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lunedì 30 novembre 2020
Oggi vogliamo che tutti
sappiano cosa sta succedendo nel Campo profughi di Mahkmour, oggi vogliamo dare
voce a chi voce non ha.
LE ENCLICLICHE DI BERGOGLIO
di
Emilio Molinari
Dialogando
con Mario Agostinelli
Il
lavoro di Mario sull'Enciclica Fratelli tutti è una importante sintesi
per aprire un dialogo nelle associazioni “sorelle”.
Concordo
con quanto scrive, e siccome scambio le mie opinioni con lui solo
telefonicamente, tento di interrompere la pigrizia da isolamento Covid e
mettere per iscritto le telefonate. Parto dallo scritto di Mario, e cerco di
metterne in fila alcuni punti. I paradigmi li chiamerei così, con i quali cerchiamo
di ricostruire (riprogrammare) i movimenti e la politica del XXI secolo.
Parto
dal punto fermo che sta nelle due Encicliche e prima ancora nelle grida degli
scienziati sulla salute del Pianeta: la portata del disastro e il tempo
limitato a disposizione per affrontarlo... il lento declino della vita vegetale
e animale. Ciò dà il segno al nostro tempo.
Per
noi che ci parliamo, ci scriviamo ecc. sembra cosa scontata, non sentiamo il
bisogno di ribadirlo in ogni occasione, ma va fatto, perché non è scontato per
la maggioranza della gente. Non lo è, o lo è timidamente o lo è in modo
mistificato o elitario, per il popolo democratico, che pure è l'unico tenue
argine al negazionismo ambientale del popolo di destra.
E
questa non priorità culturale, ci limita nel trovare la strada per parlare alla
mente e ai sentimenti di questa destra che un tempo era il nostro popolo. Era
il mio popolo ed è una sofferenza innaturale, saperlo dall'altra parte. C'è
qualcosa di arrogante nei termini populismo e sovranismo, nel trasformare il
popolo e la sovranità popolare in qualcosa di spregevole. La Fratelli tutti
solleva il dubbio che forse qualcuno si è troppo allontanato dal popolo e dai
suoi bisogni. Ma le Encicliche non hanno suscitato il moto auspicabile delle
coscienze, non hanno trovato molti predicatori trasversali, nemmeno tra i
compagni più a sinistra. Ha prevalso in loro l'abitudine dei propri pensieri:
l'ostilità atea, resa una religione, per tutto ciò che odora di preti e di
Vaticano, il positivismo scientifico, l'arroganza modernista e materialista di
essere nel senso della storia. Con il movimento dell'acqua si era aperta una
strada, dal basso, tra la gente e per un attimo si era aperto quel dialogo
trasversale su di un tema solidale come la materialissima realtà della
crisi idrica mondiale e della mercificazione di un bene comune indispensabile
base della vita.
Si
era anche visto che non aveva scalfito la politica e le granitiche abitudini
degli attivisti. La crisi dell'acqua mi aveva fatto scrivere che il paradigma
del secolo sarebbe stato Salvare il Mondo e che con questo: cambiava tutto.
Questo
punto fermo, scrive Mario, ci dice che occorre: separarci definitivamente
dall'idea dello sviluppo. Da due secoli questo dogma impregna tutta la
politica, magari presentato come “sviluppo sostenibile. Crescita del PIL come
oggettività universale e scientifica. Sinonimo di democrazia e libertà della
persona. A questo dogma non si è ancora sottratta la sinistra e nemmeno il
sindacato più radicale. Una illusione di massa: la torta (la ricchezza
prodotta) va comunque sempre aumentata se si vuole redistribuirla. Ma la
portata del disastro fa sì che lo sviluppo deve cedere il passo al bisogno di
sopravvivenza e qui sta il cambio e la necessità della rottura. È questo
il passaggio dall'era passata, alla nostra era.
Crescita
o decrescita o sobrietà, non importa come chiamare la necessità di ritornare
al valore d'uso come primaria condizione che comunque vuol dire produrre e
consumare meno e che non basta “il riciclo”.
