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mercoledì 4 marzo 2020

CALLAS. LETTERE E MEMORIE
di Gabriele Scaramuzza

Maria Callas

Dello spessore culturale di Maria Callas, come persona e non solo come cantante, testimonia, se ancora ve ne fosse bisogno, la recente pubblicazione di Io, Maria. L’invito ad acquistarla mi è venuto dalla recensione di Carla Moreni su “Il Sole 24 Ore” del 9 febbraio scorso. Per prima cosa nel libro colpisce naturalmente la copertina; e qui devo dire che, per i miei gusti, la foto non è tra le migliori di Maria Callas: nel testo sono sparse sue fotografie più accattivanti.
Ripercorro il denso volume a modo mio, soffermandomi qua e là su quanto più mi attrae, senza alcuna preoccupazione di coerenza né di completezza. Anteposta è l’Introduzione di Tom Volf, che ha la forma confidenziale di una lettera indirizzata alla Callas; spiega poi l’iter della costruzione del volume, le modalità della sua organizzazione, la scelta degli interlocutori, i problemi incontrati, le intenzioni. Sono riprese affermazioni che vale la pena tenere a mente: “In me ci sono due persone, Maria e la Callas, di cui devo essere all’altezza. Ma se mi ascolti davvero, nel mio canto sentirai tutto di me” (13).  
  
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Seguono immediatamente (alle pp. 17-61) le Memorie (1923-1957), firmate Maria Meneghini Callas, dettate dalla stessa Callas all’amica e giornalista Anita Pensotti, volte a mettere in una luce equilibrata episodi controversi, o a rintuzzare accuse ingiuste. “Un giorno scriverò la mia biografia. Vorrei essere io a scriverla, per chiarire alcune cose. Sono state dette così tante menzogne su di me”, scrive a p. 13, e la frase è anche nella quarta di copertina. Queste memorie vanno dalla nascita a New York, dove rimase fino a tredici anni - la lingua della sua formazione fu l’inglese, di cui scrive “amo la mia lingua madre, ma non nella lirica” (198); il greco le restò comunque al fondo - mai dimentica le proprie origini greche, parlando del proprio “istinto” che comunque ha un ruolo nelle sue recite: “Probabilmente si tratta di qualcosa legato alle mie origini greche” (505). Seguono ricordi degli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra ad Atene: anni di miseria e di fame, di irrequietudini sociali, ma anche di assidua preparazione al futuro: furono anche gli anni delle prime recitazioni teatrali, tra cui spicca un Fidelio in tedesco. Seguono ragguagli sul breve e disagiato ritorno a New York nell’immediato dopoguerra. Ma tutto prende vita con l’approdo a Verona nel 1947, seguito dalle sue apparizioni per lunghi anni in non pochi teatri italiani: Firenze, Roma, Venezia, Palermo, Genova… fino alla Scala. Le memorie terminano nel 1957, allorché era già del tutto affermata.  
Raccontano anche la sua vita personale, ma insieme l’iter della sua formazione professionale, in cui decisivi furono gli incontri con Elvira de Hidalgo e Tullio Serafin. Un suo ruolo svolse poi la conoscenza con cantanti, tra cui non pochi celebri: Giacomo Lauri Volpi, Elisabeth Schwarzkopf, Nicola Rossi Lemeni, Cloe Elmo, Giulietta Simionato, Max Lorenz, Franco Corelli, Renata Tebaldi, Giuseppe Di Stefano; e poi via via con direttori d’orchestra che sono tuttora sulla bocca di tutti, a partire da Victor De Sabata, Leonard Bernstein, Herbert von Karajan. Quanto ai rapporti coi colleghi, spesso così chiacchierati, annota significativamente la Callas: “scopro sempre qualcosa da imparare nella voce di tutte le mie colleghe, non solo nelle famose, come la Tebaldi, ma anche nelle umili e nelle mediocri. E io che mi torturo, ora per ora, nella ricerca estenuante di un continuo miglioramento, non potrò mai rinunciare a sentire cantare i colleghi” (39). Assisteva anche a prove d’orchestra, a lezioni altrui, cui non era tenuta ad assistere: “per vivere la musica” (504), dice. Non certo per maliziosa curiosità, per istinti competitivi; significativo che affermi: “non bisogna confondere dovere e ambizione”.

