Gabriele
Scaramuzza conversa con Stefano Raimondi
Stefano Raimondi |
È
uscita da poco l’ultima raccolta di poesie di Stefano Raimondi, Il sogno di Giuseppe, come n. 7 della
collana “A27 poesia”, Amos Edizioni 2019. Fa piacere leggere queste poesie,
innescano la voglia di rifletterne tra sé, di parlarne con altri, con l’autore in
primis in questo caso - avere per interlocutore l’autore non capita
spesso.
Sorgono domande, si cercano risposte, questo già di per sé testimonia non solo
di una rispondenza, e insieme di una ricerca del senso-per-noi di quanto si
legge. Chi poi non è specialista di poesie si pone anche problemi più ampi, cui
lo induce il mondo culturale in cui è cresciuto.
E
innanzitutto: perché nascono esigenze di parlare, di scrivere? Ci sono sempre state,
quella che si chiama “critica” ha radici in una storia secolare. E tuttavia ci
si può chieder come mai. Davvero è necessario “interpretare” le poesie? Non è
tanto più vivo e “vero” leggere le poesie in carne ed ossa? Non parlano esse da
sole? Richard Wagner, interrogato circa l’enigmatico finale del “Crepuscolo
degli Dei”, richiesto di scegliere tra opposte interpretazioni, di “chiarire”
dunque il senso di quel sublime motivo su cui cala la scena, semplicemente
risponde: “sarà la musica a decidere”. In modo analogo direi: lasciatevi andare
alla lettura delle poesie, fatevi assorbire dalla loro musicalità, dal ritmo
delle loro immagini. Troverete lì ogni risposta. Porsi domande, tradurre in
altri termini dei versi non sottintende che le poesie “non bastino a sé?” che manchino di qualcosa e per questo abbiamo bisogno di supporti loro esterni? “Chiarire” non implica che qualcosa sia “oscuro?” Sono ipotesi difficilmente condivisibili, eppure ricorrenti nella nostra cultura.
Da
sempre si “dice” delle poesie; potrà infastidire, risultare ridondante, ma
anche nascere da un’intima necessità. Sempre testimonia di una vita (lunga o
breve che sia) delle poesie oltre se stesse, nella “conversazione”
tendenzialmente “infinita” (parafrasando Blanchot) che esse sollecitano. Non sta
in questo forse (spingendo ai limiti il discorso) la “classicità” di vertici
inarrivabili quali Sofocle e di Dante, il loro “incanto eterno”: la loro
“immortalità” cioè, il loro sopravvivere alle circostanze in cui si sono prodotti?
Chi
parla di una poesia dovrà essere conscio dei propri limiti: saprà di non
poterla surrogare, né di doversi vivere in una sorta di competizione con essa. Si
scrive perché si è stati invogliati a farlo; all’origine c’è sempre un
interesse, un riconoscimento. La lettura risveglia empatie, ma anche registra
l’insorgere di interrogativi - che
non la intralciano, la intensificano piuttosto. L’intento
qui non potrà essere che invitare alla lettura, dovrà contenere indizi che
invoglino a prendere Il sogno di Giuseppe.
E
dunque: so l’autore, i suoi scritti mi aiutano a conoscerlo meglio (questa è la
cosa più coinvolgente per me) - e insieme stimolano delle domande. Eccole:
D: Perché il sogno, perché quello di Giuseppe e dunque perché la
Bibbia.
R: La nostra Storia è fatta di innumerevoli piccole e grandi storie
e tra queste alcune diventano exempla che lasciano tracce di memoria e
fascinazione importanti per stabilire una tracciabilità esistenziale capace di
narrare la vita nelle nostre vite.
