di Gabriele Scaramuzza
I
mesi estivi dovrebbero servire a tirare le fila delle ultime letture - casuali
magari, comunque liberamente scelte: cercando il senso di un iter intrapreso, e
anche proseguendo in esso. Alla fine tutto si raccoglierà sperabilmente sotto
indici diversi eppure richiamantisi l’un l’altro. Non è un elenco di
segnalazioni, questo mio, tanto meno un insieme di recensioni: risponde semplicemente
all’esigenza di raccogliere in poche pagine riflessioni (spesso oltre la
lettera) su scritti che mi hanno catturato in questi ultimi tempi di forzato ma
benvenuto isolamento; tempi che si estendono fino alla desueta, cauta estate
che stiamo attraversando. Ho lasciato a Milano i libri appena letti, non li riprendo
in mano; dirò del sapore che resiste in me, solo questo legittima a parlarne,
almeno ai miei occhi. Lo stesso accadrà per i libri che sono venuti a Bonassola
con me.
Presso Adelphi nel 2017 è apparso Sotto
una stella crudele. Una vita a Praga - 1941-1968, di Heda Margolius Kovály.
L’ho letto solo lo scorso maggio: rientra
perfettamente nei limiti dei mei interessi, segnati da Vasilij Grossman e da
Imre Kertész. È terribile quel che vi si legge,
ma è benissimo raccontato. Si sa del processo Slansky, e dei suoi risvolti
equiparabili solo alle infamie dei processi stalinisti degli anni Trenta. Inedita,
tuttavia, è la storia della famiglia coinvolta, e pur esemplare.
Anatolij Kuznecov, Babij Jar.
Romanzo-documento (Adelphi 2019) è molto ben fatto e insieme sconvolgente; interessantissimo per gli
intrecci di narratività e scrupolosa documentazione. Sapevo dei massacri degli
ebrei a Babij Jar, come a Berdičev (dove Vasilij Grossman mi ha condotto); ma questo romanzo parla di eventi in buona parte ignoti, almeno
a me. Babij Jar
non è solo teatro dei noti eccidi degli ebrei e degli zingari; ma anche del
massacro di attivisti sovietici e di tanti prigionieri russi, di nazionalisti
ucraini, e di contravventori delle leggi nazisti per meri motivi di
sopravvivenza. Così non sapevo delle terribili distruzioni, per ritorsione
sovietica, del centro di Kiev: del Kreščatik, e della non lontana Lavra, l’antica
e venerata cittadella-monastero, ricca di preziosissimi libri, di opere d’arte;
e con antichissime chiese.
Su un piano
per certi versi analogo, all’inizio dell’ultima primavera ho letto, di Gabriele
Nissim, La lettera a Hitler. Storia di Armin T. Wegner, combattente
solitario contro i genocidi del Novecento (Mondadori 2015). È tra le prime
testimonianze dirette del genocidio degli Armeni; la lettera scritta a Hitler
pecca di ingenuità, procurerà a Wegner persecuzioni, ma testimonia la Weltanschauung, l’ “etica” atroce, il
livello feroce di disumanità che ispira il nazismo.
Di Marino
Freschi, infine, ho appena ricevuto Germania
1933-1945: L’Emigrazione interna nel Terzo Reich (Aragno, Torino 2020).
L’ho solo scorso, ma è da segnalare, come imprescindibile confronto con chi dalla
Germania non poté fuggire, o con chi per propria scelta volle restarvi. Vale
come utile complemento a quanto si sa, e a intendere cosa fosse nel suo
complesso la vita in Germania negli anni di Hitler. Anni in cui molti non erano
nazisti, e in cui un dissenso interno, nei modi in cui poteva esprimersi, non
mancava - come personalmente ho potuto appurare seguendo le vicende di Ludwig
Englert.
Ho appena
concluso la lettura di Ricordati di Bach di Alice Cappagli (Einaudi 2020). Già nella
quarta di copertina leggiamo che per Cecilia, la protagonista (e controfigura
dell’autrice), “la musica è un modo di vivere, il solo che conosce”; e sappiamo
che da professionista di alto livello ha suonato per decenni in una grande
orchestra. È un romanzo dichiaratamente autobiografico, come la Nota finale
certifica, se mai ce ne fosse bisogno; non poco di lei si ritrova in queste
pagine in cui la soggettività prevale, la scrittrice è lei anche nel loro
stile.
