Nel
X Canto del Purgatorio alle anime dei superbi è imposta la meditazione dei due
opposti dell'umiltà (la virtù) e della superbia (la colpa che si purga), dove
l'insistenza dell'autore è particolarmente sulla vanità dell'umana superbia. In
Dante è sempre vasto tanto il campo delle colpe e dei vizi umani come la
superbia, l'alterigia, l'iracondia, la violenza, la protervia, la megalomania,
la vanità, l'orgoglio, la presunzione, il disprezzo, la gloria, etc. quanto il
campo delle virtù come l'umiltà, la pietà, la giustizia, la misericordia,
l'amore, la bontà, etc.
Dante
sottolinea ad esempio la giustizia e la pietà dell'imperatore Traiano, il suo
gesto di maxima humiliatio nei confronti del dolore materno di una
"vedovella" "miserella" (cfr. Purgatorio, X, 77, 82, 93),
gesto così commentato dal Benvenuto: "Certe maxima humiliatio fuit quod
altissimus princeps ita inclinaret imperatoriam maiestatem ad audiendam
mulierculam plorantem sub superbis signis, in campo martio superbo, inter
equites superbos".
Ma
proprio caratteristiche e qualità umane mirabili come l'umiltà, la mitezza, la
cortesia, la gentilezza, la generosità, la pietosa sollecitudine, la bontà
vengono considerate dai superbi e dai prepotenti come inequivocabili e
vergognosi segni di debolezza. I superbi sono forti, sprezzanti coi deboli e
sono deboli, servili coi forti, perciò sono esseri spregevoli e ignobili, come
la prepotente consorteria degli Adimari: "L'oltracotata schiatta che
s'indraca/ dietro a chi fugge, e a chi mostr 'l dente/ o ver la borsa,
com'agnel si placa" (Paradiso, XVI, 115-117. Sulla stirpe degli Adimari e
su tutti coloro che sono animati da spirito di sopraffazione e di prepotenza si
veda lo sdegno di Dante anche in Inferno, VIII, 31-63).
Nel
X Canto del Purgatorio, bassorilievi marmorei propongono esempi di umiltà
esaltata e di superbia punita. Il contrasto e la tensione fra l'antica superbia
e l'umiltà riscoperta sono avvertiti con una forte e drammatica intensità.
I
superbi sono una schiera di anime procedenti lentamente e faticosamente, curve,
sotto il peso di enormi macigni. I volti, un tempo superbi e altezzosi, ora
sono costretti a chinarsi verso terra; i superbi si piegano e contorcono, la
loro grandezza falsa e proterva è scomparsa completamente.
Dante
insiste sulla stupida vanità della superbia umana, dei "superbi cristian,
miseri lassi", infelici dimentichi della miseria comune a tutti gli
uomini, ciechi di mente ("de la vista de la mente infermi", cfr. Purgatorio,
X, 121-122), che ripongono la loro fiducia in cose effimere e vane, illudendosi
di salire in alto, ma ripiombando in realtà nella disgrazia. Anche altrove il
Nostro conferma la sua critica più volte ribadita del comportamento reale dei
cristiani e l'esigenza pressante di un ritorno alla pratica evangelica genuina:
"Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:/ non siate come penna ad ogne
vento,/ e non crediate ch'ogne acqua vi lavi./ Avete il novo e 'l vecchio
Testamento,/ e 'l pastor de la Chiesa che vi guida:/ questo vi basti a vostro
salvamento./ Se mala cupidigia altro vi grida,/ uomini siate, e non pecore
matte,/ sì che 'l Giudeo di voi tra voi non rida!/ Non fate com'agnel che
lascia il latte/ de la sua madre, e semplice e lascivo/ seco medesmo a suo
piacer combatte!" (Paradiso, V, 73-84).
Riferendosi
al paragone dell'uomo col verme, un tema biblico e patristico presente anche in
Agostino d'Ippona (il quale rileva in un importante trattato esegetico del 416,
In Iohannis Evangelium, I, 13: "Omnes homines de carne nascentes quid sunt
nisi vermes?"), Dante scrive: "non v'accorgete voi che noi siam
vermi/ nati a formar l'angelica farfalla,/ che vola a la giustizia sanza
schermi?" (Purgatorio, X, 124-126).
Il
poeta sottolinea che l'anima umana, come "angelica farfalla" (Purgatorio,
X, 125), si ritrova nuda di fronte alla giustizia divina, rispetto alla quale
non può sperare alcun vantaggio da tutti quei beni terreni - come le ricchezze,
il potere, gli onori, la fama - che garantiscono solo una gloria vana e sono
transitori; soltanto sulla terra essi sono ragione di orgoglio e danno
l'illusione della potenza. Non vi è invece alcuna ragione di insuperbire, dato
che siamo "entomata in difetto" (cfr. Purgatorio, X, 128), ossia come
insetti imperfetti, come bruchi che non hanno ancora compiuto il loro sviluppo.
Grande
è la pena e la sofferenza dei superbi ("qual più pazienza avea ne li
atti,/ piangendo parea dicer: 'Più non posso' ", cfr. Purgatorio, X,
138-139), perché grave è la loro colpa, grande il loro peccato, con cui vengono
letteralmente rovinate le vite degli individui e va drammaticamente sprecato il
senso stesso della vita umana.
Grande
è la "caligine del mondo" (cfr. Purgatorio, XI, 30) provocata dalla
superbia, caligine perché offusca la mente dei mortali quando intendono fare
dell'uomo l'Onnipotente, qualcosa di simile a un Dio. La nebbia del peccato e
del male offusca la purezza delle anime e oscura l'orizzonte della nostra
esistenza.
Già
per il pensatore presocratico Eraclito di Efeso la ὕβρις fu il peggiore dei
mali umani, in quanto misconoscimento del senso della misura e trasgressione
insensata/rovinosa dei limiti posti agli uomini. Infatti egli scrive nel
frammento 43 (Diels-Kranz): "ὕβριν χρὴ σβεννύναι μᾶλλον ἢ
πυρκαϊήν" ("Bisogna spegnere la superbia ancor più di un
incendio").