Callas - Meneghini

A queste prime Memorie seguono le Lettere, che vanno dal 1946 al 1977, e costituiscono il nucleo forte del volume, occupandone la maggior parte (da p. 63 a p. 491). Si rivolgono a interlocutori assai diversi tra loro, e in toni diversi; sono ovviamente disomogenee nel carattere oltre che nei contenuti. Sono scritte per lo più in italiano, ma non poche sono tradotte dall’inglese, qualcuna dal francese, poche dal greco: lingue tutte che la Callas dominava.
Non mancano qui riflessioni autobiografiche, da personali a tecnico-musicali a etico-professionali. Ma anche si rivelano la tenuta etica tout-court della sua personalità, la sua capacità di penetrazione, il grado di coscienza di sé, delle irrequietudini (da psicologiche e fisiche) di cui è stata percorsa la sua vita. È forte il senso della propria dignità, anche nei rapporti personali, affettivi, familiari. È ben comprensibile che reclami il diritto di essere ascoltata, prima che diffamata o condannata senza appello: “sono una donna e un’artista seria, e vorrei essere giudicata in quanto tale” (287). Più volte rivendica il suo essere “persona”, e “essere umano”: ci sono qualità irriducibili, anche nel suo canto, a pura vocalità, per quanto alta e raffinata (questo sarà espresso molto bene nel finale del saggio di Teodoro Celli, cui torneremo). Significativa in un contesto in cui non sono assenti tonalità esistenziali la sua posizione nei confronti del suicidio: qualcuno erroneamente le attribuì un tentativo di suicidio (v. p. 453). In altro contesto scrive: “ci sono due tipi di persone: quelle che covano risentimento e quelle che non lo fanno; sono felice di appartenere alla seconda categoria” (521).      
Preponderante nella prima parte è la presenza delle “lettere d’amore” a Giovanni Battista Meneghini, che fu la salvezza per lei allorché giunse in Italia; gli dichiara anche di voler un bambino con lui. C’è qualcosa di artefatto tuttavia, di stonato per noi che lo leggiamo col senno di poi, in questo scambio epistolare (unilaterale tra l’altro: mancano le risposte della controparte). Ci si sente l’eco dei versi che cantava: non solo di Norma o di Traviata, ma anche del Tristano - “lui è me e io sono lui” (70); e al marito scrive: “più canto il Tristano più sto bene” (79); “Nessuno può sostituire te, nessuno sa darmi il conforto e la vita che mi dai tu. Adesso capisci? Io, l’ho saputo subito, e poi più tardi, quando m’hai dato l’anello - Tristano” (121-122). Molto spazio è dato alle lettere (sempre al marito per lo più) da Buenos Aires (con accenti antifascisti, dato il peronismo vigente: “tutti i fascisti dell’universo sono qua. E il teatro lo comanda addirittura la Evita”, p. 134), da Città del Messico, oltre che da New York (la sua città natale, che più d’una volta tuttavia dichiara di odiare), da Chicago, da Dallas - tutte città in cui recitò non poco; per non dire di Londra, Vienna, Berlino, Atene. 

