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lunedì 29 giugno 2020

L’OCCIDENTE E LA MORTE
di Fulvio Papi


Chiunque abbia letto i bellissimi libri di Ariès e di Vovelle sulla morte in Occidente, non troverà probabilmente nuove le mie considerazioni. Del resto, il sapere è una continua interpretazione più o meno ben riuscita. In tempi altri e lontani, ci dice una bella immagine di Ariès, il cavaliere quando sentiva avvicinarsi i segni della morte nella sua esistenza, abbandonava il suo cavallo e gli orpelli che facevano della sua vita una importante figura sociale, si inginocchiava e attendeva la fine con la serenità che si deve a un evento già scritto: appartenente al momento stesso in cui aveva aperto gli occhi sul mondo e pronunciato le prime parole dei suoi simili. Così come si comporta un ospite che conosce il tempo della natura che lo aveva accolto. Proprio come ogni altro vivente.
La morte del re era più complicata e rituale, ma anche la morte del re era pensata come un termine necessario. E, piuttosto, era la monarchia a tentare la sorte più lunga nella storia, attraverso la nuova precarietà dei figli. Il pensiero della nostra morte borghese, come sentimento dell’estrema epoca moderna, non solo è comunemente occluso personalmente ma anche socialmente, appartiene a una minuscola scena tragica che si rappresenta in un lessico smarrito, anche intenso, ma debole e fragile quanto a memoria, solo un soffio di vento maligno.
Heidegger nel ’27 scrisse la famosa proposizione “essere-verso-la-morte”. Fu un risveglio clamoroso contro lo spazio del pensiero positivo. Poi Derrida chiarì che questa lezione esistenziale resuscitava, in campo laico, l’antica ammonizione cristiana sulla nostra polvere, dimenticata come altri oggetti obsoleti nel tempo. Fu allora un ripetuto esercizio filosofico, ma resterà una riflessione esterna del tutto rispetto alle dominanti ideologie della modernità che trovano la loro verità nella vita sociale. Vinse una comune cadenza ideologica secondo cui nel “secondo mondo” che abbiamo edificato sull’uso e sulle rovine dell’origine (la magia insegnava tutt’altro), è compresa la certezza di una immunità garantita dalla conoscenza scientifica e dalla tecnica. Entrambi capaci di vincere, con la propria pratica dell’intelligenza, l’apparire del male naturale. Al contrario del male storico che si poteva anche comprendere nei necessari guasti del progresso. È appena il caso di ricordare che in questa euforia vi sono persino scienziati contemporanei tanto stolti che studiano la nostra possibile eternità.
Oggi con la pandemia che conosciamo bene, ma con la quale non abbiamo ancora vinto con la medicina che (nella sua razionale ontologia) offre l’immagine di una guerra al male, siamo costretti a rivedere, con disagio comprensibile, la nostra convinzione di essere esistenti dotati o dotabili di immunità. Tuttavia il nostro pensiero non si ferma qui, posto che si fermi. Esso si percepisce come una sapienza deplorevole e difficile che, per rendersi accettabile, deve collocarsi in un razionale rapporto tra causa ed effetto. E cioè elaborare una colpa. Così potrà più facilmente essere riportata alle regole del nostro continente intellettuale. Ci saranno di certo anche casi di inefficienza, ma il desiderio della ricerca di una causalità antropica del male, rivela la critica consolatrice del ‘capro’. È la rivalsa emotiva di una sconfitta inattesa. L’elaborazione del sospetto dell’ignoto, del caso: il ‘capro’. È uno dei punti estremi di quelle culture (ideologie) che, abbagliate dalla immanenza materiale di un dio – il denaro come rivelazione vincente della storia capitalistica – contribuiscono a trasformare fino a distruggere un mondo che impropriamente possiamo chiamare delle origini. Meglio: abbiamo sconvolto la selezione naturale. Oggi la pandemia mette sul tavolo tutti questi conti in una volta sola. Contro i quali abbiamo il privilegio di una straordinaria conoscenza scientifica. Ma, va detto, anche la grande povertà dei giocatori di questa partita decisiva che deriva dalla nostra storia, razionale solo nel senso che non ce n’è un’altra: potenza, riproduzione sociale, conflitti, povertà, culture, politiche, ideologie, religioni. Non sarebbe affatto male rivolgere a questi problemi fondamentali la nostra totale attenzione, anche se ci sentiamo già un poco sconfitti.