Pensare
o riflettere attorno al ridurre il superfluo e l'ostentato, solleva immediate
reazioni, pensare a una decrescita governata dalla politica e dal consenso
popolare, è solo una utopia green, mentre il Covid con materialistico realismo
ci costringe ad una decrescita globale senza precedenti nella storia. Non
governata, disordinata come la rotta di un esercito sconfitto. Non si vuol
vedere e non se ne parla, che il Covid è figlio del Pianeta violentato dalla
distruzione delle foreste, degli allevamenti intensivi, delle piattaforme
produttive globali, dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua. È quindi il
Pianeta che ci sta obbligando ad una decrescita e lo farà sempre di più se non interviene
una rottura nel pensiero, fare i conti antropologici, economici,
finanziari, con la nuova era.
Venendo
alle considerazioni diverse: L'Enciclica Fratelli tutti tratta due
questioni che ci chiamano a questa rottura.
Il
lavoro e la fraternità.
Il
lavoro: portare il lavoro e la natura dalla stessa parte. Non è cosa
facile, è l'impegno e la prassi della conversione ecologica dell'economia. ne
parliamo da decenni e da decenni ci scontriamo con i lavoratori e non è una
teoria da proferire in un dibattito per poi lasciare tutto come prima. Non è
nemmeno ridurre la rottura a solo azioni personali: non mangio carne e se tutti
lo fanno... non prendo la macchina e se tutti lo fanno, ecc... È un processo
che si scontra con il tempo e si scontra soprattutto con il lavoro e i
lavoratori. Lo stesso vale se chiedi di ridurre il cemento, il petrolio, il
pesticida, la plastica. Insorgono
lavoratori, padroni e politica.
Molti
soggetti si candidano a protagonisti nella scena della trattativa con i
potenti: gli scienziati, le donne, gli studenti.
Il
mondo del lavoro è sparito, eppure:
-
Senza un mondo del lavoro cosciente in cui la posta in gioco è la vita, non c'è
conversione ecologica. Se non ci si rende conto che è posto in un ruolo
“privilegiato" dove può esercitare un controllo e una decisionalità, come
lo può fare lo scienziato, non c'è conversione ecologica.
-
Senza il
lavoro, i diritti sociali e la natura dalla stessa parte, le popolazioni
restano radicalmente e politicamente spaccate in due. Incapaci ad affrontare la
sopravvivenza della specie.
-
Senza
questa rottura epocale che li rimette in gioco come soggetti attivi della conversione
ecologica, i lavoratori escono dalla storia e diventano soggetti negativi
dentro un immane scontro.
Andare
oltre la classe e riconquistare la scena mondiale.
Il
lavoro di per sé non dà dignità e oggi, per molti, è schiavitù.
Ho
vissuto il tempo dell'orgoglio operaio per il proprio mestiere o del proprio
ruolo sociale e so che queste erano le cose che davano dignità al lavoro. La
davano a chi lo sentiva come realizzazione delle proprie mani, del proprio
cervello o a chi sentiva, anche alla catena di montaggio, che stava trattando
con i potenti, l'avvenire di tutti.
È
cambiare tutto e riproporre in modo diverso molte questioni.
Questo
ci chiede a noi, associazioni impegnate, ce lo diciamo da tempo con Mario ed altri,
alcune predisposizioni a:
- rivolgere la
“predicazione” e la formazione alla nuova era, oltre che ai giovani e alle
scuole, al mondo del lavoro.
- tradurre la complessità
degli argomenti, praticando un linguaggio che spesso è di bisogni inascoltati e
oscurati dal risentimento, cercando superfici di contatto. Diamo per scontato
l'incomunicabilità di due mondi e che gran parte del lavoro e della
disoccupazione stia ormai nell'altra barricata, mentre si tratta di uscire noi
dalla nostra barricata, che spesso si presenta antipatica, con la vanità del
colto, l'invenzione dei termini e la priorità dei suoi desideri.
unire
i cantieri dei lavori in corso, pervasi da autoreferenzialità.