Callas - Onassis

Troviamo una sola lettera a Aristotele Onassis del gennaio del ‘68 (pp. 383-384) - in inglese, ed erano greci entrambi! Lettera quanto mai sopra le righe, tanto più che è stata scritta in giorni vicini alla rottura del loro rapporto. Nell’ottobre ’68 infatti scrive a Elvira De Idalgo: “Sono liberata da un incubo che si chiamava amore distruttivo sotto tutti i pinti di vista” (p. 398); inoltre, sintomaticamente: “Sto lavorando moto duramente, soprattutto per la mia voce, cercando di ritrovare, se possibile, quella che avevo una volta, e che ho sacrificato per un uomo!” (p. 437, e v. anche 460). Ma anche scrive: “In ogni caso, per quanto riguarda la mia carriera artistica, ho sempre preso da me le mie decisioni. Né Aristo né nessun altro avrebbe potuto influenzarmi” (518). Anche il tardo (dal 1972) rapporto, artistico e affettivo, con Giuseppe Di Stefano si rivela alla fine deludente per lei. A p. 472 dichiara che si è “così scottata” con le “precedenti relazioni che, per me, il matrimonio è come una prigione”; eppure si confessa “appassionata, romantica, sentimentale”; “sono ancora all’antica, e mi vergogno”.
Le parole della sua professione gettano luce sulla sua intera personalità: “non avevo alcuna intenzione di far cadere nella routine la mia carriera”, “ero interessata a produrre arte vera”, non a “fare speculazione sull’arte” (267). Da Palermo scrive: “sono abituata al lavoro pulito e perfetto” (102). Era estremamente esigente, autocritica, insoddisfatta verso sé stessa: “ho fissato l’asticella a un livello quasi impossibile da mantenere, e a ogni esibizione trovo che avrei potuto fare molto meglio, nonostante il pubblico sia entusiasta” (479). “Dovrei sgolarmi sempre secondo loro […]. Dimenticano le voci del tempo passato” (92). Ma anche scrive: “credo assolutamente nella mia musicalità” (475). A Eugenio Gara il 22 aprile del 1966, a proposito del proprio passato - e con toni che nello specifico rievocano altre sue dichiarazioni sugli anni della Scala, scrive: “Non dico che facevamo la perfezione, ma almeno c’era tanta sincerità, serietà, umiltà e devozione – oggi c’è tanta vanità, presunzione”. A un più tardo interlocutore denuncia che “il mondo dell’opera sta sprofondando sempre più. C’è un approccio poco professionale e più che mediocre” (441).  
A un’ammiratrice tuttavia: “Mi sforzo di comunicare un messaggio di bontà, come dicono gli italiani, di lealtà”, “venero l’amore, nel senso bello del termine. Tutte le sciocchezze che diciamo all’opera le provo e le esalto: ahimè, la vita però non è così”. Di simili illusioni, e delle conseguenti amare disillusioni, testimoniano le lettere scritte a persone amate. Sempre alle pp. 373-374 leggiamo: “Credo nella fede, perché sono una creatura del destino. Credo nella giustizia, anche se ne vedo troppo poca intorno a me”.  
Del tutto convincenti sono le parole di Shirley Verrett: in una lettera del luglio del 1970 (“la consapevolezza della bella persona che è”, rivolta alla Callas naturalmente), e nella successiva intervista al “New York Times”; qui dichiara: “Norma nel 1965 [la rappresentazione della Callas al Metropolitan che la decise a diventare cantante d’opera] è stato uno shock. Non solo per la sua recitazione, ma anche per il modo in cui utilizzava la voce. Ogni nota aveva un significato. La struttura della frase musicale e il gesto drammatico erano interconnessi. In quel momento ho pensato: ‘Ecco, è questa l’opera’” (p. 422). A questo proposito colpisce nella Callas (a p. 284) la netta coscienza della differenza tra le voci di Lady Macbeth (“densa”, “forte”, velata di oscurità) e di Violetta (“fragile, debole e delicata”). A proposito di La Sonnambula annota: “è molto difficile, perché devi controllarti così tanto e cantare delicatamente tutto il tempo” (211). E più avanti: “Non basta camminare sul palco, piantare un piede da qualche parte e cantare. Devi dare l’impressione di avere vissuto in quei luoghi. Ogni gesto, ogni azione deve avere un senso se vogliamo convincere il pubblico” (p. 285). A Rescigno pare abbia detto, circa l’interpretazione di Ritorna vincitor di Régine Crispin: “Sembra una marcia funebre! Ma è ben altro. Mostriamoglielo!” (op. 358 n.). Non è da trascurare che agli inizi del ’67 scrive una lettera scusandosi di essere distratta dalla musica di Wagner che, dice, “ho messo su” (p. 375): sul giradischi ovviamente. Elvira de Hidalgo nel marzo del ‘49 le scrive: “con il mio metodo avresti un giorno potuto cantare qualsiasi opera […]: ecco perché oggi puoi meravigliare tutti cantando Puritani e Parsifal” (105). Alla stessa lucidamente nel gennaio del 1968 scrive la Callas da Parigi: “Ho i miei dischi che mi insegnano che cosa facevo e il mio registratore mi specchia quello che faccio – o che non devo fare” (p. 383). Degli ultimi suoi giorni testimonia nel suo Diario Leo Lerman (pp. 488-491); il 16 settembre, il giorno stesso della sua morte, è ancora un gioco una sua auspicata registrazione di Traviata.

