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venerdì 9 ottobre 2020

DANTESCA
di Franco Toscani



5. La superbia del potere e del dominio politico. 
Dante, la giustizia e la cultura della pace. 


Vari studiosi hanno parlato di un "trittico" politico dantesco, composto dai Canti sesti delle tre Cantiche, a cui ora ci riferiremo brevemente, in cui il tema della superbia del potere e del dominio politico è di grande rilievo. A questo proposito, soffermandoci sul Canto XI del Purgatorio, abbiamo già accennato alla figura di Provenzano Salvani, il tiranno senese di cui, una volta sconfitto e ucciso, si perse ben presto la memoria, nonostante i suoi ambiziosi progetti di dominio.
Nel Canto VI dell'Inferno l'interlocuzione del fiorentino Ciacco, soprattutto con la sua profezia, consente a Dante - in un incontro caratterizzato da nostalgia e malinconia - di esprimersi con grande amarezza e disincanto sulla situazione etico-politica di Firenze e sulle sue gravi discordie civili, giungendo a dubitare se vi sia ancora un cittadino giusto nella sua città (cfr. Inferno, VI, 58-75). A Firenze invidia e superbia, smania di dominio e cupidigia concernono tutti i ceti e le fazioni, caratterizzano l'attività della borghesia mercantile, sono ampiamente diffuse nel popolo e nei potenti.
Le cause di tali discordie intestine? Per Dante sono essenzialmente tre: "superbia, invidia e avarizia sono/ le tre faville c'hanno i cuori accesi" (Inferno, VI, 74-75. Cfr. anche Inferno, XV, 68: "gent'è avara, invidiosa e superba"). L'amara esperienza dell'esilio e della discriminazione politica personalmente sofferta sulla pelle e il desolante spettacolo a cui assistette delle feroci lotte intestine e delle esasperate divisioni politiche riguardanti l'intero paese conferiscono alle parole del poeta un πάθος del tutto peculiare.
La trestizia che l'Alighieri sovente prova (cfr. Vita nuova, XXX, 1; Inferno, XXIX, 58; Purgatorio, XXII, 56) è legata a questa sua situazione personale e indica dolore, contrizione per il peccato e per il male, amara consapevolezza della debolezza e fragilità della natura umana, pure "cognitio et recusatio mali" (come dice Tommaso nella Summa theologiae, I, II, 39).
Il Canto VI del Purgatorio verte sull'Italia, ma poi torna sul tasto dolente di Firenze. In questo Canto incontriamo la figura del celebre trovatore del XIII secolo Sordello da Goito; l'abbraccio affettuoso tra i due mantovani Virgilio e Sordello dà l'occasione a Dante di una celebre invettiva che inizia così: "Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!" (Purgatorio, VI, 76-78).
Si tratta qui dell'infelice, confusa e dilaniata Italia, "indomita e selvaggia" (Purgatorio, VI, 97), terra senza pace e senza giustizia, in cui vengono a mancare il freno delle leggi e il senso della misura (cfr. Inferno, VII, 40-42), i vari poteri tendono a prevaricare e a confondersi (la confusione è qui soprattutto tra potere temporale e potere spirituale), forte e inesauribile è la brama di dominio politico e di ricchezze.
È soprattutto disastrosa la confusione/indistinzione tra i due poteri della forza politica e dell'autorità ecclesiastica. Nella visione politica dantesca, il disordine è dovuto anche all'oblio e all'indistinzione dei compiti spettanti alle due istituzioni-guida fondamentali dell'umanità: l'impero e il papato. I "due soli" del potere politico e del pontificato dovrebbero invece sempre mantenere ciascuno la propria autonomia e separati i rispettivi ambiti di attività, l'uno mostrando la via per condurre la vita terrena, l'altro indicando la via per aspirare ai beni spirituali e per giungere a Dio (cfr. Purgatorio, XVI, 97-114).
