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lunedì 15 giugno 2020

TACCUINO
di Angelo Gaccione

Veduta di Piazza Adriano Olivetti

Ripamonti si trasforma

Prima di divenire quel che è ora, la lunga via Ripamonti, la via più lunga di Milano, è stata molte cose insieme, riferite a memorie personali e a sentimenti contrastanti. È stata la via delle tante fabbriche dalle alte ciminiere dove si concentrava una massiccia quantità di tute blu; il cavalcavia che scavalcando la ferrovia ti conduceva al capolinea di un tram dove una vecchia trattoria dal nome a tre lettere maiuscole: “SPQ”, segnava il limite oltre il quale ti immaginavi campi e nebbia. E campi e nebbia ti trovavi davanti, se proseguivi per Opera e Pieve Emanuele. Più tardi il capolinea fu spostato dove è ora, ai confini con Opera, per via di un palazzone dell’Inps e dello Ieo, acronimo sinistro che sta per Istituto Europeo di Oncologia: tumori, per essere più chiari. Infilandoti tra le sue traverse, dal cavalcavia in giù, non ti compariva nulla di significativo, e solo molto più tardi scoprii la chiesa di Santa Maria dell’Assunta al Vigentino. Per anni la via Ripamonti è rimasto l’odiato luogo dove avevano costruito un banale palazzo a vetri del Provveditorato agli Studi, poi scopertosi pieno di amianto, dove gli studenti si recavano in cortei per protestare contro il dissesto e le manchevolezze delle scuole milanesi; ma anche il palazzo dove avevano arrestato il boss mafioso Luciano Liggio nel 1974.

Il palazzo a Vela

Al di qua della seconda cerchia dei Navigli, le cose stavano diversamente e trovavi belle case primi-Novecento spesso impreziosite da balconcini magnificamente lavorati, come quelli di via Atto Vannucci, per esempio, che incrocia la Ripamonti a pochi passi dal viale Bligny. Per me la Ripamonti è stata per un certo numero di anni, la casa a ridosso delle mura spagnole dove andavo a trovare l’amico e critico cinematografico Morando Morandini; e, soprattutto, il riconoscimento dei milanesi allo storico di cui la via porta il nome, a cui il cardinale Federigo Borromeo aveva reso la vita impossibile.
La fine delle fabbriche e della classe operaia, ha coinciso con un profondo mutamento umano, prima che urbano. Ma questo vale per la città nel suo insieme.


Il Palazzo a vetri della Fastweb

Lungo la sua direttiva, subito dopo l’incrocio con i viali Toscana e Isonzo, già sopra il lato destro del cavalcavia, le strutture industriali sono divenute studi, laboratori, locali, e abitazioni di pregio per professionisti e benestanti. Molte di queste costruzioni hanno mantenuto le forme tipiche dei capannoni. Abitazioni anche nella parte sottostante, quella lungo la via C. De Angeli, e più in là, dove è stato costruito un intero quartiere residenziale, noto come quartiere Spadolini. Quartiere di lusso, che non ha niente a che vedere con le case popolari deturpate di via dei Fontanili. C’è anche una moderna costruzione al fondo di via Vittore Buzzi, una residenza per studenti, visto che lì attorno è stato spostato l’Istituto Europeo di Design (Ied), e nella via Noto la facoltà di Scienze dei Beni Culturali. Una discreta superficie, sempre sul lato destro, è stata occupata da un’altrettanta moderna costruzione, quella dell’Esselunga, capofila della grande distribuzione qui a Milano. Si presenta con una stazza enorme, forse la più grande di tutta la città, e il suo insediamento ha vivacizzato non poco, almeno nelle ore diurne, la zona. 


Veduta complessiva della Piazza

Vi scorre la Roggia Vettabbia, in via Ripamonti, e qualche volta per vedere le robuste nutrie che vi sguazzano, sono andato in via Corrado il Salico (io scherzosamente dico il Sadico) o nella piccola via Morivione. Per anni me la sono immaginata (nella mia fantasia di scrittore), come una via un tempo piena di piante di more, anche se il toponimo era del tutto improbabile. Ma alterare i significati di un nome è un esercizio che mi diverte e che faccio spesso. In realtà le cose stanno in modo ben diverso e la leggenda (o la storia), ci riportano a fatti più truci e più prosaici. Pare che in questo luogo (l’antico borgo Vione) uno spietato e sanguinario bandito dal nome Vione, fosse stato ucciso dai lancieri del duca di Milano (forse Azzone Visconti) nel 1336. Una pietra ne ricordava l’evento con la scritta “qui morì Vione. Il tempo e il popolo fecero il resto: il verbo e il nome si fusero in un termine solo, Morivione, e le generazioni che seguirono, con questo nome connotarono il borgo stesso. Ma è storia andata, e nessuno più se ne cura.


La Terrazza della Fondazione Prada

Sul lato sinistro del cavalcavia, la via Lorenzini porta davanti alla Fondazione Prada, che ha inglobato vecchi opifici e cascine per realizzare uno spazio espositivo d’arte fondendo tradizione e modernità. Copre una superficie notevole questa costruzione, e dall’ultimo piano che si raggiunge con un ascensore che si affaccia per un tratto nel vuoto, la veduta ampia sulla città spazia per chilometri. Raccontarla a parole non le rende giustizia e pertanto me ne astengo. Davanti c’è la ferrovia dello Scalo di Porta Romana: che cosa diventerà questa zona non lo sappiamo; non sono sicuro che riusciremo a contenere gli appetiti degli invasati del cemento e l’uso di suolo che si converte in danaro per i pochi che già ne hanno a dismisura e non gli basta mai. A parole, governanti e amministratori (di destra, di sinistra o di centro che siano), si dicono amici del verde per contenere i cambiamenti climatici; nei fatti lasciano che ogni area dismessa venga edificata e i cittadini deprivati di spazio pubblico, di superfici “vuote” assolutamente necessarie. È avvenuto col palazzo privato all’angolo di via Brembo ai cui costruttori è stato concesso di elevarsi a piacimento, facendo sparire dallo sguardo il bel campanile della chiesa di San Luigi che dà il nome all’omonima piazzetta, e probabilmente sparirà dalla vista tutto il tratto della via Brembo che a me ha sempre ricordato uno scorcio parigino, come se oltre il muro, visto dal piazzale Lodi, scorresse se non proprio la Senna, almeno un corso d’acqua. Finora vi scorre la ferrovia, una via ferrata utilissima, ma si parla di dismissione, e il suo destino pare, per il futuro, ahimè, segnato.