Callas - Visconti

Il nome di Giulietta Simionato, di cui fu molto amica, è ricorrente; così come (anche se meno) quello di Edoardo Rescigno, di Elisabeth Schwarzkopf, e di Leonard Bernstein. Più d’una volta traspare l’ammirazione, ricambiata, di Marlene Dietrich (che le abitò vicina a Parigi fino alla fine) verso di lei; e perché non ricordare oggi che tra le tante sue ammiratrici si annoverano Franca Valeri, Mina, oltre a Paolo Poli. Tra le interlocutrici ammirate troviamo Leontyne Price (che però la Callas ritiene inadatta al ruolo di Leonora nel Trovatore) oltre a Shirley Verrett. Le lettere a Elvira De Hidalgo (la sua decisiva maestra ad Atene) sono molte, come quelle a Leonidas Lantzounis (suo padrino), a Tullio Serafin (che le fu aiuto insostituibile in Italia, in tutto: sul piano artistico non men che su quello pratico); o ad amici americani, a interlocutori quali Rudolf Bing (direttore artistico del Metropolitan), Walter Cummings (avvocato e amico di Chicago), Elsa Maxwell, Jerry Lewis; alla domestica-confidente Bruna Lupoli, all’amica (e poi autrice di Maria Callas) Cristina Gastel Chiarelli, a Wally Toscanini, a Grace Kelly; oltre che (meno) ai suoi familiari. Destinatari sono critici musicali e musicologi quali Eugenio Gara, Teodoro Celli, Emilio Radius, Herbert Weinstock. Non mancano lettere a e di Luchino Visconti, Franco Zeffirelli; più tardi a Pier Paolo Pasolini: la prima sua lettera è alle pp. 416-417, e ne seguono altre; alle pp. 419-421 troviamo ‘La prevedenza’, poesia dedicatale.     
Da non trascurare sono le lettere relative alla Messa da Requiem di Verdi (pp. 410-414), che credo non abbia mai cantato; e che a proposito di Verdi le abbiano detto che “nessuna qui in Italia canta Vedi come me” (89). Significativo l’impegno espresso (a p. 144) ad assistere a una rappresentazione del Wozzeck, cui però non seguono impressioni sull’opera; non accetta la proposta di Bing di cantare La voix humaine di Poulenc (p. 385). Alle pp. 187-193 troviamo un memoriale a propria difesa in occasione di un processo intentatole da Eddie Bagarozy. Alle pp. 202-206 la risposta a un articolo infamante apparso su “Time”. Vi sono Lettere alla stampa, in cui la cantante mette a punto le proprie ragioni, ad es. nel caso celebre della Norma interrotta all’Opera di Roma (teatro in cui pur cantò non poche volte); o in risposta a articoli o prese di posizione istituzionali diffamanti, come una apparsa su “Time”.    

