentari portandolo a 400 per i deputati e a 200 per i senatori in luogo rispettivamente di 630 e 315.
Sarà indispensabile che nel confronto elettorale sia presente una “sinistra costituzionale” in grado di proporre una riflessione sulla centralità del parlamento come delineata dalla Carta e sull’esigenza che questa centralità sia sostenuta da un adeguato livello di rappresentanza politica e territoriale.
Da questo punto di vista bisognerà far notare come il livello dello scontro sarà della stessa qualità di quello sostenuto avverso il disegno di deforma costituzionale del 2016.
Naturalmente rimane tutto da vedere se si svolgerà davvero il confronto nelle urne: sono diverse le variabili possibili prima fra tutte quella di chi potrebbe avere interesse ad anticipare le elezioni per aver ancora a disposizione un numero maggiore di seggi da mettere in palio consentendo ai partiti margini di manovra più ampi sui termini delicati della composizione delle liste.
Si ricorda comunque che lo svolgimento delle elezioni legislative generali e del referendum confermativo è compatibile nello stesso anno, come accadde nel 2006 (in quell’anno si elesse anche il nuovo Presidente della Repubblica).
In caso affermativo il voto dovrebbe effettuarsi in primavera e sarà una campagna elettorale molto difficile per chi intendesse di sostenere il mantenimento dei numeri attuali.


È facile, infatti, individuare come rimanga molto forte, comunque, nell’opinione pubblica il vento dell’antipolitica alimentato dall’idea della “riduzione dei costi”, vero e proprio punto terminale di una sorta di “furia iconoclasta” ormai in corso da molto tempo e rivolta verso il Parlamento e i suoi membri. Tutto questo avviene, del resto, in un Paese dove il 48% delle cittadine e dei cittadini auspica un “uomo solo al comando” dotato di poteri non intralciabili da elezioni e parlamento: un grido che, del resto, si levò molto forte da tutte le spiagge nell’indimenticabile estate del 2019.
Chi intendesse sviluppare una campagna elettorale favorevole all’abrogazione della legge di riduzione si troverebbe quindi sottoposto al rischio di ondate di forte impopolarità, come avvenne del resto a coloro che nel 1993 difesero l’impianto proporzionale dalla ventata maggioritaria (referendum del 18 aprile di quell’anno con l’82% favorevole al maggioritario: i risultati di quella vera e propria “ubriacatura collettiva” sono stati quelli che abbiamo sotto gli occhi: difficile ingovernabilità, crescita numerica dei gruppi parlamentari, estrema fragilità del sistema politico e sfibramento nel rapporto di credibilità delle istituzioni rispetto all’opinione pubblica).
È comunque il caso di aprire un ragionamento di merito.
Principiamo dal tema più delicato: quello riguardante i costi del Parlamento e l’auspicato contenimento. Una riduzione che farebbe, appunto, leva su di un minor numero di persone presenti nelle aule anziché sulla riduzione dei loro emolumenti e su di una revisione complessiva del tema del finanziamento della politica affrontato anch’esso nel corso degli anni con un pressapochismo derivante direttamente dall’inseguimento acritico di ventate populiste.
In realtà la questione del numero dei parlamentari non dovrebbe riguardare il tema dei costi della politica, come invece agitato dalle mode propagandistiche di questi tempi.



Vale la pena ricordare alcune banalità: il numero dei parlamentari dovrebbe, infatti, essere legato a due questioni assolutamente decisive per il funzionamento di una democrazia complessa come dovrebbe essere quella italiana, quella della presenza politica e quella della presenza territoriale.
Al riguardo di questi temi, è bene ricordarlo, sono in essere tendenze fortemente semplificatorie al punto da far pensare una situazione già collocata pericolosamente “oltre” quelle tensioni presidenzialiste che pure erano affiorate nel recente passato con l’inasprirsi del peso della personalizzazione della politica, fenomeno veicolato da un uso esasperato della comunicazione mediatica in maniera del tutto distorcente il messaggio generale del dibattito pubblico.
Il riferimento della pericolosità della situazione sul piano della tenuta democratica è dovuto insieme, alle tensioni populiste nate dalla cosiddetta “antipolitica” e rivelatesi sicuramente egemoni assieme alle tentazioni sovraniste seguite: All’arresto del processo di globalizzazione seguito alla crisi dei subprime del 2007; all’andamento e all’esito delle guerre mediorientali e nel Nord Africa. Guerre segnate dal fallimento della linea dell’esportazione forzata dal modello liberaldemocratico.
L’insorgere di un’articolazione di confronto tra le grandi potenze seguente la fase contrassegnata dagli “USA soli gendarmi del mondo” nel post caduta del muro di Berlino e dalla teoria (sbagliata e ripudiata dallo stesso autore) della “fine della storia”.