Le
Encicliche vanno oltre, ci chiedono di rielaborare i concetti e le pratiche del
conflitto di classe, del femminismo, dell'unità.
Quando
l'enciclica Fratelli tutti inverte l'ordine delle priorità nella
triade: libertà, eguaglianza, fraternità, mettendo la fraternità al primo
posto, opera una rivoluzione culturale che molti compagni e compagne
liquideranno per cattolica, ma per una attenta lettura laica è la materialità
del disastro della Casa Comune che lo impone.
Essere
fratelli tutti, è qualcosa in più dell'eguaglianza, è coscienza che la libertà,
senza fraternità, è anche individualismo è anche indifferenza, che la “malattia”
del pianeta o del singolo è la tua “malattia”, che laicamente qualcuno
scriveva: “l'uomo non è un’isola, è un continente... non chiederti perciò per
chi suona la campana. Suona anche per te”.
Fraternità
dà un senso universalistico ai contenuti alle lotte.
Non
è la fine dei conflitti, e delle contraddizioni di classe o tra uomo e donna. È
qualcosa di molto difficile a cui tendere nei conflitti, animandoli con l'unità
di tutti. Conflitto difficile, che cerca la condivisione per affrontare la
conversione ecologica.
Siamo
sulla stessa barca. È un concetto che per la mia cultura era una presa in giro
capitalista e lo è ancora quando chiede sacrifici ai lavoratori per la
prosperità dell'azienda “bene comune”. Quando chiede al lavoratore e ai
cittadini di cogestire il proprio impoverimento.
Viviamo
da decenni in questo regime miserabile di “cogestione”.
Ma
diverso sarebbe il senso di questo termine se fosse partecipazione dei
lavoratori alla gestione delle aziende per gestire la cura del bene comune o
iniziare la loro transizione ecologica.
Penso
all'acqua e alle reti idriche, all'energia, ai trasporti, ai fallimenti di
queste politiche e dei disastri privati di tali aziende.
Cogestione/partecipazione/unità
da conquistare, con il conflitto, con la contrattazione con lo spirito della
fraternità.
domenica 29 novembre 2020
Teatro
TORNA ESCHILO*
di Daniela Marcheschi
L’Agamennone nella traduzione del poeta Cagnone
e tavole del pittore Paladino
Nanni Cagnone - nato a Carcare, Savona,
nel 1939 - è una delle maggiori personalità della nostra letteratura
contemporanea. Autore di notevole originalità, è anche abile traduttore,
saggista, giornalista, editore. Inoltre ha scritto di pittura ed è stato anche
direttore creativo di agenzie di pubblicità e docente d’estetica.
Ora Cagnone si ripresenta in veste di traduttore - e che traduttore -dell’Agamennone di
Eschilo, in una raffinata edizione accompagnata da un suggestivo “Racconto per
figure” di Mimmo Paladino. La sensibilità per il linguaggio e la capacità
inventiva dell’autore ligure risaltano nell’incontro con la potenza espressiva
dell’Eschilo dell’Orestea, la trilogia di cui Agamennone è la
tragedia d’apertura. Agamennone racconta del figlio d’Atreo,
signore d’Argo e capo degli Achei vittoriosi a Troia, che fu ucciso per
congiura di Egisto e di Clitemnestra: l’uno voleva vendicare il padre Tieste, l’altra,
già moglie di Agamennone, non gli perdonava il sacrificio della loro figlia
Ifigenia, compiuto per aver venti favorevoli alla partenza per la guerra di
Troia.
Nanni Cagnone
Un Cagnone in stato di grazia dà così vita alla forse più bella versione
moderna della tragedia eschilea, tanto più ammirevole quanto più aumentano oggi
i traduttori, ma scarseggiano i poeti. Cagnone riesce a restituirne la forza
visionaria, l’aura mitica e gravida di oscure minacce in una lingua ricca di
felici invenzioni lessicali, che sa impennarsi e solidificarsi in un «ritmo
imperterrito, senza ostentazione», come si legge nell’introduzione di Cagnone.
