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lunedì 8 giugno 2020

INCONTRI
Gabriele Scaramuzza conversa con Stefano Raimondi

Stefano Raimondi
È uscita da poco l’ultima raccolta di poesie di Stefano Raimondi, Il sogno di Giuseppe, come n. 7 della collana “A27 poesia”, Amos Edizioni 2019. Fa piacere leggere queste poesie, innescano la voglia di rifletterne tra sé, di parlarne con altri, con l’autore in primis in questo caso - avere per interlocutore l’autore non capita spesso. Sorgono domande, si cercano risposte, questo già di per sé testimonia non solo di una rispondenza, e insieme di una ricerca del senso-per-noi di quanto si legge. Chi poi non è specialista di poesie si pone anche problemi più ampi, cui lo induce il mondo culturale in cui è cresciuto.
E innanzitutto: perché nascono esigenze di parlare, di scrivere? Ci sono sempre state, quella che si chiama “critica” ha radici in una storia secolare. E tuttavia ci si può chieder come mai. Davvero è necessario “interpretare” le poesie? Non è tanto più vivo e “vero” leggere le poesie in carne ed ossa? Non parlano esse da sole? Richard Wagner, interrogato circa l’enigmatico finale del “Crepuscolo degli Dei”, richiesto di scegliere tra opposte interpretazioni, di “chiarire” dunque il senso di quel sublime motivo su cui cala la scena, semplicemente risponde: “sarà la musica a decidere”. In modo analogo direi: lasciatevi andare alla lettura delle poesie, fatevi assorbire dalla loro musicalità, dal ritmo delle loro immagini. Troverete lì ogni risposta. Porsi domande, tradurre in altri termini dei versi non sottintende che le poesie non bastino a sé? che manchino di qualcosa e per questo abbiamo bisogno di supporti loro esterni? Chiarire  non implica che qualcosa sia oscuro? Sono ipotesi difficilmente condivisibili, eppure ricorrenti nella nostra cultura.   
Da sempre si “dice” delle poesie; potrà infastidire, risultare ridondante, ma anche nascere da un’intima necessità. Sempre testimonia di una vita (lunga o breve che sia) delle poesie oltre se stesse, nella “conversazione” tendenzialmente “infinita” (parafrasando Blanchot) che esse sollecitano. Non sta in questo forse (spingendo ai limiti il discorso) la “classicità” di vertici inarrivabili quali Sofocle e di Dante, il loro “incanto eterno”: la loro “immortalità” cioè, il loro sopravvivere alle circostanze in cui si sono prodotti?  
Chi parla di una poesia dovrà essere conscio dei propri limiti: saprà di non poterla surrogare, né di doversi vivere in una sorta di competizione con essa. Si scrive perché si è stati invogliati a farlo; all’origine c’è sempre un interesse, un riconoscimento. La lettura risveglia empatie, ma anche registra l’insorgere di interrogativi - che non la intralciano, la intensificano piuttosto. L’intento qui non potrà essere che invitare alla lettura, dovrà contenere indizi che invoglino a prendere Il sogno di Giuseppe.
E dunque: so l’autore, i suoi scritti mi aiutano a conoscerlo meglio (questa è la cosa più coinvolgente per me) - e insieme stimolano delle domande. Eccole:    
  
D: Perché il sogno, perché quello di Giuseppe e dunque perché la Bibbia.