La Bibbia ha una scrittura essenziale, metaforica, poetica
insieme. È un testo capace di condurci oltre il nostro tempo in un continuo
rimescolamento dell’umano che ci riporta alle nostre origini, alle prime parole
della nostra narrazione. Ho sempre pensato che fosse uno scrigno per noi; uno
spazio dove poter incurvare luoghi esistenziali in grado di riportarci a casa;
un posto di posti dove le questioni non sono semplici domande, ma itinerari da
interpretare. Tra queste prime pagine della Genesi la storia di Giuseppe è una
lettura che feci molti anni fa quasi inconsapevole del deposito che mi avrebbe
lasciato. Una lettura che ha fatto risaltare in me l’attenzione all’elemento
dell’abbandono da parte dei fratelli, della violenza da parte delle decisioni
attuate da chi, invidiandolo, l’ha represso annullandolo alla vista del mondo,
facendolo sprofondare nella cisterna. Giuseppe è il cancellato che riaffiora a
forza di fiducia non nel desiderare ma nel sognare nei sogni degli altri,
abitandoli e rendendoli decifrabili mediante una narrazione. Qui il sogno è il
luogo dove accade lo scambio tra il reale e l’immaginazione, tra il destino e
il fato, tra la menzogna e la verità, tra le veglie e le notti. Giuseppe
appartiene alle figure che stupiscono per intraprendenza, che catturano per
verità, che parlano per ascolto. Sarà infatti proprio l’elemento dell’ascolto a
diventare il perno di tutto il poema: un ascolto che si fa parola per Altri e
d’Altri, innescandosi/ingravidandosi nelle storie come un seme d’inizio.
D: Perché le parti in corsivo e quelle in tondo
R: Il corsivo è la voce diretta di Giuseppe che
parla/pensa/vive/patisce/desidera. Il tondo invece è la voce del narratore
che commenta, espone, introduce le situazioni, i luoghi, le location
dove sono svolte/girate le scene, mentre i versi posti tra virgolette caporali
sono le voci dei saggi che consigliano, che profetizzano, che comunicano
attraverso le loro visoni, una parola oracolare, da interpretare. Questi saggi
non sono solo figure parlanti da vite particolari, ma sono anche frammenti di
verità che Giuseppe gli accade di scorgere nella sua quotidianità reclusa: sono
ombre, suoni, rumori provenienti dall’esterno (dalla città dei mercanti); sono
pezzi di frasi cadute nella grata attraverso la feritoia alta che lo sovrasta;
sono parole lasciate cadere dagli amanti appoggiati al pozzo, incuranti di chi
ci sia ad ascoltarli; sono segni/tracce di vero che Giuseppe trattiene per sé e
che condividerà con chi lo saprà ascoltare/attendere. Sì perché l’ascolto qui è
anche un’attesa.
D: Colpisce l’immaginazione: colpiscono le immagini, i simboli.
Per lo più la lettura scorre liscia; vuol dire che tutto va da sé, basta a sé.
È un buon segno, no? Ma non sempre è così, bello è anche che “diano da
pensare”. Volendo esemplificare:
Ci sono versi, termini, che prendono; altri che chiedono
chiarimenti; estrapolati dal tutto, stimolano o interrompono l’attenzione.
Quasi “pietre d’inciampo”.
Sempre esemplificando, mi hanno coinvolto, a p. 42, “cieli
rovesciati all’indietro” (con l’intero contesto che ne riceve luce). “Lasciare
che l’abbandono faccia doni / è quello che mi resta” (p. 43). “Da
qui / ripetevo parole salvate / tre volte dal nulla, mentre /
mi guardavo le mani / nell’acqua dell’arsura” (p. 45). “Il sole
diventa mattino: sole / sull’orzo intorno alla casa” (p. 47). “Ha la
luce nelle cose / una malinconia strana” (p. 48).
Per converso hanno suscitato perplessità in me il termine
“portali” a p. 15; e a p. 21 la “i” di “contorni” nell’ultimo verso.
Una confessione infine: le poesie in cui mi sono più coinvolto
sono la prima (a p. 15), quella a p. 26, quella a p. 41. Indicativamente, ma è
più importante la tua scelta.
Succede, è successo, ma tutto è così soggettivo e arbitrario in
questi casi. Non vorrei cadere nel tranello poesia-non poesia di crociana
memoria. La cosa migliore sarebbe scorrere insieme il libro, e
parlarne.
R: La poesia ha una sua polarità, una sua strada, un suo orizzonte.
In essa si accade per abbandono e per pensiero e questo fa sì che ogni poesia
possa concedere un’ospitalità diversa a seconda di come ci si pone e propone ad
essa. Certo l’oscurità è un elemento pericoloso e a volte presuntuoso del
poeta, ma sono convinto che ogni verso, se letto dalla giusta posizione (che
tradotto in altre parole è con la giusta pazienza), riveli sempre qualcosa di
comprensibile che sappia coinvolgere per farsi capire.