Callas - Zeffirelli

Ancor più preziosi e toccanti sono i Frammenti di memorie (1977) posti verso la fine del testo (pp. 493-524). Più volte dopo il 1957 la Callas aveva annunciato il proposito di scrivere ancora una propria biografia, col proposito di farsi conoscere anche “come donna”, dato che come artista era ormai ben nota. Rimarchevoli sono le pagine dedicate alla sua arte, e in essa al ruolo del belcanto, cui la educa Elvira De Hidalgo: esso è “quell’educazione completa senza la quale non si può cantare bene qualunque sia l’opera, anche la più contemporanea” (500). Anche esercizi apparentemente noiosi “con le scale, i trilli, gli arpeggi e tutti gli abbellimenti”, sono preziosi; come “piccole melodie che rendono il duro lavoro un piacere” (501). Tutti gli artifici sono controproducenti solo “se usati superficialmente come sfoggio di abilità vocale”; occorre “preparare ogni frase nel profondo prima di cantarla” (502). Il compimento della sua formazione avvenne, sappiamo, in Italia con Serafin: “Tu hai uno strumento - le dice - con il quale studi durante le prove, come fa un pianista col suo pianoforte, ma durante l’esecuzione devi sforzarti di dimenticare che hai studiato; devi divertirti a cantare, esprimendo la tua anima attraverso la voce” (502).  
“Il canto è la manifestazione più alta e nobile della poesia, quindi una buona dizione è di primaria importanza; non solo perché un cantante deve essere chiaro, ma soprattutto perché la musica non deve essere mutilata. Il fatto che io cerchi sempre la verità nella musica non rende le parole superflue” (503). “Spesso le parole nell’opera lirica sono ingenue, persino prive di senso se prese da sole, ma acquisiscono un enorme potere quando si combinano alla musica” (504). Nell’intervista televisiva rilasciata a Dora Ossenska a Parigi nell’autunno del 1976 troviamo: cose tali si dicono i personaggi delle opere, che “se non è ben fatto siamo subito al ridicolo”; per evitare questo “ci dev’essere molta verità molta sincerità molta scienza molta improvvisazione e grande personalità”. Così in Medea i recitativi devono essere “molto serrati molto incisivi anche per non perdere l’atmosfera: un ritmo bisogna tenerlo”; altrimenti “Cherubini è facile che cada nel vuoto”.   
Trascrivo altre imprescindibili osservazioni: era colta la Callas, ma era cosciente che “non basta sapere: a contare davvero è come si rende ciò che si sa”. Quanto ai gesti: “I miei gesti non sono mai premeditati. Sono legati ai colleghi, alla musica, al modo in cui mi sono mossa prima: ogni gesto nasce dall’altro, come il botta e risposta di una conversazione. Devono essere il prodotto autentico del momento”. I cantanti lirici sono attori e come tali “devono identificarsi con il personaggio”. “Bisogna studiare ogni inflessione vocale, ogni gesto, ogni sguardo - mentre l’istinto è quell’amico astratto che ti terrà in pista. Nonostante tutto, non avrai compiuto nulla se i tuoi studi non si trasformano, una volta in scena, in una trasfigurazione totale, in un nuovo modo di sentire, un nuovo modo di vivere” (506). Bisogna mantenere “l’atmosfera, la poesia, il misticismo che fa funzionare la teatralità”. “Non basta avere una bella voce. Cosa significa? Quando si interpreta un ruolo, è necessario avere mille colori per rappresentare la felicità, la gioia, il dolore, la rabbia, la paura. Come puoi farlo solo con una bella voce? Anche se volte canti a pieni polmoni, come ho fatto io, dev’essere per una necessità di espressione”; “questo è l’unico motivo per cui la tecnica viene acquisita” (507). D’altro lato, “non si può usare l’espressione artistica come scusa per un’intonazione scadente o note alte poco accurate” (508). Seguono notazioni a conferma su Norma, Medea, Aida, Tosca, e su Mozart; quanto a Violetta, un critico, scrive, “mi ha inavvertitamente fatto il più grande complimento quando ha detto che ‘la Callas nella Traviata sembrava stanca’, soprattutto nell’ultimo atto. Ho cercato per anni di dare proprio questo colore stanco e malato alla voce di Violetta” (510-511).   