R: La nostra Storia è fatta di innumerevoli piccole e grandi storie e tra queste alcune diventano exempla che lasciano tracce di memoria e fascinazione importanti per stabilire una tracciabilità esistenziale capace di narrare la vita nelle nostre vite.
La Bibbia ha una scrittura essenziale, metaforica, poetica insieme. È un testo capace di condurci oltre il nostro tempo in un continuo rimescolamento dell’umano che ci riporta alle nostre origini, alle prime parole della nostra narrazione. Ho sempre pensato che fosse uno scrigno per noi; uno spazio dove poter incurvare luoghi esistenziali in grado di riportarci a casa; un posto di posti dove le questioni non sono semplici domande, ma itinerari da interpretare. Tra queste prime pagine della Genesi la storia di Giuseppe è una lettura che feci molti anni fa quasi inconsapevole del deposito che mi avrebbe lasciato. Una lettura che ha fatto risaltare in me l’attenzione all’elemento dell’abbandono da parte dei fratelli, della violenza da parte delle decisioni attuate da chi, invidiandolo, l’ha represso annullandolo alla vista del mondo, facendolo sprofondare nella cisterna. Giuseppe è il cancellato che riaffiora a forza di fiducia non nel desiderare ma nel sognare nei sogni degli altri, abitandoli e rendendoli decifrabili mediante una narrazione. Qui il sogno è il luogo dove accade lo scambio tra il reale e l’immaginazione, tra il destino e il fato, tra la menzogna e la verità, tra le veglie e le notti. Giuseppe appartiene alle figure che stupiscono per intraprendenza, che catturano per verità, che parlano per ascolto. Sarà infatti proprio l’elemento dell’ascolto a diventare il perno di tutto il poema: un ascolto che si fa parola per Altri e d’Altri, innescandosi/ingravidandosi nelle storie come un seme d’inizio.
                                    
D: Perché le parti in corsivo e quelle in tondo
 
R: Il corsivo è la voce diretta di Giuseppe che parla/pensa/vive/patisce/desidera. Il tondo invece è la voce del narratore che commenta, espone, introduce le situazioni, i luoghi, le location dove sono svolte/girate le scene, mentre i versi posti tra virgolette caporali sono le voci dei saggi che consigliano, che profetizzano, che comunicano attraverso le loro visoni, una parola oracolare, da interpretare. Questi saggi non sono solo figure parlanti da vite particolari, ma sono anche frammenti di verità che Giuseppe gli accade di scorgere nella sua quotidianità reclusa: sono ombre, suoni, rumori provenienti dall’esterno (dalla città dei mercanti); sono pezzi di frasi cadute nella grata attraverso la feritoia alta che lo sovrasta; sono parole lasciate cadere dagli amanti appoggiati al pozzo, incuranti di chi ci sia ad ascoltarli; sono segni/tracce di vero che Giuseppe trattiene per sé e che condividerà con chi lo saprà ascoltare/attendere. Sì perché l’ascolto qui è anche un’attesa.

D: Colpisce l’immaginazione: colpiscono le immagini, i simboli. Per lo più la lettura scorre liscia; vuol dire che tutto va da sé, basta a sé. È un buon segno, no? Ma non sempre è così, bello è anche che “diano da pensare”. Volendo esemplificare:  
Ci sono versi, termini, che prendono; altri che chiedono chiarimenti; estrapolati dal tutto, stimolano o interrompono l’attenzione. Quasi “pietre d’inciampo”.
Sempre esemplificando, mi hanno coinvolto, a p. 42, “cieli rovesciati all’indietro” (con l’intero contesto che ne riceve luce). “Lasciare che l’abbandono faccia doni / è quello che mi resta” (p. 43). “Da qui / ripetevo parole salvate / tre volte dal nulla, mentre / mi guardavo le mani / nell’acqua dell’arsura” (p. 45). “Il sole diventa mattino: sole / sull’orzo intorno alla casa” (p. 47).  “Ha la luce nelle cose / una malinconia strana” (p. 48). 
Per converso hanno suscitato perplessità in me il termine “portali” a p. 15; e a p. 21 la “i” di “contorni” nell’ultimo verso.
Una confessione infine: le poesie in cui mi sono più coinvolto sono la prima (a p. 15), quella a p. 26, quella a p. 41. Indicativamente, ma è più importante la tua scelta.  
Succede, è successo, ma tutto è così soggettivo e arbitrario in questi casi. Non vorrei cadere nel tranello poesia-non poesia di crociana memoria. La cosa migliore sarebbe scorrere insieme il libro, e parlarne.  