È sempre e tutto una questione di fiducia reciproca!
D: Mi hai mandato una tua nuova poesia, tra e più emozionanti per
me: Stamane
ho sentito piangere una rondine/aveva un sole addosso non suo.//Roteava rovine
in picchiata.// Piangeva per troppa bellezza.//Sapeva degli uomini e delle loro
morti./Sapeva dei fiori e dei loro colori. Me l’hai mandata come se appartenesse
anch’essa al “Il sogno di Giuseppe”, dove ancora non c’è. Ne progetti una nuova
edizione? Mi sembra escluso che la metterai un una nuova raccolta di poesie cui,
presumo, stai pensando.
R: Sì la
scrittura de Il sogno di Giuseppe è
un poema che sto continuando a scrivere, a strutturare, a pensare. Il libro
uscito è solo la prima “matrice” se così posso dire. La continuità della
scrittura mi ha portato a lavorare all’interno di un dettato che si fa
indagatore e interrogante. Lavorare in poema è come pensare “in poma” e ciò
attraverso lo spazio di una narratività che in poesia solitamente si esaurisce
nell’occasione. La mia modalità di lavoro invece è quasi sempre “poematica”;
una procedura che mi risulta somigliante e proficua. Il poema è uno spazio
dell’elaborazione dove la lingua e la materia collaborano incessantemente alla
loro formazione, alla loro elaborazione.
Come ebbi a scrivere in un articolo sulla scrittura appunto
poematica:
“Lavorare in poema significa dunque presentare/rappresentare una visone laboratoriale della poesia e del suo linguaggio; è come ebbe a dire più volte Antonio Porta: “Mettersi a bottega”. Un'officina scritturale e operativa, dove la materia e il materiale sanno come essere compresenti sul tavolo della lingua e del linguaggio, sparsi e impilati tra gli attrezzi del mestiere, che ogni poeta dovrebbe possedere e saper adoperare. È proprio un dedicare tempo anche alla lingua poetica di farsi più aderente a ciò che si dovrà portare alla luce, che dovrà mostrarsi.
“Lavorare in poema significa dunque presentare/rappresentare una visone laboratoriale della poesia e del suo linguaggio; è come ebbe a dire più volte Antonio Porta: “Mettersi a bottega”. Un'officina scritturale e operativa, dove la materia e il materiale sanno come essere compresenti sul tavolo della lingua e del linguaggio, sparsi e impilati tra gli attrezzi del mestiere, che ogni poeta dovrebbe possedere e saper adoperare. È proprio un dedicare tempo anche alla lingua poetica di farsi più aderente a ciò che si dovrà portare alla luce, che dovrà mostrarsi.
Pensare in poema significa anche rimanere connessi al “luogo
dell'elaborazione”, in quell'esatto punto in cui la lingua e il linguaggio si
installano e precisamente, tra l'esperienza e la sua
decifrazione/trans-posizione in parola. Dunque la stesura continua come continua l’ascolto di Giuseppe che
dalla sua cisterna si dispone all’ascolto e alla percezione.
La poesia che ti ho donato è una delle poche cose scritte durante
questo tempo pandemico dove, l’accorgersi dell’aperto abitato, com’era da una
primavera quanto mai rigogliosa, si contorceva nella contraddizione della
chiusura che, proprio in quei giorni, iniziava ad obbligarci all’invisibilità.
La copertina del libro |
Grazie a te ho potuto visitare la tua “officina di poeta”, che
testimonia il lungo, scrupoloso lavoro che prepara le tue poesie - invisibile a
chi ha di fronte solo le opere compiute. Queste ultime mantengono in sé, non a
chiare lettere ma vivo, il lungo e accidentato cammino che ha condotto a esse -
poterlo ripercorrere è di grande giovamento. Parafrasando lo Hegel della
celebre Prefazione alla Fenomenologia dello spirito: le cose non
si esauriscono nel loro compimento. Questo, considerato a sé, resta “privo di
vita”, se non reca in sé traccia in sé della lunga fatica (interiore ed
esterna) del suo costruirsi. La “autentica realtà” delle cose non consiste nel
risultato in cui ci sono consegnate, ma include anche il divenire del loro
farsi. Per questo sarebbe necessario aver visitato le officine da cui escono ben
confezionate per comprenderle appieno.