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giovedì 30 aprile 2020

IL VUOTO
di Angelo Gaccione


Chi è approdato almeno una volta sulla bella, armonica, Piazza del Conte Treccani degli Alfieri a Montichiari, e si è seduto ai tavolini di uno dei suoi caffè, godendo la vista della chiesa dell’Assunta (il Duomo) con la sua troneggiante cupola e il colle del Castello Bonoris con i suoi torrioni, in una bella giornata di sole, non può fare a meno di rimanere sgomento davanti alle foto che la ritraggono completamente vuota, in questi giorni tremendi di dolore e di lutto. È così ricca e così piena questa piazza, come ogni piazza italiana, da non osare neppure lontanamente immaginare che quello che con una locuzione latina chiamiamo horror vacui, potesse un giorno materializzarsi nelle nostre anime e divenire sentimento comune. Improvvisamente tutto questo pieno è diventato vuoto. Tutto il suo formidabile pieno fatto di simboli incantevoli e rassicuranti, di materia solidificata dentro uno spazio organizzato e ben disposto su una superficie, si è trasformato in una presenza muta e angosciante. Un vuoto incolmabile si è impadronito delle anime di quanti sono stati privati delle vite dei loro cari, e un vuoto atroce ha pervaso le nostre, osservando questa piazza in cui ogni presenza, ogni voce, ogni rumore, è stato cancellato. Ora sappiamo con incontrovertibile certezza, che il vuoto altro non è se non una sottrazione, una perdita umana irreparabile. Una perdita di vite, di presenze. Nessuna teoria di fisica quantistica, nessuna speculazione filosofica, può colmarlo questo vuoto incommensurabile, annichilente, che si è andato formando nelle nostre anime. È un vuoto esistenziale profondo, un vuoto che si è inciso nella parte più recondita della nostra esistenza e occorrerà molto tempo per elaborarlo.


Se privato di un occhio che lo legga ogni libro è muto, a maggior ragione lo sono un luogo, una piazza, una cattedrale, se privati del nostro sguardo, della nostra presenza. Quando tutto questo sarà finito e torneremo a riempirle di vita queste nostre belle piazze, - a resuscitare noi con loro - amiamole di più e rispettiamole; rispettiamole come parte inscindibili di noi, prendiamocene cura. E prendiamoci cura di un noi inteso come prossimo, come umanità fragile e vulnerabile, troppo spesso ripiegati come siamo, su un io divenuto ipertrofico ed egoista. Senza solidarietà non esiste umanità: teniamolo a mente, mentre ci prepariamo alla rinascita. Sarà stata proprio la solidarietà, l’abnegazione dei molti, a permettere ai nostri mille e mille corpi di riempire il vuoto di questa bellissima piazza, quando le campane dell’Assunta suoneranno a distesa per convocarci alla festa della vita ritrovata.  









CARISSIMI VESCOVI    
di Don Paolo Felice Steffano*


Pubblichiamo alcuni brani della lettera che don Paolo Steffano ha indirizzato ai vescovi italiani che avevano protestato per le restrizioni del Governo. In verità la questione è superata perché il papa ha detto la sua il giorno dopo, smentendo i vescovi. La situazione, come ben evidenzia don Paolo, è molto più seria, ed è facile sputare sentenze comodamente protetti nei lussuosi appartamenti vaticani e passeggiando nei lussureggianti giardini e nulla rischiando. In modo diverso si stanno comportando molti semplici preti, e più di un centinaio hanno perso la vita nel dare concretezza al proprio magistero tra le loro comunità. Si tratta di quella parte di Chiesa che non si è mai fermata e risparmiata. [A.G.]

Non posso tacere il mio disappunto che penso condiviso con tanti, per la vostra lettera. (…) Avete scritto che con sofferenza e senso di responsabilità avete accettato le limitazioni governative e fate appello all’esercizio della libertà di culto… ma siete italiani contemporanei o bibliotecari di un museo? ma sapete che periodo stiamo vivendo nei nostri quartieri? E poi andate a chiedere ai vescovi che vivono in un contesto vero il limite della propria libertà religiosa… Non scherziamo!
Per fortuna c’è un’altra parte. Quella che vive la propria fede dentro la storia del proprio popolo, che nutre la sua fede e i segni della grazia dentro l’incontro con il povero e la preghiera forte e convinta e non in una vita sacramentale staccata dalla vicinanza con chi è povero
Non è l’ira che mi muove, ma lo sdegno e la vergogna e guai a chi suscita scandalo! Rimando a molti interventi saggi e sapienti che in queste ore stanno facendo riflettere e invito tanti altre a fare la propria parte. Ognuno ha il suo modo di scrivere. Il mio è sempre troppo pungente e sarcastico. Ma tant’è. Il Signore ci ama così come siamo! Invito anche vescovi illuminati a dire la loro e a non rintanarsi nel mucchio. Ho la speranza che ce ne siano!
Di fronte a migliaia di morti, uomini e donne, tra cui più di 100 preti (e nessun vescovo!) di fronte allo spendersi di migliaia di volontari, categorie a rischio, parrocchie in prima linea, non è accettabile che il coro dei vescovi italiani possa scrivere di esigere che possa riprendere l’azione pastorale. Ma a che gioco giochiamo? Chi ha sospeso l’azione pastorale? Voi, non certo le comunità cristiane di base. 
Siete sempre così attenti ai cavilli quando scrivete, qualcuno scriva che avete sbagliato, almeno il secolo! Deve riprendere l’azione pastorale? Sono mesi che celebriamo la vita nei garage adibiti a distribuzione alimentare. Deve riprendere l’azione pastorale? In Quaresima e in Settimana Santa abbiamo cercato di coinvolgere, di spezzare il pane della liturgia viva nell’offerta della vita delle nostre famiglie. Deve riprendere l’azione pastorale? Abbiamo passato ore in call e in telefonate agli anziani, ai malati, a sostenere infermieri e medici. Deve riprendere l’azione pastorale? Abbiamo pregato nel silenzio delle nostre chiese vuote. Deve riprendere l’azione pastorale? Le nostre casse in queste settimane si sono riempite di donatori (anche di peccatori e di irregolari come dite voi) sapete perché? Perché ciò che viene deposto ai piedi dei discepoli viene consegnato ai poveri. Nessuno è bisognoso quando si è ricchi dentro! E poi siate almeno concreti! per la sanificazione? Venite voi? Pagate voi? Vi mettete voi alle porte della chiesa con lo scanner? (…) E ancora: avete pensato a come viene consegnato il dono dell’Eucarestia senza il rischio del contagio? Perché all’inizio della fase 2-3-4 non aprire le chiese e promuovere un ascolto comunitario delle scritture? Perché? O una preghiera popolare?  
Grazie papa Francesco! Ho l’ardire di pensare che tu non approvi. L’hai scritto così bene nell’Evangelii gaudium. Preghiamo per te e buon pranzo! ma tu prega per noi, perché non ci lasciamo rubare la chiesa da pastori tristi nostalgici e poco illuminati. Sta nascendo qualcosa di nuovo e ce ne stiamo accorgendo!