Particolare della Fondazione

Alle spalle della Fondazione Prada un suggestivo palazzo a forma di vela anch’esso imponente e coi terrazzi ricchi di vegetazione, si allinea ad altri altrettanto moderni. Non si sono operati guasti, e si spera che le ultime vestigia rurali sopravvissute, siano tutelate; sarebbe gravissimo se fossero “soffocate”, o peggio, cancellate. Al momento, quello che è stato battezzato “progetto Symbiosis”, ha prodotto una piazza suggestiva dedicata ad Adriano Olivetti ed un’enorme costruzione che la delimita in orizzontale quasi per intero. È un palazzo a vetri che riflette tutto quando cattura nella sua superficie, cielo e nubi compresi, sede della Fastweb. È sorretto, nella parte sinistra, da due giganteschi pilastri a forma di X che indubbiamente lo rendono più aereo e come sospeso. L’impatto visivo è piacevole, anche perché per ora non ha nient’altro alle spalle; si dovrà aspettare cosa emergerà, quando le tante gru in attività, avranno finito il lavoro nei cantieri lì attorno, per capire se questa sensazione rimarrà, o ne resteremo delusi. 


Veduta a spigolo

Ma vediamo come ci viene presentata nel suo complesso, la piazza che delimita le vie Adamello e Orobia e che confina su un lato con la parte retrostante della Fondazione Prada. “L’area si compone da tre ambiti distinti. Una grande superficie pavimentata occupa la zona centrale per ospitare attività, ed eventi collettivi, oltre che aree di sosta e d’incontro ombreggiate da esemplari di prunus pado, il ciliegio da fiore dei boschi umidi lombardi. Tra questa e l’edificio della Fondazione Prada si colloca il giardino ruderale dove sono coltivate numerose specie arbustive ed erbacee perenni che, componendo diverse fioriture stagionali, ripropongono lo sviluppo della vegetazione spontanea propria dei ruderi delle aree industriali. Sul lato opposto tre fontane, che per forma ed estensione evocano il sistema dei corsi d’acqua del vicino Parco Sud Milano, sono disposte in sequenza per estendere visivamente, ma anche fisicamente, il limite della piazza verso il primo edificio”.


Fondazione Prada

La realizzazione di una piazza è sempre un’ottima cosa. Finisce per attirare inevitabilmente tante persone e diventare fruibile a più livelli di interesse. Per brutta che una piazza possa essere, ha almeno il pregio di tenere lontane le macchine e di essere uno spazio sicuro per bimbi, mamme ed anziani. Questa dedicata ad Adriano Olivetti è bella e armonica. L’unica difficoltà sono le panchine senza spalliera, non proprio comode per chi vuole riposarsi, leggersi un giornale o adagiarvi un bimbo molto piccolo. La terza vasca della sua fontana, con l’oasi vegetale e le ninfee, è diventata una preziosa attrattiva per i bambini; ai tanti pesciolini che vi guizzano si sono aggiunte le anatre che vi si nascondono e nidificano, ed è un piacere vederle alzarsi in volo o planare nell’acqua per atterrare. In questo periodo di forzato “distanziamento sociale” (che termini orribili coniano politici e burocrati), ci sono venuto di continuo. 


Uno scorcio della Piazza

Non è lontana da casa mia questa piazza, ed è ad una manciata di minuti a piedi da quella di mia figlia. Vi ho portato un mucchio di volte la nipotina che ha potuto giovarsi anche di altalene, scivoli e dei giochi di un giardinetto lì vicino, e che l’imbecillità di teppisti (qualità molto diffusa e pertinace più dei virus), si è divertita a svellere parti della staccionata che lo contorna. Abbiamo preso il sole ai bordi della fontana su quella piazza; dato briciole di pane a pesciolini, scambiato qualche parola con altri nonni, giovani mamme e tanti bimbi, con l’accortezza che era necessaria avere in epoca di pandemia. Per fortuna molti di loro non portavano la mascherina e si è potuti vederli in viso. 


Allegra ai bordi della Fontana
Allegra che è estremamente comunicativa (in questo mi assomiglia), si è divertita e ha divertito. Ci ha preso gusto, e adesso è lei che ha preso in mano le redini e mi comanda a bacchetta: “Domani alla Fondazione Prada”; ed io come tutti i nonni, obbedisco. In un pomeriggio particolarmente luminoso, ci siamo cimentati, per scherzo, a mettere assieme dei versi dedicati alla piazza, alla fontana, ai pesci, alle anatre e alle nubi spumeggianti e vaporose, che lei ha paragonato, con una magnifica similitudine, allo “zucchero filato”. Non li abbiamo trascritti quei versi, perché eravamo sprovvisti di carta e penna. Ma lei li ricorda tutti. Potenza della memoria dei bambini…

ALBUM
La Torre della Fondazione


Veduta in miniatura del complesso


Uno dei cortili interni

Vetri e cielo

I prunus

Particolare della Piazza