La realtà del paese è ben diversa ed è assai triste: "le città d'Italia tutte piene/ son di tiranni" (Purgatorio, VI, 124-125). Lacerata da lotte intestine coinvolgenti imperatori ed ecclesiastici, comuni e signorie, fazioni cittadine e famiglie gentilizie, caratterizzata dall'assenza dell'autorità imperiale, l'Italia è diventata un nido di corruzione e di decadenza, di lotte civili e politiche insensate e feroci, restia alle leggi e alla giustizia, travolta dalle passioni sfrenate e sprofondata nel disordine. Ciò che nel Canto VI del Purgatorio, riprendendo il discorso già avviato nel Canto VI dell'Inferno, l'autore dice con amaro sarcasmo della sua città, Firenze, può essere esteso all'Italia intera. Oggi noi possiamo osservare quanto segue: quella che Dante chiama amaramente "misera patria mia" (Convivio, IV, XXVII, 11) è per noi il mondo intero, ridotto a un pianeta malato, le cui ferite sono gravissime e forse irrimediabili.
Nel Canto XV del Paradiso l'anima di Cacciaguida, trisavolo di Dante, intesse le lodi della Firenze antica, città in cui "si stava in pace, sobria e pudica" (Paradiso, XV, 99), "non v'era giunto ancor Sardanapalo/ a mostrar ciò che 'n camera si pote" (Paradiso, XV, 107-108); v'era una Firenze, insomma, di costumi ancora incorrotti e moderati, che qui il poeta vagheggia e a cui si richiama accorato. Non cesserà mai di farlo, sino all'ultimo.
Il discorso politico dantesco aggiunge un altro importante tassello nel Canto VI del Paradiso, dove il poeta, speranzoso, eleva il suo canto all'impero, portatore di pace e di ordine; qui è protagonista Giustiniano, che tenne l'impero di Bisanzio nel VI secolo d. C. e lasciò l'eredità inestimabile del Corpus iuris civilis, la grande compilazione e definitiva sistemazione, da lui promossa, del diritto romano, le cui leggi sono "omni supervacua similitudine et iniquissima discordia absolutae" ("liberate dalle ripetizioni superflue e dalle perniciose contraddizioni"), come si legge nel Decreto che precede il Corpus iuris.
Dante fa di Giustiniano il tipo ideale dell'imperatore, capace di esercitare il potere temporale nel pieno accordo e nell'unità-distinzione col magistero spirituale ecclesiastico. Con la sua attenzione rigorosa all'assetto pacifico della civiltà e al riordinamento giuridico, Giustiniano indica secondo l'Alighieri il compito essenziale della monarchia, vale a dire l'instaurazione della giustizia come fondamento dell'ordine della società umana.
Come esempio di buona amministrazione politica, alla fine del Canto VI del Paradiso Dante cita il caso di Romeo da Villanova ("luce la luce di Romeo, di cui/ fu l'ovra grande e bella mal gradita", Paradiso, VI, 128-129) che, dopo aver ben operato come ministro di Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, si offese per le accuse di malgoverno ingiustamente rivoltegli da cortigiani invidiosi, si dimise dalla carica e visse poi come mendicante. La figura di Romeo, "persona umile e peregrina" (Paradiso, VI, 135), qui risplende ed è emblematica della solitudine dell'uomo retto e giusto, calunniato e perseguitato sulla terra, che sopporta le sue tribolazioni e le ingiustizie subite nella coscienza della propria rettitudine e nell'affidamento al provvidenziale riconoscimento divino. Ma chi agisce male e danneggia gli altri, non sa cosa sia la vita buona, non conosce il buon cammino dell'umanità né la felicità autentica: "mal cammina/ qual si fa danno del ben fare altrui" (Paradiso, VI, 131-132). Una persona umile e giusta come Romeo, con la sua dignità e forza d'animo, viene qui indicata dal poeta come massimo esempio e testimonianza di umanità.
Concludiamo questa parte proponendo un'interpretazione che non ci sembra azzardata e che speriamo sia ampiamente condivisibile. Le posizioni di Dante sulle questioni della pace e della giustizia, l'anelito alla fraternità e all'eguaglianza, la sua netta opposizione alle lotte civili insensate e fratricide, alla cultura della guerra e a ogni culto della violenza consentono di considerarlo come un antesignano, un vero e proprio precursore di quella cultura della pace che, secondo il disegno utopico-concreto di Ernesto Balducci, dovrebbe essere il fondamento di una nuova  etica planetaria, della civiltà dell'uomo planetario.
 
Nota
[* Uno stimolante percorso attraverso la storia, la letteratura, l'arte e la cultura italiane seguendo la traccia della Divina Commedia è il volume di Giulio Ferroni, L'Italia di Dante. Viaggio nel paese della 'Commedia', La nave di Teseo, Milano 2019.]