5. La
superbia del potere e del dominio politico. Dante, la giustizia e la cultura
della pace.
Vari
studiosi hanno parlato di un "trittico" politico dantesco, composto
dai Canti sesti delle tre Cantiche, a cui ora ci riferiremo brevemente, in cui
il tema della superbia del potere e del dominio politico è di grande rilievo. A
questo proposito, soffermandoci sul Canto XI del Purgatorio, abbiamo già accennato alla figura di Provenzano
Salvani, il tiranno senese di cui, una volta sconfitto e ucciso, si perse ben
presto la memoria, nonostante i suoi ambiziosi progetti di dominio. Nel
Canto VI dell'Inferno
l'interlocuzione del fiorentino Ciacco, soprattutto con la sua profezia,
consente a Dante - in un incontro caratterizzato da nostalgia e malinconia - di
esprimersi con grande amarezza e disincanto sulla situazione etico-politica di
Firenze e sulle sue gravi discordie civili, giungendo a dubitare se vi sia
ancora un cittadino giusto nella sua città (cfr. Inferno, VI, 58-75). A Firenze invidia e superbia, smania di
dominio e cupidigia concernono tutti i ceti e le fazioni, caratterizzano
l'attività della borghesia mercantile, sono ampiamente diffuse nel popolo e nei
potenti. Le
cause di tali discordie intestine? Per Dante sono essenzialmente tre:
"superbia, invidia e avarizia sono/ le tre faville c'hanno i cuori
accesi" (Inferno, VI, 74-75.
Cfr. anche Inferno, XV, 68:
"gent'è avara, invidiosa e superba"). L'amara esperienza dell'esilio
e della discriminazione politica personalmente sofferta sulla pelle e il
desolante spettacolo a cui assistette delle feroci lotte intestine e delle
esasperate divisioni politiche riguardanti l'intero paese conferiscono alle parole
del poeta un πάθοςdel tutto peculiare. La
trestizia che l'Alighieri sovente prova
(cfr. Vita nuova, XXX, 1; Inferno, XXIX, 58; Purgatorio, XXII, 56) è legata a questa sua situazione personale e
indica dolore, contrizione per il peccato e per il male, amara consapevolezza
della debolezza e fragilità della natura umana, pure "cognitio et
recusatio mali" (come dice Tommaso nella Summa theologiae, I, II, 39). Il
Canto VI del Purgatorio verte sull'Italia,
ma poi torna sul tasto dolente di Firenze. In questo Canto incontriamo la
figura del celebre trovatore del XIII secolo Sordello da Goito; l'abbraccio
affettuoso tra i due mantovani Virgilio e Sordello dà l'occasione a Dante di
una celebre invettiva che inizia così: "Ahi serva Italia, di dolore
ostello,/ nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma
bordello!" (Purgatorio, VI,
76-78). Si
tratta qui dell'infelice, confusa e dilaniata Italia, "indomita e
selvaggia" (Purgatorio, VI, 97),
terra senza pace e senza giustizia, in cui vengono a mancare il freno delle
leggi e il senso della misura (cfr. Inferno,
VII, 40-42), i vari poteri tendono a prevaricare e a confondersi (la confusione
è qui soprattutto tra potere temporale e potere spirituale), forte e
inesauribile è la brama di dominio politico e di ricchezze. È
soprattutto disastrosa la confusione/indistinzione tra i due poteri della forza
politica e dell'autorità ecclesiastica. Nella visione politica dantesca, il disordine
è dovuto anche all'oblio e all'indistinzione dei compiti spettanti alle due
istituzioni-guida fondamentali dell'umanità: l'impero e il papato. I "due
soli" del potere politico e del pontificato dovrebbero invece sempre
mantenere ciascuno la propria autonomia e separati i rispettivi ambiti di
attività, l'uno mostrando la via per condurre la vita terrena, l'altro
indicando la via per aspirare ai beni spirituali e per giungere a Dio (cfr. Purgatorio, XVI, 97-114). La
realtà del paese è ben diversa ed è assai triste: "le città d'Italia tutte
piene/ son di tiranni" (Purgatorio,
VI, 124-125). Lacerata da lotte intestine coinvolgenti imperatori ed ecclesiastici,
comuni e signorie, fazioni cittadine e famiglie gentilizie, caratterizzata
dall'assenza dell'autorità imperiale, l'Italia è diventata un nido di
corruzione e di decadenza, di lotte civili e politiche insensate e feroci,