Callas - Pasolini

Colpisce, e profondamente, e non solo nelle lettere qui in causa, la enorme capacità di lavoro della Callas, la determinatezza di una preparazione solida, accurata, la ferrea costante volontà di ottenere quello cui aspira. Fino ai suoi ultimi mesi di vita si spende molto, disperatamente, “a lavorare sulla mia voce” (480) - malgrado le sofferenze fisiche che la affliggono. E nonostante sappia il proprio destino segnato: “Altrimenti continuerò semplicemente a vivere. Sono felice comunque” (484); “Penso di aver cantato già abbastanza nella mia vita” (485).    
Intense, del tutto condivisibili, le conclusioni: “Ho scritto le mie memorie. Sono nella musica che canto - l’unica lingua che conosco veramente. L’unico modo in cui posso parlare della mia arte e di me stessa. E le mie registrazioni, per quel che valgono, hanno preservato la mia storia” (524). E già nel 1949 a Meneghini aveva scritto: “L’unica mia arma è il canto” (138).

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Assolutamente da segnalare è infine Una voce venuta da un altro secolo di Teodoro Celli: uno scritto assai apprezzato dalla stessa Callas (v. ad es. p. 250). Celli è stato un musicologo privo di pregiudizi, refrattario a contrapposizioni irragionevoli (ma ciononostante imperanti) tipo quella tra Verdi e Wagner, tra il teatro musicale ottocentesco italiano e il Gesamtkunstwerk; tanto che gli dobbiamo un’ottima guida all’ascolto di L’Anello del Nibelungo (Rusconi 1983). Anche in questo fu consanguineo della Callas, attenta a Wagner, e cui dobbiamo interpretazioni di alto livello non solo di Norma e Medea, ma anche di Isolde, di Brunilde, di Kundry.
Il saggio di Celli è stato scritto nel 1958, ma è tuttora imprescindibile; quindi opportunamente è ripreso alle pp. 527-550. Il problema di fondo in esso è la individuazione delle voci delle cantanti d’opera, e in particolare della voce di Maria Callas, al di là della vieta tipologia in cui è stata irretita: essa non appartiene né ai soprani leggeri, né a quelli lirici, né a quelli drammatici; ha fatto propria “l’esigenza dell’individuazione psicologica dei personaggi”. Celli la definisce piuttosto “un soprano drammatico d’agilità” (533); e a questo proposito riprende il problema del belcanto: la Callas è certo più vicina a grandi interpreti di un lontano passato (che giunge fin verso la metà dell’Ottocento) quali Maria Malibran o Giuditta Pasta, che non a cantanti loro successive (soprattutto di intonazione verista), o a lei coeve. 
Celli distingue due differenti tipi di ascoltatore, e due modi di considerare il canto. Ci sono spettatori attenti soprattutto alle “belle voci”, al piacere “fisico” che inducono, agli acuti sparati come gol; costoro non colgono nel segno. Auspicabili per contro sono spettatori attenti allo spettacolo come “dramma realizzato per mezzo della musica”, per cui “una voce è bella soltanto quando sia compiutamente espressiva”, avendo beninteso i mezzi tecnici per farlo. Celli ricorda anche Stendhal, e aggiunge: “Persino una nota stridula (purché intonata esattamente) può servire efficacemente a raffigurare un particolare stato d’animo, di malvagità, di perversione”. “In realtà i grandi compositori di melodrammi furono tali appunto perché mirarono a realizzare il dramma mediante la musica, e non soltanto a scrivere della buona musica. E, naturalmente, desiderarono interpreti che non soltanto cantassero, ma che cantassero per realizzare il loro personaggio” (539). Così non fa giustizia a Bellini chi lo considera solo un “sublime creatore di melodie, ma un drammaturgo di scarso rilievo” (540). Anche nel cinema attrici molto belle non bastano: “la loro autentica bellezza consiste pur sempre nella loro attitudine all’espressione” (541). Del tutto appropriate sono dunque qui le citazioni da Verdi: quella stranota sulla Tadolini interprete di Lady Macbeth (non a caso Toscanini aveva scelto la Callas per questa parte); e questa sulla Malibran: “Grandissima ma non sempre uguale. Sublima talvolta e qualche volta barocca. Lo stile del suo canto non era purissimo, la voce stridula negli acuti. Malgrado tutto, artista grandissima, meravigliosa” (537).   