Alla sua attività
di musicista si è sempre accompagnata la propensione alla scrittura. Prima di
questo romanzo, oltre ad articoli di giornale e a saggi estetico-musicali, ha
pubblicato un altro romanzo (Niente caffè
per Spinoza) e un lungo racconto (Una
grande esecuzione). Non solo in questo suo più recente lavoro comunque emerge
come “passion predominante” la musica. Passione, certo, anche se (come troviamo
scritto) “per suonare decentemente non basta la passione”: occorrono un lungo
lavoro di apprendistato, la perizia tecnica; fatica e sacrificio. Ma solo una
passione può dar senso a tutto questo, e sorreggerlo.
Fa
riflettere che alla musica Cecilia, forse da sempre, abbia affiancato il
ricorso alla parola, nei modi differenti che la letteratura offre. Quasi la
musica non le bastasse, quasi avesse bisogno di altre vie per dire se stessa. Tanto
che in filosofia si è laureata; e la filosofia traspare in modo esplicito in Niente caffè per Spinoza, implicitamente
anche altrove.
Mi è
sembrato a tutta prima incongruo che in Ricordati
di Bach compaia una, e una sola, nota a piè pagina - cosa del tutto
inconsueta in un romanzo. Azzardo un’ipotesi: nel testo è citato un passo di
Protagora e la nota rinvia al luogo da cui è tratto; il passo è talmente noto
che di segnalazioni di questo tipo non c’era alcun bisogno. Cecilia vi ha però
fatto ricorso non certo per sfoggio di erudizione, tanto meno per scrupolo filologico:
cose che, a quanto so, non rientrano nel suo modo di essere, né di sentirsi
filosofa. Le parole di Protagora, piuttosto, le sono state utili a
caratterizzare ciò che il suo maestro, Smotlak (di cui sono le parole del
titolo del libro), stava diventando per lei. E insieme credo vogliano segnalare
la presenza della filosofia nella sua vita, anche allorché è alle prese con lavori
incentrati su altro.
La filosofia,
da che esiste, è viva come esercizio della ragione ai suoi livelli più alti,
anche “metafisici”; nei luoghi a ciò deputati (testi, aule, convegni), ma anche
nelle situazioni più incongrue: in una passeggiata tra le vigne, nel rapporto
con un altro, nella stanza di una clinica. Certo, la lettura dei filosofi del
passato, di qualsiasi epoca, è importante; non lo è meno della frequentazione
della musica e di tanta arte del passato. Ma la filosofia non si esaurisce
nella propria storia, tanto meno nell’impegno filologico che la ricostruzione
di questa richiede. A questo Cecilia mi è parsa refrattaria - se ho ben inteso.
A meglio
tratteggiare le coordinate culturali entro cui si muove Cecilia può tornar
utile il ricorso a Hegel, che certo non le è estraneo. Allo Hegel quale
esemplarmente si ritrova nella Fenomenologia
dello Spirito, intendo: dei percorsi di una ragione per nulla riducibile a intelletto
astratto, ma che non esclude nessun ambito di riflessione, e rasenta anche il
mondo delle “cose ultime” in cui fatalmente ci si imbatte.
Lo Hegel da
manuale che si è imposto è per contro lo Hegel della “gerarchia” delle arti, in
cui la musica è preceduta dalle arti visive ed è seguita dalle arti della
parola; dove poi, nell’ambito musicale, Hegel privilegia la musica vocale, quasi
alla musica strumentale mancasse quel compimento “spirituale” che solo la
parola può offrirle. Per questo l’arte tutta (e con lei la religione) cederebbe
alla fine il passo alla parola “pura” (tutta significato) della filosofia. Stando
al luogo comune del “logocentrismo” hegeliano, l’arte costituirebbe un grado
inferiore di Vita dello Spirito, da “superare” nelle forme in cui lo Spirito si
realizza più compiutamente.
Tutto questo
è risaputo, e stantio; ma insieme non coglie nel segno. La celeberrima e
intraducibile Aufhebung hegeliana “supera”, certo, ma al tempo stesso conserva,
magari anzi “eleva” a un diverso livello ciò che pare negare. Questa mi sembra
la prospettiva più adeguata a cogliere il senso del percorso culturale di
Cecilia, che da tempo alla musica accosta le parole e, non lavorando più ora
nell’orchestra, sembra voler abbandonare la musica per la scrittura. Ciononostante
nei suoi percorsi mai la musica si spegne, resta sempre presente come tonalità
di fondo che colora la scrittura, e la vita. Aufgehoben, se mai, è dunque in lei la musica; non estinta.