Torniamo però al centro del nostro discorso.
Come è già stato fatto rilevare non sarà semplice, e all’apparenza sicuramente impopolare, sostenere il mantenimento degli attuali numeri di composizione delle Camere rimanendo anche vigente il bicameralismo paritario.
Pur tuttavia è necessario farlo precisando da subito alcuni dati che ignorati potrebbero far passare per verità dei semplici luoghi comuni.
Prima di tutto con questa riforma l’Italia passerebbe, infatti, a uno degli ultimi posti in Europa sul piano della rappresentanza politica in rapporto alla popolazione. La riduzione del numero dei parlamentari così come prevista dalla legge oggi eventualmente sottoposta al vaglio referendario, porterebbe, infatti, il rapporto tra il singolo parlamentare e la popolazione di riferimento a 1 su 151.000. Nel Regno Unito il rapporto è 1 su 101.000; in Olanda 1 su 114.000; in Francia 1 su 116.000; Germania 1 su 116.000; Spagna 1 su133.000.
Sono stati citati Paesi di consolidato assetto democratico con una presenza abbastanza ampia sul piano del pluralismo parlamentare. Paesi che utilizzano diverse formule elettorali, dalla proporzionale pura dell’Olanda, alla proporzionale con sbarramento al 5% in Germania, ai relativamente piccoli collegi della Spagna dove non si recuperano i resti utilizzando il d’Hondt, al doppio turno francese.
Occorre allora chiarire che affrontare il tema del numero dei parlamentari non dovrebbe essere possibile in assenza di una valutazione complessiva circa il rapporto di popolazione esistente all’interno del collegio e/o circoscrizione; del metodo di elezione (lista bloccata “corta”, uninominale o lista lunga con preferenze, esprimibili in vario modo) e la realtà del sistema politico dal punto di vista della sua capacità di rappresentanza delle diverse “sensibilità politiche” (usando un termine togliattiano) presenti in una dimensione consistente nel territorio nazionale, garantendo anche la presenza delle minoranze linguistiche ed etniche.




La questione deve quindi essere intesa come afferente il sistema elettorale nel suo complesso (che non riveste rango costituzionale) e non soltanto vista sotto l’aspetto della formula di traduzione dei voti in seggi.
In questo senso appare dunque fondamentale il disegno dei collegi: un punto sul quale, in passato, si erano già sviluppate criticità che portarono a rappresentare elementi dirimenti per il giudizio negativo espresso dalla Corte Costituzionale al riguardo dei ben due leggi elettorali, entrambe bocciate dalla stessa Alta Corte. Disegno dei collegi che non è stato ancora eseguito.
Si ricorda, infine, come la Costituzione preveda un sistema politico fondato sulla “centralità” del Parlamento, cui il governo è obbligato da un voto di fiducia espresso da entrambi i rami (come confermato dall’esito del referendum del 2016) mentre tocca al Presidente della Repubblica incaricare il Presidente del Consiglio e a controfirmare la lista dei ministri.
Corre dunque il rischio di una dichiarazione di incostituzionalità una composizione delle Camere insufficiente dal punto di vista dei riferimenti di espressione geografica, e di presenza politica.
Rami del Parlamento magari eletti con l’adozione di una formula elettorale di tipo maggioritario che finirebbe con lo schiacciare ancor di più il lavoro dell’aula nel senso di una forzatura governativista (senza dimenticare che esiste anche un problema di regolamenti d’aula e di soglie di garanzia per la presenza delle minoranze).
La questione quindi non è quella dei costi ma di ordinamento delle massime istituzioni rappresentative dello Stato nell’ambito del dettato della Costituzione Repubblicana. Si presentano evidenti riflessi sulla capacità di rappresentanza delle Camere sia sul piano politico, sia territoriale.
Di conseguenza il referendum riguarda il mantenimento del ruolo centrale del Parlamento come previsto dalla Costituzione: in sostanza lo stesso “oggetto del contendere” del referendum che si svolse nel dicembre 2016 attorno al progetto fatto votare (con la fiducia) dal governo Renzi.
In quel frangente all’interno di un coacervo di opzioni politiche anche contraddittorie si espresse anche con chiarezza una sinistra costituzionale che contribuì in misura non secondaria al successo del “NO”.
Oggi sarebbe ancora il caso che l’area politico-culturale rappresentativa della sinistra costituzionale si esprimesse di nuovo con la stessa chiarezza con un “NO” a difesa dell’ordinamento repubblicano messo di nuovo in pericolo da improvvisazioni e facilonerie demagogiche.