*Parroco a Baranzate, è stato vicario alla parrocchia di San Pio V e Santa Maria di Calvairate. Don Paolo, per il suo lavoro a Baranzate, è stato nominato Ufficiale all’ordine della Repubblica dal Presidente.




AL DI LÀ DEL TUNNEL

Lettere di Giuseppe De Rita, Reza Arabnia, Antonio Riva
A proposito dello scritto di Marco Vitale

 
Giuseppe De Rita
Caro Marco,
ho ricevuto il tuo messaggio di poche ore fa (14,28 di venerdì 17) e l’unito lungo appunto “Al di là del tunnel”. Non devo ricorrere all’amicizia ed alle antiche comuni ispirazioni culturali e religiose per dichiararti, con immediatezza, che è un pezzo straordinario: l’ho letto e riletto con attenzione e consonanza, mi ci ritrovo molto, ho addirittura deciso di “metterlo in casella” per farne partecipi coloro che lavorano qui al Censi.
Certo su 20 pagine se ne trovano alcune su cui possiamo avere sensazioni diverse. Io sono spesso, ad esempio, più vicino all’Heri dicebamus di Luigi Einaudi, essendo, come sai un “fottuto continuista”, fiducioso solo nei soggetti sociali quotidianamente operanti e non nelle nobili visioni di chi parte alla rincorsa intellettuale dell’Italia che verrà. Ma tutto lo spirito del testo mi trova consonante. Ed ammirato, devo dire, quando eserciti da parte tua l’esercizio del segmentare. Se non siamo capaci di imporre la verità di un sistema fatto di segmenti, saremo sempre prigionieri delle logiche totali, accentrate, stataliste. Lo abbiamo visto anche, e con evidenza disturbante, nel modo in cui abbiamo affrontato l’emergenza del coronavirus (ti invio l’ultimo testo che ho scritto al riguardo).
Spero quindi che sul tuo testo possa esserci una ampia discussione pubblica, puntando anche ad una intelligente segmentazione (territoriale e settoriale) della cosiddetta Fase 2. Nel frattempo mi è caro ringraziarti del colloquio che ha aperto con me e inviarti un memore affettuoso saluto.
Giuseppe De Rita
*Sociologo presidente Censis
[Roma, 17 aprile 2020]
 
Reza Arabnia
Carissimo Marco,

prima di tutto, mi fa gioia vederti così attivo anche se a casa. Spero tutto bene per te e tua moglie e i vostri cari.
Ti ringrazio davvero di cuore per considerarmi degno per ricevere i tuoi pensieri. Un bellissimo Essay!
Come mi hai chiesto, ecco qualche timido commento:
a) Il Titolo?
Il tunnel per noi Persiani è un percorso di resilienza. La luce che si vede in fondo, molte volte è causata dal fuoco non dal sole. Quando ti trovo lì, o ti paralizzi di paura e rimani fermo. O che ti dai da fare e lotti per uscire.
Non è detto che riuscirai. Ma una cosa è certa: che se ti fermi, non rimane niente di te se non la cenere. Un po’ di vento, neanche quella!
Invece se riuscirai a farcela, anche con qualche segno di bruciore, sarai temperato come l’acciaio. 
b) Grandi, Medie e Piccole imprese? 
Per me l’importanza di un’impresa non è in funzione del suo fatturato e tantomeno di quanti dipendenti ha ma è nel suo peso trascinante in economia. Mi piacerebbe che il governo/stato o/e un ente con il potere esecutivo, facesse uno studio serio e disinteressato per creare una lista di questo tipo di imprese. Una volta fatta questa lista, proteggerle in tutti sensi.
c) Il punto-2 del tuo pensiero è davvero perfetto.
d) Fiducia in governo?
Pur essendo un amico di Giuseppe Conte (era con me nel Board of Trustees di John Cabot University per più di dieci anni) e sapendo che è una persona distinta, seria, intelligente, onesta, e grande servitore dello Stato, non riesco a contare su quello che può fare il governo. 
A proposito, se hai il tempo e la voglia, prova a vedere su YouTube un mio intervento del 2014; Fatti. In Italia, Ali Reza Arabnia (dal terzo minuto e 50 secondi e per due minuti).
e) Sud?
Grande pericolo: le varie Mafie sono piene di contante e molte imprese assettate di quelli! Ecco perché il tuo pezzo sul Sud non è solo vero ma è anche fondamentale per difendere la sopravvivenza delle imprese.
f) Le tue ricette?
Concrete e attuabili. Certo richiederebbe: 1) un po’ di umiltà di accettarle, 2) un po’ di capacità di organizzazione, 3) un po’ di onestà nell’esecuzione.
g) Le tue conclusioni?
Perfette.
Spero di aver dato un nano contributo!
Sentiti libero, al di là del mio italiano imbarazzante, di condividere con chi ritieni opportuno. Un Caro Saluto, Reza
Reza Arabnia   
*Imprenditore, Group Chairman,
President & CEO Geico SpA In Alliance with Taikisha Ltd.
[Cinisello Balsamo (Milano), Mercoledì 8 aprile 2020]