Bach mentre esegue |
Il problema
sarà a questo punto capire come la musica sopravviva in Ricordati di Bach.
Che ne sia il tema fondamentale è
scontato; meno decifrabile è come compaia nella scrittura, a livello di
significanti, nello stile. E qui non posso che riferirmi a personali
impressioni di lettura.
Mi si lasci
innanzitutto dire che, da un punto di vista non solo letterario, preferisco quest’ultimo
romanzo a Niente caffè per Spinoza.
C’è una più viva presenza della personalità di chi iscrive, più scavo anche
interiore. La tensione drammatica dell’inizio coinvolge da subito, come le
pagine sulla morte della madre verso la fine. Nell’insieme, la narrazione è
guidata con polso; il testo ha mordente, se ne possono condividere le
riflessioni; ricorrono termini sapidi, modi dire popolareschi, il gusto della
battuta. Non mancano torsioni espressionistiche nello scorrere delle parole,
toni velatamente surreali, emotività trattenute. E stralci paesaggistici, tra
cui esemplare è il suggestivo inizio del capitolo terzo.
Nel titolo
compare il nome Bach. Nella sua Estetica
Hegel ne parla come di “un maestro di cui solo recentemente si è saputa
apprezzare la grandiosa genialità autenticamente protestante, vigorosa, eppure,
per così dire, erudita”. Nelle pagine di Cecilia Bach torna, certo è condivisa
“la grandiosa genialità” di cui dice Hegel; ma non v’è cenno alla religiosità,
tanto meno all’erudizione; che tuttavia nulla smentisce. Dovessi chiedermi che
senso assume Bach per lei, inviterei ad ascoltare la Quarta Suite per violoncello, che Cecilia una volta ha suonato per
noi in un’aula di via Noto.
Il romanzo
“dà a pensare”, lascia aperti interrogativi di vario genere, da psicologici e
ambientali a relativi alle “cose ultime”: cosa ha motivato nel “profondo” le
scelte di Cecilia, quale “visione del mondo” l’ha guidata, quali valori l’hanno
determinata nel percorso accidentato, segnato da un inizio che sembrava
renderlo impossibile? Più che alle sue, alle nostre, parole, affiderei le
risposte all’ascolto delle sue esecuzioni.
In ambito filosofico mi ha colto di
sorpresa, di Franco Chiereghin, Il Grande Oltre. Il cammino di pensiero
aperto da Yāñavalkya e da Nociketas nelle Upanişad (University Press,
Padova 2019). L’assunto di fondo è nuovo nel panorama delle mie conoscenze filosofiche.
Che in principio questo universo non sia né Essere né Non essere, che insieme
esso esistesse e non esistesse, mi ha dato uno strano sollievo, il senso di una
liberazione: svincola dalle angoscianti dicotomie in cui siamo soliti
dibatterci. Divagando pro domo mea, vi ho trovato approfondimenti di intuizioni
estetico-artistiche: l’origine è antecedente a qualsiasi distinzione, le
separazioni si impongono in seguito, e insistentemente poi percorrono la nostra
cultura: anche tra dicibile e indicibile, tra “retorica” e “logica”… Non è
questo il campo di un precategoriale, che esemplarmente nell’esperienza
estetica si dà carne?
La Sala Concerto del Conservatorio di Venezia |
Spesso leggo
i settimanali culturali annessi a grandi quotidiani: il domenicale di “Il
Sole-24 Ore”, La lettura del
“Corriere della Sera”, Robinson di “la
Repubblica”. Su quest’ultimo sono di recente apparse due interviste di Antonio
Gnoli da segnalare: la prima è a Maria Grazia Ciani, che conosco dai miei anni
padovani e ricordo con simpatia; suo marito Emilio Pianezzola, grande latinista
e Preside di Facoltà in anni non agevoli, resta tra le persone più squisite che
ho incontrato a Padova. Sapevo non poco, di Maria Grazia Ciani; ma soprattutto
dei suoi studi nell’ambito della cultura greca. Quello che mi ha incantato, e
non conoscevo proprio, sono i suoi studi musicali al Conservatorio di Venezia, dove
si è diplomata in pianoforte e composizione, e ha avuto come guida Bruno
Maderna. Devo confessare che mi ha stupito di non aver trovato traccia in lei,
nei miei anni padovani, della sua preparazione musicale; ma probabilmente c’era
e non l’ho saputa individuare. Non so se abbia continuato a suonare, a
occuparsi di musica, seguendone anche gli sviluppi a partire da Maderna, Berio,
Kurtag…; lo spero sulla base delle mie passioni e dei miei rimorsi per non aver
coltivato adeguatamente queste passioni.