Libri
SAGGEZZA
di Gabriele Scaramuzza

Eugenio Borgna

In questo saggio Eugenio Borgna ci offre di nuovo, e con quella scrittura coinvolgente, snella e piana che abbiamo sempre ammirato in lui, una meditazione su una delle idee-chiave della nostra tradizione culturale, oggi purtroppo caduta in discredito. Caso vuole che la lettura di Saggezza cada in giorni in cui sto insieme leggendo il tuttora coinvolgente Corpo celeste (opportunamente riproposto da Adelphi), di cui mi ha fatto dono una sensibile amica. Le pagine di Anna Maria Ortese conservano tuttora un grande fascino: non voglio omettere di ricordare qui il respiro della libertà che le anima (“cosa vuole dire nazismo – il disprezzo totale del Respiro dell’altro – lo abbiamo dimenticato”), il tema di una ragione che si oppone a quanto l’autrice chiama intelligenza (ma qui avrei usato il termine intelletto, intellettualismo), la valorizzazione della scrittura, la perdita di rilievo di “la solitudine, il silenzio, l’ombra”, sono tra i temi che più mi hanno catturato.   
Tornando a Borgna, la sua scrittura ancora una volta ha esercitato una virtù terapeutica su di noi che leggiamo, ci aiuta ad orientarci meglio, a non restar vittima del mainstream di opinioni, di comportamenti, di scelte pregiudiziali di valori, che tutto travolge senza lasciar sbocchi. Tanto più che, coerentemente con l’intero suo pensiero, anzi con l’intera sua vita dedicata alla “cura delle anime” - Borgna è psichiatra per vocazione e per professione, si sa - la sua riflessione non si limita a far tesoro della sua pur lunga e meritoria esperienza di medico e di scienziato, ma ricorre alla filosofia (presenti sono i nomi di Platone, Aristotele, Paolo di Tarso, Agostino di Ippona, Erasmo da Rotterdam, Michel de Montaigne, Arthur Schopenhauer, Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche, Romano Guardini, Elias Canetti, Teresa di Calcutta, Cristina Campo, Etty Hilesum, Simone Weil, Max Scheler, Emmanuel Lévinas, Winfried G. Sebald, George Steiner). Soprattutto Borgna attinge abbondantemente, come gli è connaturato, a quella forma di pensiero che della grande letteratura e della poesia: si incontrano nelle sue pagine Eschilo, Sofocle, Giacomo Leopardi, Friedrich Hölderlin, Fëdor Dostoevskij, Marina Cvetaeva, Rainer Maria Rilke, Marcel Proust, André Gide, Franz Kafka, Robert Musil, Dietrich Bonhoeffer, Thomas Mann, Eugenio Montale, Vladimir Nabokov Tra i musicisti troviamo Robert Schuman, tra i pittori Edvard Munch.  
Tanto più appassionante per noi è che le considerazioni di Borgna si nutrono di temi nodali della nostra esperienza quotidiana. Esperienza in cui il termine saggezza “può essere considerato antiquato e astratto, stravolto dal dilagare di forme di vita sempre più contrassegnate dall’esteriorità, dalla tecnica”, tanto che “tendono a far a meno dell’interiorità, della meditazione e della riflessione”. Non di rado si impongono modi di fare aggressivi, sgarbati, offensivi, umilianti al fondo; ci si rifiuta di capirli (Ortese: “io li rifiutavo semplicemente tacendoli”), nella speranza di non averli intesi bene, ci si chiede cosa dia il diritto di assumere simili atteggiamenti verso altre persone, nel tempo stesso in cui reclamano verso di sé un rispetto che negano ad altri.
