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venerdì 27 marzo 2020

UN’ALTRA ROMA
di Petronilla Pacetti


Tempo fa ho scritto su questo giornale, un racconto su una passeggiata a Roma intriso della gioia del suo sole, della sua bellezza, della sua eternità; oggi è come se fossero passati secoli da quel momento: viviamo qui un attimo sì eterno, ma di angoscia, per un presente drammatico e un futuro ignoto e probabilmente oscuro. Dalla mia finestra vedo ogni giorno le stesse immagini di serenità, gli stessi scorci di tranquilla (e privilegiata) esistenza, ma raramente (ed è un bene, naturalmente) qualcuno si inserisce in questi fondali bellissimi e inanimati: una persona porta a spasso il cane, un'altra ritorna con la spesa, nessuno si ferma a parlare con un altro, una modalità che, invece, ha sempre caratterizzato la vita e i rapporti in questa città rendendola speciale nella quotidianità oltre che nella storia. Qui se si chiede un'indicazione stradale è probabile che ti rispondano: sali, ti porto io. O che, anche a piedi, ti accompagnino a destinazione per evitare che si possa sbagliare strada; con quel “tu” che con è mancanza di rispetto, ma solidarietà e senso di comune umanità e, se non fosse troppo azzardato, oserei direi di fratellanza. Tanti anni fa alcuni compagni d'università che venivano da altre parti d'Italia mi dicevano con stupore: qui il giornalaio chiacchiera con te quando vai da lui. Sì, vivere qui era piacevole e forse non sempre siamo stati consapevoli dei vantaggi e delle opportunità su cui abbiamo finora potuto contare; esistono infatti altre parti di Roma (oltre che del mondo) dove la vita è sempre stata meno facile e gradevole, quartieri dove la difficoltà divorano le energie e i desideri e dove si sente di più il disagio e la fatica di vivere. E di cui forse non ci siamo particolarmente preoccupati, perché impegnati a godere dei nostri privilegi di cui probabilmente solo ora alcuni diventano consapevoli, ora che li abbiamo persi e non sappiamo quando li ritroveremo. 


La nostra vita oggi, nel viziato ed egoista Occidente (dove pure si insediano sacche di povertà e disperazione che molti fingono di non vedere), un territorio non solo geografico, ma anche sociale, è profondamente cambiata; e, nonostante le resistenze di alcuni, tutto è diverso da ieri: sappiamo (o almeno dovremmo saperlo), che qualche nostro errore potrebbe aiutare il virus a trovare nuovi spazi di diffusione mettendo in grave difficoltà altre persone, più fragili e vulnerabili. E sottoponendo a prove troppo difficili un sistema sanitario intaccato da anni di tagli, di indifferenza e di interessi non rivolti alla salute delle persone. Una tragedia per una parte della popolazione che ha dovuto addirittura smettere di curarsi, perché il Servizio Sanitario Nazionale non è più quello che, nel 1978, portò a compimento uno straordinario percorso per il diritto alla salute di tutti (compreso l'ambito psichiatrico) e dunque per l'uguaglianza e la giustizia sociale; e di rispetto delle persone e dei loro bisogni, di umanizzazione dell'assistenza e di realizzazione non solo dell'art. 32, ma anche dell'art. 3 della Costituzione, senza il quale ogni conquista, per quanto importante, diventa vana. Quello fu, infatti, il periodo storico della grande presa di coscienza nei confronti della salute come bene sociale anche se l'impegno e la consapevolezza erano cominciati per alcuni molto tempo prima. Cambiò allora radicalmente il modo di vedere e di sentire l'uguaglianza nella salute che si esprime proprio attraverso la possibilità di accesso ai servizi e all'assistenza per tutti. 


Arrivarono poi i terribili anni Ottanta in cui verrà erosa, e nemmeno troppo lentamente, la coscienza collettiva del diritto di tutti alla salute fino a giungere, negli anni Novanta ad approcci organizzativi che, al di là dei presunti vantaggi sul piano dell'efficienza, hanno causato la perdita sociale di quella spinta ideale che aveva portato l'Italia ad avere il Servizio Sanitario migliore del mondo; con le sue straordinarie trasformazioni concettuali ed operative anche nella cultura della società e che oggi ritroviamo in qualche modo intatta nell'impegno degli operatori sanitari e di altri lavoratori che mettono quotidianamente a rischio la loro salute per tutti noi. Dunque non chiamiamo più sacrificio la necessità di stare a casa (se non per i bambini) e riserviamo questa parola per qualcosa che davvero meriti una simile definizione e la percezione di rispetto e ammirazione che comporta. Non parliamo di angoscia quando ogni giorno sentiamo scandire il numero delle vittime, persone dietro le quali c'è una famiglia, un dolore, una devastazione. E forse un giorno sapremo apprezzare di più quella vita privilegiata che la sorte ci ha offerto al posto di altri, senza che avessimo alcun merito o titolo speciale per ottenerla se non il fatto di essere nati in un certo contesto e in questa parte del mondo.