 
Max Hamlet
"L'uomo che legge"
Caro Marco,

grazie per la lettera con le tue considerazioni per me molto condivisibili.
Sono particolarmente favorevole al bond per la Ricostruzione sottoscritto dalla ricchezza privata. Sarebbe un messaggio molto forte anche all’Europa facendo vedere che chiediamo aiuto ma ci mettiamo del nostro per ridurre finalmente il debito. Penso che dovremmo provare ad aggregare molte persone su una proposta finale da proporre in maniera estesa all’opinione pubblica.
Auguro a te e famiglia una serena Pasqua sperando di potervi rivedere... presto.
Un caro saluto
Antonio Riva
*Presidente di Fondazione Alberto e Franca Riva Onlus.
[Milano, Domenica 12 aprile 2020]







IL PENSIERO DEL GIORNO


“Imitando il dio Javeh vendicativo,
il potere esige ubbidienza e minaccia
crudele sentenza”
Livia Corona

mercoledì 29 aprile 2020

PONTI E SIMBOLISMO
di Paolo Maria Di Stefano


Il Ponte di Renzo Piano a Genova è una realtà.

Il carattere simbolico e archetipico proprio di tutti i ponti, reali o ideali, ha trovato (in questo secolo) la sua espressione più completa nelle parole di Martin Heidegger il quale, in uno scritto del 1954 dal titolo “Costruire abitare pensare”, afferma che “il ponte riunisce presso di sé, nel suo modo, terra e cielo, i divini e i mortali. Invero si pensa generalmente che il ponte sia anzitutto e propriamente solo un ponte. Solo per un senso aggiunto e occasionale potrebbe poi anche esprimere molteplici significati… Ma in realtà il ponte, se è un vero ponte, non è mai anzitutto un semplice ponte e poi, in un secondo tempo un simbolo. Né il ponte è fin da principio solo un simbolo, nel senso che esprima qualcosa che, in senso stretto, non gli appartiene… Il ponte è un edificio in grado di dare dimora al soggiornare dell’uomo” (Saggi e discorsi, Heidegger,1954, pag.102; pag.106.)
Con una annotazione conclusiva di estremo interesse da parte di Alessandra Di Stefano, architetto autrice della tesi che sto rileggendo: “Ritengo che sia inevitabile la sovrapposizione tra il concetto heideggeriano di luogo dell’abitare (…) e quello di luogo del costruire inteso come di una architettura capace di farsi espressione di una determinata cultura. L’operazione mentale, culturale e progettuale da compiere è quindi quella di recuperare la capacità di abitare così da poter costruire: la forte carica simbolica del ponte, il suo essere un segno e un archetipo universalmente condiviso fin dai tempi più antichi può indubbiamente aiutare i progettisti in questa difficile operazione. Il ponte sembra infatti aver mantenuto, grazie al suo simbolismo ed alla sua universalità, un legame molto stretto con il costruire e con l’abitare di Heidegger, ed è forse l’unico tema progettuale che ha conservato nella sua stessa essenza il ‘poetare’ l’originario ‘far abitare’ (Heidegger, op. cit., traduzione italiana 1976, pag. 136).”
Una data storica per Genova, per l’Italia, per l’Europa: poche ore orsono, in fondo, il cantiere ha posto in quota l’ultimo elemento del nuovo ponte di Renzo Piano e la città è di nuovo unita e tutta percorribile. Pare impossibile, ma ora non restano che i dettagli (si fa per dire) destinati a renderlo percorribile e dunque anche economicamente e praticamente utile.

Il ponte sul Polcevera di Renzo Piano

E naturalmente è subito stato un coro di apprezzamenti, e tutti abbiamo fatto a gara per esprimerli con una gioia soltanto limitata dal ricordo della tragedia che ha accompagnato il crollo di quel Ponte Morandi in fondo almeno esteticamente apprezzabile. Tutte cose dette da tutti e accompagnate dalla speranza - quasi una consapevolezza - che almeno per una volta la burocrazia, la corruzione e il malaffare se anche avessero remato contro (tanto per non perdere l’occasione) non avrebbero ottenuto effetti dannosi più che tanto, anche per questo rafforzando la speranza di un futuro persino eticamente corretto. E forse non soltanto per questo ponte, che Renzo Piano ha voluto sinteticamente funzionale. E proprio nel nome di Renzo Piano, architetto ammirato incondizionatamente da Alessandra Di Stefano - che sognava si lavorare con lui - che sono andato a rileggere la tesi che ha dato alla giovane la lode nell’ormai lontano 1996 e che si conclude con un passaggio, allora, per me oscuro, oggi di una chiarezza esemplare.
Con un vantaggio: poter parlare dell’evento del 28 aprile con argomenti in qualche modo diversi da quelli utilizzati dai tanti commentatori, più colti e certamente meglio tecnicamente preparati di me.
Ecco: Genova e Renzo Piano hanno costruito una “abitazione” che, quando sarà completata, ospiterà non soltanto la cultura di una regione, mostrandola per quello che è stata e per ciò che sarà, ma anche per lo spirito del “lavorare assieme” per costruire un ambiente, un mondo, una qualità di vita migliore.