R: La poesia ha una sua polarità, una sua strada, un suo orizzonte. In essa si accade per abbandono e per pensiero e questo fa sì che ogni poesia possa concedere un’ospitalità diversa a seconda di come ci si pone e propone ad essa. Certo l’oscurità è un elemento pericoloso e a volte presuntuoso del poeta, ma sono convinto che ogni verso, se letto dalla giusta posizione (che tradotto in altre parole è con la giusta pazienza), riveli sempre qualcosa di comprensibile che sappia coinvolgere per farsi capire.
È sempre e tutto una questione di fiducia reciproca! 

D: Mi hai mandato una tua nuova poesia, tra e più emozionanti per me: Stamane ho sentito piangere una rondine/aveva un sole addosso non suo.//Roteava rovine in picchiata.// Piangeva per troppa bellezza.//Sapeva degli uomini e delle loro morti./Sapeva dei fiori e dei loro colori. Me l’hai mandata come se appartenesse anch’essa al “Il sogno di Giuseppe”, dove ancora non c’è. Ne progetti una nuova edizione? Mi sembra escluso che la metterai un una nuova raccolta di poesie cui, presumo, stai pensando. 

R: Sì la scrittura de Il sogno di Giuseppe è un poema che sto continuando a scrivere, a strutturare, a pensare. Il libro uscito è solo la prima “matrice” se così posso dire. La continuità della scrittura mi ha portato a lavorare all’interno di un dettato che si fa indagatore e interrogante. Lavorare in poema è come pensare “in poma” e ciò attraverso lo spazio di una narratività che in poesia solitamente si esaurisce nell’occasione. La mia modalità di lavoro invece è quasi sempre “poematica”; una procedura che mi risulta somigliante e proficua. Il poema è uno spazio dell’elaborazione dove la lingua e la materia collaborano incessantemente alla loro formazione, alla loro elaborazione.
Come ebbi a scrivere in un articolo sulla scrittura appunto poematica:
“Lavorare in poema significa dunque presentare/rappresentare una visone laboratoriale della poesia e del suo linguaggio; è come ebbe a dire più volte Antonio Porta: “Mettersi a bottega”. Un'officina scritturale e operativa, dove la materia e il materiale sanno come essere compresenti sul tavolo della lingua e del linguaggio, sparsi e impilati tra gli attrezzi del mestiere, che ogni poeta dovrebbe possedere e saper adoperare. È proprio un dedicare tempo anche alla lingua poetica di farsi più aderente a ciò che si dovrà portare alla luce, che dovrà mostrarsi.
Pensare in poema significa anche rimanere connessi al “luogo dell'elaborazione”, in quell'esatto punto in cui la lingua e il linguaggio si installano e precisamente, tra l'esperienza e la sua decifrazione/trans-posizione in parola. Dunque la stesura continua come continua l’ascolto di Giuseppe che dalla sua cisterna si dispone all’ascolto e alla percezione.
La poesia che ti ho donato è una delle poche cose scritte durante questo tempo pandemico dove, l’accorgersi dell’aperto abitato, com’era da una primavera quanto mai rigogliosa, si contorceva nella contraddizione della chiusura che, proprio in quei giorni, iniziava ad obbligarci all’invisibilità.

La copertina del libro

Grazie a te ho potuto visitare la tua “officina di poeta”, che testimonia il lungo, scrupoloso lavoro che prepara le tue poesie - invisibile a chi ha di fronte solo le opere compiute. Queste ultime mantengono in sé, non a chiare lettere ma vivo, il lungo e accidentato cammino che ha condotto a esse - poterlo ripercorrere è di grande giovamento. Parafrasando lo Hegel della celebre Prefazione alla Fenomenologia dello spirito: le cose non si esauriscono nel loro compimento. Questo, considerato a sé, resta “privo di vita”, se non reca in sé traccia in sé della lunga fatica (interiore ed esterna) del suo costruirsi. La “autentica realtà” delle cose non consiste nel risultato in cui ci sono consegnate, ma include anche il divenire del loro farsi. Per questo sarebbe necessario aver visitato le officine da cui escono ben confezionate per comprenderle appieno.