restia alle leggi e alla giustizia, travolta dalle passioni sfrenate e
sprofondata nel disordine. Ciò che nel Canto VI del Purgatorio, riprendendo il discorso già avviato nel Canto VI dell'Inferno, l'autore dice con amaro
sarcasmo della sua città, Firenze, può essere esteso all'Italia intera. Oggi
noi possiamo osservare quanto segue: quella che Dante chiama amaramente
"misera patria mia" (Convivio,
IV, XXVII, 11) è per noi il mondo intero, ridotto a un pianeta malato, le cui
ferite sono gravissime e forse irrimediabili. Nel
Canto XV del Paradiso l'anima di
Cacciaguida, trisavolo di Dante, intesse le lodi della Firenze antica, città in
cui "si stava in pace, sobria e pudica" (Paradiso, XV, 99), "non v'era giunto ancor Sardanapalo/ a
mostrar ciò che 'n camera si pote" (Paradiso,
XV, 107-108); v'era una Firenze, insomma, di costumi ancora incorrotti e moderati,
che qui il poeta vagheggia e a cui si richiama accorato. Non cesserà mai di
farlo, sino all'ultimo. Il
discorso politico dantesco aggiunge un altro importante tassello nel Canto VI
del Paradiso, dove il poeta,
speranzoso, eleva il suo canto all'impero, portatore di pace e di ordine; qui è
protagonista Giustiniano, che tenne l'impero di Bisanzio nel VI secolo d. C. e
lasciò l'eredità inestimabile del Corpus
iuris civilis, la grande compilazione e definitiva sistemazione, da lui
promossa, del diritto romano, le cui leggi sono "omni supervacua
similitudine et iniquissima discordia absolutae" ("liberate dalle
ripetizioni superflue e dalle perniciose contraddizioni"), come si legge
nel Decreto che precede il Corpus iuris. Dante
fa di Giustiniano il tipo ideale dell'imperatore, capace di esercitare il
potere temporale nel pieno accordo e nell'unità-distinzione col magistero
spirituale ecclesiastico. Con la sua attenzione rigorosa all'assetto pacifico della civiltàe al riordinamento giuridico, Giustiniano
indica secondo l'Alighieri il compito essenziale della monarchia, vale a dire
l'instaurazione della giustizia come fondamento dell'ordine della società
umana. Come
esempio di buona amministrazione politica, alla fine del Canto VI del Paradiso Dante cita il caso di Romeo da
Villanova ("luce la luce di Romeo, di cui/ fu l'ovra grande e bella mal
gradita", Paradiso, VI, 128-129)
che, dopo aver ben operato come ministro di Raimondo Berengario IV, conte di
Provenza, si offese per le accuse di malgoverno ingiustamente rivoltegli da
cortigiani invidiosi, si dimise dalla carica e visse poi come mendicante. La
figura di Romeo, "persona umile e peregrina" (Paradiso, VI, 135), qui risplende ed è emblematica della solitudine
dell'uomo retto e giusto, calunniato e perseguitato sulla terra, che sopporta
le sue tribolazioni e le ingiustizie subite nella coscienza della propria
rettitudine e nell'affidamento al provvidenziale riconoscimento divino. Ma chi
agisce male e danneggia gli altri, non sa cosa sia la vita buona, non conosce
il buon cammino dell'umanità né la felicità autentica: "mal cammina/ qual
si fa danno del ben fare altrui" (Paradiso,
VI, 131-132). Una persona umile e giusta come Romeo, con la sua dignità e forza
d'animo, viene qui indicata dal poeta come massimo esempio e testimonianza di
umanità. Concludiamo
questa parte proponendo un'interpretazione che non ci sembra azzardata e che
speriamo sia ampiamente condivisibile. Le posizioni di Dante sulle questioni
della pace e della giustizia, l'anelito alla fraternità e all'eguaglianza, la
sua netta opposizione alle lotte civili insensate e fratricide, alla cultura
della guerra e a ogni culto della violenza consentono di considerarlo come un
antesignano, un vero e proprio precursore di quella cultura della pace che, secondo il disegno utopico-concreto di
Ernesto Balducci, dovrebbe essere il fondamento di una nuovaetica planetaria, della civiltà dell'uomo
planetario. Nota [*Uno stimolante percorso attraverso la
storia, la letteratura, l'arte e la cultura italiane seguendo la traccia della Divina Commedia è il volume di Giulio
Ferroni, L'Italia di Dante. Viaggio nel
paese della 'Commedia', La nave di Teseo, Milano 2019.]