L’altra intervista
è a Michele Ciliberto, sabato 11 luglio 2020, Siamo tutti figli di Giordano Bruno, mi annoto, con partecipazione,
le parole finali, in cui Ciliberto dice dei poeti che ama e della musica che
predilige: “Auden, Celan, Pound. E poi Berlioz, Webern, Shostakovich. E Verdi,
per la cui grandezza non ci sono parole. Musica e poesia sono i soli strumenti,
oltre al lavoro sulle idee, che mi hanno consentito di oppormi a ogni tipo di
sopraffazione. E di sopravvivere in questo tristissimo scampolo di storia pubblica”.
Non
tralascerò alcuni gialli che ho letto in tempi recenti. In primo luogo segnalo Un
caso di scomparsa, di Dror A. Mishani (edito da Guanda
nel 2013, ma che solo poco fa ho scoperto). Un giallo israeliano (e non ce ne
sono molti), in cui trovo azzeccato quanto sostiene, in un luogo incongruo,
un personaggio: “Pensa un po’, una delle più grandi opere letterarie della
storia non è stata concepita come una creazione letteraria ma come una lettera
destinata a un unico lettore, che oltretutto non l’ha mai letta” (p. 115). Si
riferisce alla celebre Lettera al Padre di Kafka, a torto fraintesa e
sottovalutata ad es. da Giuliano Baioni e dal suo allievo e successore a Padova
Renato Saviane.
Non ho mai letto molti gialli o noir,
ma da ultimo mi hanno attratto quelli di Bruno Morchio, genovese, che ho
conosciuto a Bonassola qualche estate fa. Di formazione (laureato a Padova), e
poi per professione, psicologo, si è laureato anche in Letteratura italiana
contemporanea con Edoardo Sanguineti, con una tesi su Carlo Emilio Gadda, se
ben ricordo. I suoi libri risentono dell’ampiezza della sua cultura. Ne ho
letto più d’uno: voglio quanto meno ricordare Un piede in due scarpe
(Rizzoli 2017), Uno sporco lavoro. La calda estate del giovane Bacci Pagano (Garzanti
2018), Le sigarette del manager. Bacci Pagano indaga in Val Polcevera
(Garzanti 2019); so che esistono suoi libri più recenti; devo leggerli. Quanto
più mi attrae, anche al di là della tensione narrativa, della maestria nella
costruzione dei personaggi e delle trame, è una sorta di inquietante non detto
che qua e là traspare nelle pagine. Quasi ciò che veramente determina le
vicende, i delitti e le indagini non fosse quanto leggiamo, bensì una sorta di corrente
sotterranea, di turbine che tutto piega a se stesso, indipendentemente dalle
determinazioni dei singoli attori. E l’inquietudine è che questo valga anche
per la nostra vita, al di sotto degli eventi macroscopici che la animano; e di cui
sappiamo dai giornali e dai notiziari televisivi.
Non avevo
ancora letto (e dovrei vergognarmene) La
vita agra, di Luciano Bianciardi (1962, riediz. Felrinelli 2013). C’è molto
sapore della Milano degli anni Cinquanta, dello way of life che la
caratterizzava, del lavoro faticoso, soprattutto dell’odore dell’aria, dello
sporco degli orizzonti chiusi, del respiro trattenuto. È una Milano vissuta con
l’occhio disincantato di chi ci capita da lontano, e poco o nulla ne gode. Lo
sguardo non è di chi ci è nato, o comunque ha potuto fruire delle grandi aperture
culturali di quegli anni, tra il Piccolo, la Scala, Palazzo Reale, Brera, le
Università.
Voglio
infine accennare anche alla lettura, tuttora in corso, di Momenti di essere.
Scritti auobiografici di Virginia Woolf, introdotta da “Il teatro della memoria”
di Liliana Rampello. Ma soprattutto ne accenno per avere il pretesto di
ricordare Una stanza tutta per sé, che mi ha del tutto coinvolto e solo
pochi mesi fa ho deciso di leggere. Ha incentivato la ripresa e la conferma di
temi costantemente presenti in me: il ruolo delle origini personali nella
costruzione della propria immagine pubblica e privata, della valutazione
dell’incidenza di esse nella costituzione della propria vita, ormai pressoché
conclusa.