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martedì 21 gennaio 2020

Poeti
FRANCESCO MACCIÒ
e la eraclitea dinamica degli opposti
di Gabriella Galzio

Francesco Macciò

Abitare l’attesa e l’oscuro di ogni sostanza appare sin dai titoli un’impresa ardua, ma è l’impresa di questa poesia. Qui la poesia non ha fissa dimora, né abita scopertamente la luce, piuttosto il lampo: “là in basso/ da un capo all’altro contro il mare/ bianco distrofico un lampo. // Ruota i secondi, scuote/ lo stesso occhio bianco/ che riaffiora qui davanti,/ fermo, sul vetro.” In questa rapida ellissi si azzerano le distanze tra qui e là, l’occhio e il lampo. Ellissi e condensazione connotano questa poesia, così come l’attraversano un principio di contraddizione, la dinamica dei contrasti e lo smarrimento della non distinzione, lo scacco dell’assenza e il rinvio a un oltre. Contrapposizioni, alterità, ambivalenze, accanto ai veri e propri ossimori (“il rifiuto di un uomo/ che muore immortale/ e vince sconfitto.”), i tanti binomi contrastivi come “vicinanza-lontananza”, “silenzio-parola”, “movimento-stasi”, “leggerezza-gravità”, “morte-vita”, “unione-separazione”… tanto che verrebbe da chiedersi come questa poesia non sia continuamente minacciata da paralisi, se non ci venisse in soccorso la eraclitea dinamica degli opposti. Inoltre, viene fatto notare, nella contrapposizione, si fa largo una tensione alla ricomposizione per fusione o congiunzione: “Un vento che spazza le corsie/ e unisce ogni preghiera/ ogni silenzio della Terra/ e del Cielo”. Nella poesia di Macciò soffia a tratti un vento spirituale e cosmico che smuove le impasse e ricompone le fratture. Oppure è l’amore “il movimento libero dei corpi/ che un altro ascolto accende/ a una gioia quasi sacra.”; che compie l’ellissi che dalle carezze, attraverso separazioni e fratture, giunge alla ricomposizione: “Ma ora che accarezzo le tue mani/ sono i gesti a separarci, a mostrare/ le stesse fratture tra le cose/ il varco di un silenzio/ che ci accomuna e ricompone in noi/ ogni origine, ogni confine.” Ma è solo per poco, per tornare ad abitare l’attesa, la sospensione: “Rimane a picco il silenzio,/ un istante slegato, quel dio/ scomposto tra sponde di pietra.” Non fosse che per questo linguaggio impervio come le montagne che Macciò scala, avremmo persino uno stile comunicativo che lascia fluida la metrica e non frattura la sintassi, tanto da sentirlo più tendenzialmente classico che non sperimentale. Ma chi è questo poeta, questo fabbro, che nei suoi versi dice: “È un vaso più antico lo spirito”? Chi sono i suoi riferimenti? “Con i vili non far tregua/ non ti far servo dei servi/ di un dio che accumula e spegne./ Con te tutti i fabbri migliori,/ Shelley Foscolo Keats…” 
È questa l’impronta classica, la tensione etica, il piglio quasi cavalleresco, per questo poeta ligure che ha fatto propri i romantici inglesi del golfo dei poeti, ma anche Empedocle cui farà dire in epigrafe: “…con l’amore/ l’amore e contesa con la contesa”; classico forse persino nel ricorso all’invocazione, sottolineata dalla ripetizione anaforica: “Signora delle barricate d’acqua/ degli afflitti, dei disarmati. /_..._/ Signora della persistenza/ e della mutazione…” Ma se questa è l’impronta, Macciò forgia con forza metaforica le materie prime della realtà, dei luoghi e degli accadimenti (come “le tangenziali nel piombo del mare”), ma anche delle stesse parole poetiche su cui intesse una riflessione che attraversa la trama dei suoi versi: “Risuonano invisibili/ nel crepitio delle foglie/_..._/ E si raddoppiano trafitte,/ si dimezzano, le parole/ appesa ciascuna / all’ombra sua molesta/ e ognuna dentro l’altra/ che muore.” Poeta addentro alla realtà contemporanea, la metabolizza e porge trasfigurata con grande forza surreale: “Figure senza forma, ammutolite/ al centro del teleschermo. Il clic di un’occhio scarlatto/ che redivivi c’ intomba/ e buca le porte.” …per approdare ad un’acquatica visionarietà del quotidiano: “Poi, sotto un cielo abbrunato/ la chiglia liquida di un divano/ come un’arca che trasporta/ da una all’altra sponda/ gli insonni estratti a sorte.” …per virare infine verso lo sfondo mitico di un moderno e innominato Caronte, “Ad attenderlo un poco sulla riva/ scorrerà imbalsamato/ il mondo nostro di cose dissolte/ e ricucite a pezzi.” Dissoluzione alla quale il poeta però non si arrende, cui oppone infine la dignità di un riscatto pedagogico: “Mi dici che dagli alberi/ dobbiamo imparare e dai fiori/ e da ogni forma vivente/ che si protende verso la luce.” 

F. Macciò

Ma nella poesia di Macciò il versante urbano della civiltà è altrettanto presente, anche se appare per frammenti e lacerti, vedi “i nuovi mercati di merce infinita” o “lo schermo di ghiaccio/ di un cellulare, una voce”, né manca la sensibilità per le cronache di guerra né l’ironia tragica “che dal seme di questa guerra/ nasce ogni volta la paura…/ e la bontà della paura.” Né manca, nel fitto registro delle variazioni stilistiche, lo straniamento distopico e la deformazione espressionistica: “Alcuni in stanze buie/ ricomposti corpi nel caos/ che avanza verso la terra/ e protei, protozoi umani,/ blastodermi in quiescenza/ fin dalle prime piume.// Altri in desistenza/ tra i muri molli di un tunnel/ docili e feroci a staccarsi/ da un binario se passa/ la bolla d’acqua di un treno.” Si va dall’onirismo di “figure nere e bianche/ [che] affiorano nel lago, avanzano pesanti nell’aria insonne” al tono allucinatorio che mutila e mescola insieme corpi e campi: “E pesanti gli occhi,/ gli occhi qui al centro/ in questa quiete allucinata/ liquefatti – veleni/ stagnati nottetempo/ nelle vene mutilate delle acque/ in qualche buca trafilati/ a cielo aperto in mezzo ai campi.” Quanto alla presenza dei generi nella poesia di Macciò, si spazia dal dominio visivo dei fenomeni, alla riflessione filosofico- esistenziale, dalla narratività inframezzata da inserti dialogici virgolettati, ai riferimenti ad un’ambientazione scenica. E altrettanto plurali sono i soggetti: la terza persona dell’accadimento, la seconda del dialogo, la prima plurale che umanamente ci accomuna, e infine, più raramente l’io, in relazione a un tu, tendente al suo dissolvimento: “Scrivo/ per non avere più un volto./ Immagino figure su un foglio di carta.” Quel non-io su cui si regge il mondo.