LA CENTRALITÀ DEL PARLAMENTO
di Franco Astengo


Il senso dell’iniziativa e della partecipazione politica nel tempo dell’emergenza.  

Dell’accavallarsi delle diverse fasi dell’emergenza si potrebbe dire che “la confusione sotto il cielo è grande, ma la situazione non è eccellente”.
Nel drammatico frangente che stiamo attraversando la prova del governo italiano, in particolare del suo presidente del consiglio, è risultata nel complesso, senza calcare troppo la mano nel giudizio, assolutamente mediocre. Sono emersi punti critici molto rilevanti nell’insieme della tenuta del sistema politico. Prima di tutto si può affermare come la questione dell’esercizio della democrazia costituzionale si si sia dimostrata la più complicata da affrontare. Complessivamente si sono dimostrate nell’agire pubblico sciatteria e trascuratezza.
Si è palesata in questi giorni una classe dirigente posta, sul piano culturale e politico, molto al di sotto delle esigenze dell’ora: sia al centro, sia in periferia, come in posizione di maggioranza o di opposizione nelle diverse strutture istituzionali. Inoltre a tutti i livelli si sono aggiunte pletore di presunti esperti raccolti in improbabili task-force.
Esperti per lo più televisivamente famelici, che hanno contribuito a creare quello stato di confusione cui si è fatto cenno.
Si è resa evidente, guardando alle divisioni createsi ad ogni scelta compiuta, la pressione dalle lobbies più diverse al riguardo delle quali è mancata, in molte occasioni, una risposta ordinata e precisa. Si sono confusi decreti della presidenza del Consiglio dei ministri (uno strumento che penso andrà rivisto in radice), ordinanze dei presidenti di regione (incautamente appellati dai media come “governatori”, figura che non esiste nell’articolato costituzionale), ordinanze dei sindaci. È mancato, all’origine, un atto del Parlamento il cui ruolo di centralità dettato, appunto, dalla Costituzione è stato del tutto calpestato: se si pensa che, alla vigilia del vertice europeo, il Presidente del Consiglio si è recato alle Camere per una “informativa” che ha escluso la possibilità di un voto su una qualche risoluzione che fornisse al Governo stesso un preciso indirizzo parlamentare su temi che non possono essere affidati alla contingenza dell’opportunismo elettoralistico.
L’atto del Parlamento che avrebbe potuto essere adottato in principio, al momento della proclamazione dello stato di emergenza, poteva essere costituito da un articolato legislativo nel quale risultassero fissati:
a) i termini concreti di agibilità concesso al Governo nello straordinario momento contingente; b) le modalità delle necessarie espressioni di trasparenza nei rapporti con la comunità scientifica; c) la necessità di un periodico riferimento alle Camere sul modificarsi dello stato di cose presenti; d) la regolamentazione nell’utilizzo - in via straordinaria - dei mezzi di comunicazione pubblica per rivolgersi al Paese (radio e TV); e) una definizione precisa degli atti da compiere.
Grafica di Giuseppe Denti

Un lavoro, quello dell’elaborazione di un articolato legislativo da redigersi in termini di necessaria flessibilità d’esposizione ma chiaro e legittimante “a priori” dell’esercizio della funzione di governo delle condizioni di straordinarietà.
La legge 400/88 indica dettagliatamente le attribuzioni del Consiglio dei ministri.
Il Governo può esercitare la funzione legislativa in due ipotesi previste e disciplinate in modo tassativo dalla Costituzione quando:
il Parlamento stesso conferisce al Governo - con un'apposita legge di delega, secondo principi e criteri predeterminati e per un tempo definito - il compito di provvedere ad emanare decreti legislativi aventi forza di legge;
può adottare, autonomamente e sotto la sua responsabilità, decreti-legge per fronteggiare situazioni impreviste e che richiedono un intervento legislativo immediato. In questo caso, il Parlamento si riserva, nei sessanta giorni successivi, di convertire in legge, anche con modifiche, il decreto. In caso contrario, il decreto-legge decade.
Nella straordinarietà della situazione l’emanazione da parte del Parlamento di una sorta di “legge-quadro” del tipo di quella che si è cercato di descrivere in questa sede avrebbe consentito poi a tutti gli altri atti assunti via via di rispettare l’insieme del quadro dettato dalla norma costituzionale.


I punti di maggiore fragilità del sistema possono comunque essere così riassunti:
1) È emerso il vuoto di una visione “nazionale” della funzione politica di governo. Funzione “nazionale” che risulta assente soprattutto nel rapporto “centro-periferia”. Governo versus Regioni (assente il parlamento), Regioni versus Comuni. Incertezza nelle attribuzioni, scelte compiute esclusivamente in funzione della propaganda;
2) Ben oltre le evidenti lacune presenti dopo le modifiche effettuate nel 2001 nell’articolato del Titolo V della Costituzione sono apparsi di enorme detrimento per la funzionalità dell’azione politico-amministrativa i meccanismi di elezione diretta dei Presidenti di Regione e dei Sindaci. Questo punto rappresenta un elemento di necessaria riflessione per il futuro. Lo spostamento delle decisionalità nell’ambito della pura personalizzazione finisce con esaltare l’ansia di rielezione e mette la macchina amministrativa in funzione di quell’obiettivo provocando una rincorsa affannosa e contraddittoria nell’elaborazione della normativa. Ansia da prestazione che è risultata alla base della evidente contraddittorietà delle decisioni via via assunte e della dimostrazione di divergenza di interessi spiccioli tra i diversi protagonisti. Divergenze poste ben al di là delle difformi appartenenze politiche. Su questo punto andrebbe aperto un capitolo riguardante ruolo e compiti dei consessi elettivi e della loro funzione di controllo e sulla realtà oggi rappresentata dai partiti politici considerati nella loro possibilità di promuovere le scelte riguardanti la classe dirigente. Scelte che, alla fine, dovrebbero compiere elettrici ed elettori e che a loro sono sottratte ormai da molto tempo;
3) Si è resa evidente la totale insufficienza nell’utilizzo dell’online allo scopo di promuovere una necessaria continuità nell’iniziativa e nella partecipazione politica sul territorio. Qualcuno ha notato che nella discussione in atto in queste ore sulla possibilità di frequentare i luoghi di culto piuttosto che i teatri oppure le mostre risulta completamente assente un discorso riguardante lo svolgimento (un tempo “normale”) di attività politiche e culturali in sedi proprie? O si pensa forse di delegare il tutto alle videoconferenze causando un ulteriore restringimento nelle possibilità di partecipazione attraverso una ulteriore scrematura provocata da un particolare aspetto del “digital divide”? In questo senso appare di grande attualità il dibattito che qualcuno ha già opportunamente aperto sulle, fin qui inevase, modalità di applicazione dell’articolo 49 della Costituzione circa l’esercizio della democrazia all’interno dei partiti politici. Democrazia sarà necessario impedire che in futuro venga esercitata soltanto attraverso i “click” oppure i “like” apposti sulle pagine dei “social”.