Tendenze dominanti sono “la fretta, l’accelerazione”. Moritz Geiger, allievo di Husserl di cui mi sono occupato anni fa, resta per me un esempio di “uomo saggio”, non a caso travolto dalla tempesta che si addensò sull’Europa negli anni Trenta. Di lui testimonia un allievo, e poi filosofo in proprio, Hermann Zeltner: “non era mai indaffarato, sembrava sempre aver tempo a disposizione”. Di quanti oggi ci si potrebbe ricordare in questi termini? Ai giorni nostri, per le strade e sui mezzi pubblici troppe persone sono chiuse sui loro cellulari, inavvicinabili; si soffocano progressivamente gli spazi per il dialogo, persino per la mera chiacchiera – noiosa, banale, si sa, ma strada aperta a una comunicazione possibile. Sono messi da parte ambiti legati a quella che un tempo si diceva interiorità; sviliti - quando non relegati nell’ambito di quel pernicioso “buonismo” che ha ormai surrogato, e con ciò esautorato, ogni autentica bontà - risultano valori quali la gentilezza, la fragilità, la generosità, la diversità, la solitudine, l’empatia come immedesimazione negli altri: “le fondazioni etiche della vita e dell’agire”, come Borgna riassume in poche parole. Nel mondo delle mie attuali letture gli fa eco a suo modo, ripeto, Anna Maria Ortese allorché, nel suo tuttora coinvolgente Corpo celeste, denuncia il “grande buio morale” di tempi - lontani è vero, ma non così estinti - e aggiunge: “nella parola ‘morale’ comprendo una quantità. di cose. Ne dirò una sola: il vivere con pietà e amore in mezzo agli altri”.
Il testo di Borgna si articola in capitoli da cui emerge la rete di connessioni concettuali e vissute in cui la saggezza vive. Nella costellazione di termini di cui s’intesse rientrano gentilezza, attenzione, ascolto, silenzio, senso dei limiti, rinuncia, tempo, emozioni e la conoscenza che in essa si dà corpo (“sono forme di conoscenza”, sottolinea Borgna a ragione), gli occhi e il loro linguaggio; colpiscono le pagine dedicate alla saggezza nella vecchiaia e alla follia al femminile, infine prendono non poco le pagine verso la fine dedicate ad Antigone. Non poco riprende temi a lui cari, e ritornanti nei suoi lavori.  Non staremo a inseguirli. Quel che qui ci importa è l’attualità del tema che affronta, il suo mordere nelle situazioni della nostra vita. Il non trovar mai tempo per lo più: il non saper ascoltare, il liquidare con fastidio qualsivoglia tentativo di parlare con altri, di farsi ascoltare, l’essere sbrigativi, la cattiva solitudine in cui tutto questo getta, l’incremento di ansia, di depressione, di scontento che comporta. Ancora una volta ha più che mai ragione Anna Maria Ortese quando, in Corpo celeste, osserva poco più avanti osserva poco più avanti annota: “Chi vuol dire qualcosa, non spera più di esser capito”. “Un ben strano destino”, annota poco più avanti, incombe: “Di credersi il peggiore e trovarsi, alla fine, dopo mille convulsioni di speranza e di dolore, d’accordo con quanti lo spinsero via e persuasero di essere un sognatore, con nulla o quasi da dire. E forse il castigo, forse non castigo - reale sanzione del nulla a coloro che onorarono la maestà del vivere e patire terreno -, fu l’indurli a credere che non vi era una maestà del vivere e del patire”.      
Voglio concludere con le parole di Borgna alla pagina 126 del testo: “Non basta volerlo per essere, o divenire, saggi. Il cammino verso la saggezza è un camino frastagliato e faticoso che ha come premessa tante cose: conoscersi, conoscere le emozioni che sono in noi, essere inclini ad ascoltare, prestando loro attenzione, le persone che il destino ci fa incontrare, essere fedeli agli ideali di giustizia, voler esser saggi. Cose che talora non bastano a farci agire saggiamente, perché la saggezza è conoscenza razionale delle cose, ma nelle sue scelte ultime è intuizione e immaginazione, amore del prossimo: a questo ci di educa, ci si può educare, certo, ma con grande impegno e talora grande fatica”.   
La copertina del libro

Eugenio Borgna
Saggezza
Il Mulino, 2019
Pagg. 133, € 12, 00