Callas - Pasolini
"Medea"

Particolarmente opportuno in questa ottica che un paragrafo sia dedicato al mondo poetico della Callas, che parte da Gluck e attraversa tutto l’Ottocento. “Maria Callas ha ridato al nostro melodramma romantico le sue vere eroine; per ciò certe sue interpretazioni rimangono memorabili” (543). E per questo resta “una grande, meravigliosa artista del canto, un’interprete di prodigiosa e commovente efficacia”.
Non è in gioco solo la “bravura” della cantante: “per le risonanze psicologiche che ogni elemento di quella tecnica assume, l’ascoltatore finisce col dimenticare addirittura tanta bravura, nel momento stesso in cui ne percepisce i risultati” (547). Tanto meno vi sono intenti di mera ricostruzione storico-filologica, anche se la Callas non manca di sensibilità filologica: “l’interpretazione è sempre un atto che impegna ogni sua risorsa vitale, e sottrae perciò questo canto al sospetto di una ricostruzione ‘a freddo’, archeologica, di un antico ‘stile’” (546). La sua arte interpretativa “non è soltanto ricostruzione del canto romantico ma ripensamento di esso, con moderna sensibilità” (549). Con una sensibilità cioè che lega il suo impegno professionale al senso che esso riveste per la sua intera personalità, alla sua singolare storia negli anni in cui visse - anni che sono stati anche nostri. “Forse, ascoltando tutto ciò che di mesto e di terribilmente nostalgico, di aggressivo e di disperato v’è in questa voce, si potrebbe giungere a concludere che non solo essa è mirabilmente atta a realizzare il dramma in musica; ma che essa stessa ‘contiene un dramma’” (549): il dramma di un mondo meno estinto di quanto si creda. E non solo, aggiungerei, “contiene un dramma”; ma cantandolo in esso prende posizione, ad esso risponde con accenti di accesa speranza, che danno senso alla sua vita, e a quella di chi tuttora la ascolta: per questo direi che una “tinta utopica” pervade la sua voce.  Perché altrimenti non pochi ancora nel canto della Callas si riconoscono, abbiano assistito alle sue rappresentazioni, o comunque abbiano continuato ad ascoltarla.
Trovo encomiabile il finale del saggio di Celli, in cui si riprende quanto Wagner ha scritto a proposito di Wilhelmine Schröder-Devrient: “A proposito di questa artista mi è stata spesso rivolta la domanda se la sua voce, poiché la celebrammo come cantante, fosse veramente eccezionale; intendendo con questa domanda che in fondo, la cosa essenziale sta appunto qui. Veramente provai sempre fastidio a rispondere perché mi ripugnava di vedere la grande artista tragica messa nello stesso ordine delle solite cantanti d’opera. Se oggi ancora qualcuno me lo chiedesse, gli darei press’a poco questa risposta: No, non aveva affatto ‘voce’. Ma sapeva trattare così bene il suo respiro ed effondere con esso, in una musicalità meravigliosa, una pura anima di donna, che non si pensava più né al canto né alla voce”. Con queste parole Teodoro Celli conclude il suo saggio; ma poche righe sopra aveva affermato che esse “espongono, in termini paradossali, una esperienza che l’arte di Maria Callas ci ha fatto tante e tante volte compiere” (550).

La copertina del libro

Maria Callas
Io, Maria. Lettere e memorie inedite
a cura e con Introduzione di Tom Volf,
Rizzoli, Milano, 2019, 
pp. 557, € 21.