Nel complesso sono comparsi tutti i fantasmi della negatività accumulata nella trasformazione verificatasi nell’espressione dell’agire politico seguendo gli impulsi dell’individualismo, della distruzione della possibilità di intervento collettivo, di destinazione della democrazia esclusivamente nel senso della governabilità.
L’insieme delle questioni che ha portato all’egemonia dell’estetica sull’etica.
In pratica stiamo assistendo all’esercizio di una “Costituzione Materiale” di stampo presidenzialista che il Paese ha rifiutato due volte, nel 2006 e nel 2016, con due voti popolari a larga maggioranza che confermarono la vocazione parlamentare della Repubblica come stabilito dai Padri Costituenti.
Nell’immediato futuro e non oltre sarà necessario si sviluppi un forte movimento politico per reclamare un necessario ritorno alla legalità repubblicana e alla possibilità di esercizio concreto della democrazia al Centro come in periferia.
Dobbiamo tornare a poter favorire l’associazione di tutti i cittadini al di fuori dalla creazione di “élite” surrettiziamente emerse attraverso l’utilizzo di strumenti di comunicazione fondati sull’immagine e sulla velocità di un messaggio lanciato esclusivamente dalla tecnologia, senza il contatto diretto nel confronto delle opinioni.
Si tratta del tema complessivo dell’intermediazione politica e sociale, che comprende anche la funzione dei sindacati, delle grandi associazioni di categoria, di tutti i soggetti che concorrono sul piano dell’orientamento culturale dell’opinione pubblica: abbiamo visto come non possa essere trascurata la presenza di soggettività collettive riguardanti diverse posizioni ideali e anche contrastanti interessi materiali.
Non può assolutamente risultare sufficiente la determinazione dell’alto di misure che per essere applicate hanno necessità di essere discusse in un lavoro di orientamento e di aggregazione.
Qualsiasi misura popolare o impopolare può risultare efficace soltanto in una situazione sociale e politica nella quale gli equilibri non siamo determinati esclusivamente dalla paura.
È molto breve il passaggio dal predominio della paura allo Stato di Polizia
I TRENI CHE TARDANO GIÀ IN PARTENZA
di Mihal Ramač


