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domenica 11 ottobre 2020

DANTESCA
di Franco Toscani


Opera di Vinicio Verzieri
 
 

6. L'amore come principio di ogni virtù e di ogni vizio 


Come si sa, la classificazione delle anime nel Purgatorio non si basa, come quella dei dannati nell'Inferno, sulle colpe effettivamente commesse, ma sulle tendenze al peccato. Tutto parte per Dante dall'amore inteso come principio di ogni virtù e di ogni vizio. Soffermiamoci dunque brevemente sulla dottrina dell'amore così come viene esposta soprattutto nella seconda parte del Canto XVII (vv. 76-139 in particolare) del Purgatorio, in cui l'angelo della pace invita ad amarci secondo l'insegnamento evangelico, esortando a fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. Mc 12, 31; Mt 22, 39).
Mentre l'angelo della pace, con il soffio della sua ala, cancella dalla fronte di Dante il terzo segno del peccato, dice anche: "Beati/ pacifici, che son sanz'ira mala!" (Purgatorio, XVII, 68-69). Oltre a richiamare la beatitudine evangelica (cfr. Mt 5, 9), qui come altrove il poeta si rifà ampiamente pure alla Scolastica medioevale, in particolare alla Summa theologiae di Tommaso d'Aquino (II, II, q. CLVIII, 1-3), che distingue tra ira mala, irragionevole, deprecabile e ira bona, per zelum, indignazione buona, sdegno ispirato dallo zelo del bene e della giustizia (cfr. anche Inferno, VIII, 43-45).
L'attenzione di Dante è tutta rivolta al discorso fondativo sull'amore, ancora una volta col riferimento fondamentale alla Summa theologiae. Come sappiamo, dal punto di vista teologico e filosofico l'insegnamento della Scolastica e in particolare quello di Tommaso d'Aquino è centrale in Dante.
Ora, secondo questo discorso, sia Dio sia tutte le creature sono mossi da amore. Dio, il "primo ben" (Purgatorio, XVII, 97) al cui cospetto s'adeguano perfettamente l'affetto e il senno (cfr. Paradiso, XV, 73-78), è essenzialmente amore e così pure tutte le creature sono mosse da un qualche amore. Nella visione di Dio si accende l'amore, frutto della beatitudine (cfr. Paradiso, XXVIII, 109-111 e Paradiso, XIV, 41). Nel momento in cui la mente del poeta viene "percossa" dalla folgorazione ("fulgore") della rivelazione del mistero divino (cfr. Paradiso, XXXIII, 140-141), con tutto il suo affetto e senno, amore e intelligenza, volontà e ansia di sapere egli s'innalza alla condizione degli spiriti beati. 
Non dimentichiamo mai che Dante è costantemente rivolto al cielo, a Dio, al "fine di tutt'i disii" (Paradiso, XXXIII, 46. Cfr. anche Tommaso, Summa theologiae, II, II, q. CXXII, 2 e q. CLXXXIV, 1, dove Dio è definito "ultimus finis humanae vitae"), all' "amor che move il sole e l'altre stelle" (Paradiso, XXXIII, 145) e, nel contempo, è sempre attento e tratta concretamente di ciò che accade sulla terra.
L'amore può essere di due tipi, "naturale o d'animo" (ex animo, cfr. Purgatorio, XVII, 91-93 e Tommaso, Summa theologiae, I, q. LX, 1).
L'amore naturale o istintivo, innato, tende al suo fine ed è sempre giusto, ma l'amore "d'animo" (o voluto, di elezione), in cui intervengono intelligenza e volontà dell'agente, può errare "per malo obietto" (se è rivolto a una cosa cattiva) o per "troppo di vigore" (se è rivolto a una cosa buona con troppa intensità) o per "poco di vigore" (se è rivolto a una cosa buona con troppa tiepidezza e negligenza).
L'amore d'elezione "per malo obietto" conduce a desiderare il male del prossimo attraverso la superbia, l'invidia e l'ira; quello per "poco di vigore" o "lento" (cfr. Purgatorio, XVII, 130) è amor defectivus boni summi (scarso amore del sommo bene, come dice Benvenuto nel suo commento già citato) ed è l'accidia; quello "per troppo di vigore" ama smisuratamente i beni terreni tramite l'avarizia, la gola e la lussuria. In tutti questi casi la creatura agisce contro il suo "Fattore", Dio, il "primo ben" principio d'amore (cfr. Purgatorio, XVII, 91-102).
Superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria sono, nell'ottica dantesca, le sette forme fondamentali di inclinazione al peccato e si purificano nei sette gironi del Purgatorio. Superbia, invidia e ira sono punite nei tre primi gironi di questa Cantica.
La superbia viene così ottimamente definita nella Summa theologiae di Tommaso (II, II, q. CLXII, 3): "superbia dicitur esse amor propriae excellentiae, in quantum ex amore causatur inordinata praesumptio alios superandi" ("si chiama superbia l'amore della propria eccellenza, in quanto da esso amore deriva una smodata presunzione di superare gli altri").
Nel Canto XI (vv. 86-87) del Purgatorio, Dante aveva già definito la superbia "lo gran disio/ de l'eccellenza ove mio core intese"; nel Canto XVII (vv. 115-117) della medesima Cantica egli conferma quanto detto in precedenza, precisando sul superbo: "E' chi per esser suo vicin soppresso/ spera eccellenza e sol per questo brama/ ch'el sia di sua grandezza in basso messo". Il superbo, dunque, vuole e spera di eccellere abbassando e danneggiando gli altri.
L'invidioso, invece, si affligge dell'eccellenza altrui (per Tommaso l'invidia è "tristitia  de bonis alicuius, in quantum alter excedit ipsum in bonis", "tristezza del bene altrui, in quanto un altro lo supera nel bene", cfr. Summa theologiae, II, II, q. XXXVI, 1-3): "è chi podere, grazia, onore  e fama/ teme di perder perch'altri sormonti,/ onde s'attrista sí che 'l contrario ama" (Purgatorio, XVII, 118-120).
L'iracondo è poi colui che è pieno di risentimento, avido di vendetta e incapace di autocontrollo: "è chi per ingiuria par ch'aonti,/ sí che si fa della vendetta ghiotto, e tal convien che 'l male altrui impronti" (Purgatorio, XVII, 121-123. Sull'ira abbiamo già riferito del pensiero di Tommaso in quella mirabile opera che è la Summa theologiae).
Per sfuggire questi e altri mali, solo ispirandosi alla "buona essenza" divina, "d'ogne ben frutto e radice" (Purgatorio, XVII, 134-135) - soltanto Dio infatti possiede ogni perfezione secondo la propria essenza, come dice ancora Tommaso nella Summa theologiae (I, q. VI, 3) -, gli uomini potranno amare e godere con misura dei beni mondani.
Nel Canto XXIV del Purgatorio, a proposito del "dolce stil novo", scrive Dante: " I' mi son un, che quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch'e' ditta dentro vo significando" (Purgatorio, XXIV, 52-54). Qui è l' "Amor", dunque, il "dittator" (Purgatorio, XXIV, 59) del cuore del poeta. Non è forse l'amore dell'umanità e del mondo che spinge i poeti e i pensatori a essere wesentlich gli scrivani, i trascrittori del dettato di questo amore? Si tratta qui di un amore del tutto peculiare, che sorge da una grande conversione dei cuori e delle coscienze, dalla presa di distanza da ogni meschinità e grettezza, da un profondo rinnovamento interiore, dalla tensione a una rigenerazione morale.