Ivan è arrivato con due borse e una chitarra. Era indignato nei confronti dei soldati, si vergognava dell’impotenza dei propri connazionali, era amareggiato per aver dovuto lasciare la propria patria. Era convinto che il comunismo sarebbe scoppiato come un pallone. A me e ai miei coetanei interessavano solo i bagni, il calcio e i balli. Va bene, anche accarezzare le ragazze. Sapevamo che l’estate precedente si era molto parlato dei russi e dei cecoslovacchi, non ci preoccupavamo però come si preoccupavano gli adulti. Non volevamo saper nulla di qualsivoglia comunismo. Ivan era solo di qualche anno più vecchio, aveva terminato il secondo anno dell’Università ma era immerso nella politica fino al collo. Ogni sera ci raccontava di quanto gli si era gonfiato il petto la scorsa primavera e di come aveva trovato ributtante l’arrivo dei carri armati sulla passeggiata cittadina. Poi prendeva la chitarra e cantava le canzoni proibite dopo l’arrivo dei russi. Con quelle canzoni e con il suo atteggiamento da focoso anticomunista, conquistava il cuore delle ragazze più facilmente di noi.
Sono passati vent’anni da quell’estate. Ivan se n’era andato alcuni mesi dopo il suo arrivo. Mi ha lasciato la chitarra. Si è fatto vivo da Roma, poi da Monaco di Baviera. Spesso penso a lui quando sono seduto sul treno che va verso nord. In quei treni, la cosa più importante è tenere al sicuro il passaporto, i soldi e il biglietto di ritorno. Su quei treni ho conosciuto un infinito numero di personaggi che nessuna letteratura socialista è mai riuscita a creare, anche se sono i figli legittimi del socialismo reale. Non hanno studiato scienze economiche, eppure conoscono esattamente i difetti delle politiche economiche dei propri paesi e di quelli limitrofi. Non hanno studiato giornalistica, eppure sanno che i giornali nei loro paesi sono utili solo per accendere il fuoco e per avvolgere le uova. Non hanno letto gli articoli di fondo e non hanno dato neppure un’occhiata al listino dei cambi valute. Anche senza questo, però, sanno infallibilmente il valore del dollaro nei confronti dello zlot. Senza calcolatrice, cambiano i fiorini in corone e i lei in dinari. Ogni denaro è utile se si spende in maniera intelligente. Non seguono i resoconti di borsa, ma sanno sempre e con esattezza che cosa bisogna procurarsi dall’altra parte della frontiera per rivenderlo e guadagnarci da quest’altra parte. Non hanno studiato Diritto, ma sanno che il Diritto è sempre dalla parte dei più forti. Per questo hanno imparato a superare in astuzia quelli che sanno di non poter in alcun modo vincere in politica. A differenza dei loro Stati, sono sempre in attivo quando vendono e quando comprano. Non si dichiarano internazionalisti, anche se si sentono perfettamente a casa in tutti i mercati del mondo, dove colmano le mancanze delle economie socialiste, che sono sempre esemplari e perfette, ma solo sulla carta.
Il libero mercato si manifesta soprattutto lì dove l’economia pianificata non lascia libertà. I passeggeri dei treni strapieni che vanno dal Baltico al Mediterraneo sanno che i loro politici mentono appena aprono bocca. Conoscono l’antica regola per cui non sarà certo chi l’ha distrutta a rimettere a posto l’economia domestica. Sanno che la casa non si salva dalla distruzione semplicemente ridipingendone la facciata. Non si preoccupano troppo della politica, non sanno quanto dureranno gli Stati fondati sulle menzogne, ma sanno che devono darsi da fare se vogliono sopravvivere. Per questo, riempiono le borse di tutto cià che possono comprare, si stipano sui treni, risolvono i numerosi problemi che i poliziotti di frontiera danno loro e alla fine trasformano la roba trasportata in denaro. Con quei soldi comprano altra roba, preziosa e ricercata nei posti di provenienza. Dadi per il brodo, vestiti e calze, abiti per bambini, porcellana e cristalli, stoffe, cotone e lana, attrezzi per tutti i mestieri, tester e chiavi inglesi, rotoli di cavi, materiale elettrico, scaffali, candele di automobili, spine e interruttori, pezzi di ricambio per automobili e biciclette, magnetofoni e giacche di pelle, tessuti ricamati e centrini di pizzo, pentole e padelle, binocoli e compassi, fornelli elettrici, camicie e stivali militari, asciugamani, medicine, vernici e tempere, profumi per ogni gusto e portafoglio, cioccolate e vodka, tende e tappeti, spumanti, conserve, quadri senza cornici e cornici d’oro... Tutto al prezzo di uno o pochissimi spiccioli.
Nelle stazioni o nei parchi vicino, nelle vie centrali o periferiche, davanti agli stadi, nei passaggi sotterranei, ovunque ci sia un posto utile, il mercato nero corregge gli errori che il grande Lenin e il suo allievo Stalin hanno creato nel sistema. Un centinaio di persone più coraggiose e intraprendenti della maggioranza dei propri conterranei crepano di caldo o di freddo sui treni che si scuotono fino all’inverosimile, tollerano la puzza e la polvere, i ladri, i poliziotti e i doganieri, portano con sé borsette e attaccano pacchi di soldi sotto l’ascella o alla cintura, nascondono catenine d’oro nelle calze o nelle mutande, mangiano kifle, burek e pastette, mercanteggiano e litigano, arrivano a destinazione, tornano a casa e finalmente tirano un sospiro di sollievo: ancora una volta sono riusciti ad aver ragione dell’onnipresente vita mostruosa a cui la vita nel bisogno e nell’obbedienza li ha costretti. Non appena si riposano e si riprendono, partono per una nuova avventura. Chi non vuole rischiare, rimane nella propria povera casa, si lamenta e li invidia. E aspetta che lo Stato gli offra ciò che gli serve. A ciascuno secondo il proprio bisogno, come è scritto nei manuali.


Gli Stati socialisti-modello con i loro Politburo, i comitati centrali, le accademie della scienza e i vari istituti, con migliaia di scienziati pagati profumatamente e pluripremiati, professori e propagandisti, non sono neanche lontanamente lucidi ed efficienti come i loro cittadini. Non si sono ricordati di produrre o di importare quello che è necessario. Non si sono ricordati che le dame di tutti i paesi vogliono vestiti decenti e belli, che tutti gli artigiani del mondo hanno bisogno di smerigliatrici e trapani... che il mondo cambia continuamente e non ci sono frontiere ed eserciti che possano fermare il tempo.
Ho cercato di spiegare tutto questo a un ragazzo dell’Ohio sul treno Budapest-Praga in una notte di maggio, 12 anni dopo la Primavera di Praga. Grazie ai libri, lui conosceva molto più di me i sistemi politici ed economici al di là della cortina di ferro. Non aveva però mai visto la follia con i propri occhi. Non aveva mai visto i vagoni di seconda classe da cui per poco non cadono fuori le persone esauste, che da giorni non si lavano, e le valigie, e i pacchetti. Non ha mai venduto di contrabbando nemmeno una penna biro. Non riusciva a capire perché i poliziotti alla frontiera lo interrogavano e lo controllavano come se fosse sospetto. I suoi appunti sembravano più pericolosi dei pacchi di 30 kg pieni di chissà quali merci. Lo mandava fuori di testa ciò che in questa parte del mondo è normale.
A me hanno chiesto solamente dove andassi e che cosa ci fosse nella piccola borraccia che stava sul tavolino. Con un sorriso hanno declinato il mio gentile invito a favorire. Andavo a Praga a seguire, per poi farne un resoconto, la visita del Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia alla Repubblica Socialista della Cecoslovacchia. Allora avevo già ben capito perché Ivan se ne fosse andato dalla propria patria, dopo aver messo in due valigie tutto ciò che era necessario per cominciare una nuova vita nel mondo libero.
Ho scritto con un linguaggio sterile il mio articolo nelle sale del quartiere di Hradčany perché potevo esclusivamente riportare quello che dicevano i due capi di governo e i loro collaboratori. Non era ancora tempo - solo due anni fa - di scrivere che al socialismo di quelle parti non restava che scoppiare come fosse un palloncino. I treni del contrabbando che partono già in ritardo e i mercati dell’Europa dell’Est erano la più viva testimonianza che una storia stava per finire. (1989)

PS: Ivan dell’inizio della storia vive oggi nella sua patria libera con una pensione tedesca. La maggior parte dei suoi coetanei ha pensioni ceche, ma in ogni caso europee. I miei coetanei e io - che un tempo compativamo coloro che venivano dai paesi comunisti, e qualche volta li insultavamo anche - adesso siamo da compatire. Ora è il nostro paese a trovarsi dietro la cortina di ferro, e tutto quello che da qui si potrebbe vendere di contrabbando è già stato venduto.
[Da “Zov Vedrih Vidika”, Mediterran Publishing, Novi Sad. Trad. it. di Christian Eccher]

La fiaba
USIGNOLO D’ORO
di Laura Margherita Volante


Usignolo D’oro era chiamato così, perché alla nascita i suoi genitori notarono un piccolo cuore d’oro dipinto sul petto. Era sempre contento rallegrando l’aria col suo canto dolce e armonioso. Un giorno vide formica Previdenza in difficoltà, mentre spingeva una briciola di pane per il suo magazzino. Usignolo D’oro subito accorse in suo aiuto, e con il becco prese la briciola con delicatezza portandogliela vicino alla sua tana. Previdenza lo ringraziò per la sua onestà e generosità d’animo. Usignolo D’oro volò felice cinguettando una bella melodia. Ad un certo punto vide un cucciolo di lupo, solo senza la sua mamma. Usignolo D’oro si avvicinò e “Ti sei perso?”, gli chiese “Come ti chiami?”. Il lupetto tutto tremante “Mi chiamo Nerino, ora la mamma mi starà cercando disperata!”, rispose accorato. “Vieni con me, mentre volo dall’alto posso vedere dove si trova la tua mamma”, lo rassicurò. Infatti, volando sopra gli alberi del bosco, senza perdere di vista Nerino, vide una lupa. “Come si chiama tua mamma? gridò. “Il suo nome è Luparossa per il pelo rosso del manto”, di rimando rispose Nerino. Usignolo D’oro allora si diresse dalla lupa, che in effetti aveva un folto pelo rossastro. “Sei tu Luparossa?”, le chiese. “Sì, sono io!”, “Ho trovato il tuo cucciolo Nerino disperso nel bosco, seguimi!”. Poco dopo mamma lupa e lupetto si leccarono felici. “Grazie Usignolo, hai proprio un cuore d’oro”, esclamò Luparossa contenta di aver ritrovato il suo lupacchiotto.
Un giorno Usignolo D’oro cadde da un ramo, mentre furtivo gatto Selvaggio stava per afferrarlo, con l’intenzione di farsene un prelibato bocconcino. Luparossa, che per caso passava di lì, si accorse del pericolo e con balzo repentino saltò addosso a Selvaggio, che impaurito se la diede a zampe levate, sgattaiolando dalle grinfie della lupa. Formica Previdenza, intanto venuta a conoscenza della cosa, con le amiche del Formicaio, portò a Usignolo per confortarlo tante bricioline e vermicini. Usignolo D’oro ber rifocillato si riprese dallo spavento e così rasserenato iniziò a cantare una dolce serenata alla sua bella usignola Beccuccia Di Rosa. Tutti gli abitanti del bosco, alle prime ombre della sera, si addormentarono tranquilli alle note melodiose di Usignolo D’oro.
La gratitudine è delle persone che non dimenticano il bene ricevuto.   



PRIMO FESTIVAL DELLA POESIA CITTÀ DI PIOLTELLO
“Regala Una Poesia Alla Tua Città”



REGOLE DI PARTECIPAZIONE E PREMIAZIONE

Si può partecipare esclusivamente con opere inedite. Il Premio è articolato in cinque sezioni identificate dalle lettere dell’alfabeto. Il partecipante può prendere parte a una o più sezioni.

SEZIONE A – POESIA IN ITALIANO: Si partecipa con una poesia inedita in lingua italiana a tema libero in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi).

La sede del Comune

SEZIONE B – POESIA IN DIALETTO: Si partecipa con una poesia inedita in dialetto a tema libero in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi). Le opere dovranno avere ben indicato il riferimento al tipo di dialetto o di zona nel quale è parlato e si dovrà allegare obbligatoriamente la traduzione dell’opera in lingua italiana. 

SEZIONE C – POESIA PER BAMBINI E RAGAZZI: Si partecipa con una poesia inedita a tema libero in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi). Si considerano facenti parte di questa sezione tutte le opere scritte da bambini e ragazzi che alla data d’invio della partecipazione frequentano le scuole elementari e medie.
 
La Stazione ferroviaria

SEZIONE D – POESIA DEDICATA A PIOLTELLO: Si partecipa con una poesia inedita dedicata alla città di Pioltello in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi).

SEZIONE E – MUSICA E POESIA: Si partecipa con un testo inedito a tema libero che può essere musicato (Es. Rap, Trap, Cantautoriale, Rock e altro) inviato solo con una delle due possibilità: 1) caricandola sul sito online YouTube e fornendo nella mail di partecipazione, oltre al testo dell’opera, il link del video. In questo caso l’utente non deve assolutamente apportare modifiche al video né cambi di URL per tutta la durata di svolgimento del premio, pena la squalifica; 2) allegando oltre al testo dell’opera, un file audio o video (soli formati .mp3, .avi, .mp4, .wmv) mediante il sito di trasferimento dati gratuito WeTransfer. Non verranno considerati validi altri sistemi di trasmissione delle opere. Non dovranno essere mandati video nei quali siano impiegate canzoni, basi e melodie d’accompagnamento che siano brani tutelati/iscritti alla SIAE. Nella scheda di partecipazione l’autore deve dichiarare di avere utilizzato per la produzione del video materiali (foto, video, musiche) propri o di dominio pubblico o, laddove siano opere di terzi, di aver ottenuto le necessarie liberatorie per l’utilizzo, sollevando il Comune di Pioltello da qualsivoglia responsabilità.

La chiesa di Sant'Andrea

La scadenza di invio dei materiali (opere, scheda di iscrizione compilata) è fissata al 30 giugno 2020. I materiali dovranno pervenire in forma digitale (per le opere esclusivamente in formato doc) alla mail protocollo@cert.comune.pioltello.mi.it indicando come oggetto 
“Primo Festival della Poesia - Regala Una Poesia Alla Tua Città”.

Il Comune si riserva di utilizzare i testi delle poesie, senza nulla avere a pretendere da parte degli autori, per pubblicazioni, inserimento su sito internet del Comune di Pioltello, su riviste e giornali per letture pubbliche. Resta inteso che i diritti delle opere rimarranno di esclusiva proprietà degli autori.

Il Mulino

La Commissione di Giuria sarà costituita da esponenti del mondo culturale di Pioltello e non solo. Il giudizio della Giuria è definitivo e insindacabile.

Per ciascuna sezione saranno assegnati tre premi da podio: 1° Premio: euro 300,00; 2° Premio: euro 200,00; 3° Premio: euro 100,00.
La Giuria potrà proporre ulteriori premi, indicati quali “Menzione d’onore”, ad altrettante opere meritorie non rientrate nei premi da podio ed eventuali Premi Speciali.

Un angolo del centro storico
Il responso della Giuria si conoscerà nel mese di ottobre 2020. A tutti i partecipanti verrà inviato il verbale di Giuria a mezzo e-mail.

La cerimonia di premiazione si terrà a Pioltello (MI) il giorno 30 novembre 2020, in occasione della festa di Sant’Andrea, Santo Patrono della città.  A tutti i partecipanti verranno fornite con preavviso le informazioni inerenti luogo e ora della premiazione.

martedì 28 aprile 2020

Libri
IL VUOTO
di Angelo Gaccione

Veduta della bella piazza Treccani
di Montichiari con il Duomo

Il coronavirus ha già la sua “letteratura”. Nel giro di pochi mesi, da quando il mondo ha preso coscienza della tragedia della pandemia che lo ha investito, e della consapevolezza della sua vulnerabilità, non c’è stata forma espressiva che non si sia interrogata con i suoi strumenti, sui numerosi risvolti – non solo medico-scientifici – di un evento così epocale e catastrofico che ha messo in ginocchio le economie, separato le persone, annientato la vita sociale, e fatto il vuoto nelle nostre città. “Odissea” è stato fra i primi organi di stampa ad interrogarsi, attraverso un questionario, sugli insegnamenti di questa tragica esperienza; ad aprire un dibattito con economisti, filosofi, scrittori, manager, virologi, medici, sociologi, psicologi, giuristi e semplici lettori; a pubblicare poesie, immagini, opere grafiche e pittoriche, disegni e favole illustrate. Sono stato il primo scrittore a concepire e pubblicare una fiaba sul coronavirus dedicata ai bambini, segregati da mesi come noi adulti, e privati dei contatti più necessari. A farne un racconto video-vocale casalingo da veicolare attraverso gli strumenti che la Rete mette a disposizione.

La piazza di notte

Video delle nostre meravigliose città svuotate, ne ho ricevuti diversi in questo periodo: Bergamo, Roma, Milano… La loro silente immota bellezza, faceva da contrappunto al silenzio attonito che la morte portava negli ospedali e nelle case; al requiem dei motori dei camion militari carichi di bare che si avviavano mesti verso i forni crematori. Vuoto: un monosillabo che non era mai suonato così sinistro ed inquietante alle nostre orecchie; capace di evocare un gelido svuotamento di vite e, insieme, una voragine psicologica ed esistenziale.
Intorno a questo monosillabo il fotografo Basilio Rodella, coadiuvato da due giornalisti: Federico Migliorati e Marzia Borzi, ha costruito il suo racconto per immagini dedicato alla città di Montichiari. Immagini che da sole sarebbero bastate a fissare nel tempo la testimonianza di questa dolorosa primavera, ma che gli ideatori del volume hanno voluto arricchire di parole, di riflessioni, di richiami storici, di testimonianze, di versi. 

Montichiari deserta

Di versi, già: perché non c’è nulla che come dei buoni versi ci sappia restituire ciò che l’occhio guarda paralizzato e la nostra anima sente: “Spettrale, la città muta s’addormenta. I miei passi hanno l’eco di tutte le assenze del mondo” (Federico Migliorati). E quella fu una primavera strana, fatta di vuoti e di silenzi. Una primavera dove tutto ciò che fioriva sembrava sublimare l’attesa. Pareva farsi poesia. E il paesaggio amato si scioglieva in un fermo immagine che scavava dentro. Ed era dentro, non fuori, il posto in cui cresceva l’infinito” (Marzia Borzi).
Il vuoto. Coronavirus, un male che ha sconvolto la Comunità, è un libro che vuole essere testimonianza di una tragedia, ma nello stesso tempo, profondo atto d’amore per la propria città, per la propria comunità. Sono le voci di alcuni figli di Montichiari che parlano in queste 156 pagine, mescolate alle voci di altri che di Montichiari non sono. In questo coro dolente c’è anche la mia.

La copertina del libro

Il vuoto
Coronavirus.
Un male che ha sconvolto la comunità.
A cura di Basilio Rodella, Federico Migliorati, Marzia Borzi
Ed. BAMS, 2020
Pagg. 156 € 15,00