È un ritmo di sapore arcaico e moderno insieme. Bastino i versi del primo
stasimo: «O Zéus sovrano e aiutante Notte, / acquisto di grandi ornamenti, / tu
che sui baluardi di Troia / gettasti la rete che ben ricopre» (vv. 356-361).
Oppure le parole di Agamennone, lieto di far ritorno a casa dove è accolto da
una Clitennestra dissimulatrice: «Sì, rari gli uomini / in cui innato un
rispetto senz’invidia / per l’amico che ha fortuna, poiché / seduto presso il
cuore, l’astioso veleno / raddoppia il peso a chi ha contratto il male: / è gravato
colui delle sue pene / e riguardando l’estranea floridezza geme. / Per
esperienza, ben conoscendo lo specchio / della società, potrei dire simulacri d’ombra
/ quei che credevo assai devoti» (vv. 833-840).
La copertina del volume
Eschilo
Agamemnon.
Cura e traduzione di Nanni Cagnone
Tavole di Mimmo Paladino.
Edizioni Galleria Mazzoli, Modena
Pagg. 180 - € 50,00
Per richieste:
Galleria Mazzoli Tel. 059 - 243455
info@galleriamazzoli.com
[*Il Sole 24Ore - 30-1-2011]
INTORNO A FUGHE
di
Maria Jatosti
Maria Jatosti
Una
lettera recensione al libro di Abati
Caro
Velio,
in
questo diffuso stato di attonita sospensione, in questo tempo strano sfuggente
e insieme plumbeo, che tarpa il respiro toglie l’aria ai pensieri e ti cunnola
in una torpida parodia di normalità poco più che animale, tra un inabissamento
e una forzosa riemersione, mi dispongo finalmente a scriverti queste due righe
spero non troppo stralunate.
Prima
di tutto grazie. Ho dovuto/voluto aspettare un po’ per leggere il tuo libro.
Ero sprofondata nella fascinazione di una grande storia raccontata in prima
persona da una sorta di matto di paese, che matto non è per nulla, e il paese
essendo un luogo che conosco e che mi è caro, bellissimo antico e arioso,
prodigo di artisti e di poeti e soprattutto di amori e di amici dell’anima, di
mattìe belle di quelle che ti riportano alla felicità della vita. Un bel
lavoro, un grande libro che mi ha immerso prepotentemente, con la forza di
un’affabulazione allucinata ma trasparente, nel grande racconto della nostra
storia di noi tutti di questa parte di mondo e di questa umanità così
malconciata e derelitta che l’avidità di ingordi dominatori satrapi e sciacalli
e il servilismo di biechi accattoni e loschi gazzettieri ha deprivato perfino
dell’urlo della disperazione. Un’esperienza dello spirito densa, felice,
stimolante e benedetta nel panorama di questi giorni oscuri e limacciosi.
Terminata
la corposa lettura del “fiommista” Liborio* senza soluzione di
continuità temporale e emotiva mi sono ritrovata in un altro incantamento,
braccia nude, occhi e sensi spalancati a nuotare nelle acque mosse e
rigeneratrici del tuo mare gonfio di ragionamenti riflessioni riferimenti
dissertazioni filosofiche allusioni scotimenti chiamate alle armi propedeutici
esami di coscienza, pungenti memorie di eroiche e sperperate stagioni di vita e
di lotte, vittorie e batoste cocenti, epifanie e catastrofi bellezze e orrori
di una storia pubblica e privata. È stato bellissimo. E dunque grazie caro
Velio. Per la condivisione lucida e appassionata per la perfetta adesione allo
spirito e spesso alla lettera che ho provato leggendoti. Ci sono momenti,
passaggi, intere pagine in queste tue Fughe, che
io, comunista senza classe e senza partito, con un po’ di spavalderia,
una punta di egoismo e molto narcisismo, ostinatamente ancora “in cerca di
nuovi compagni contemporaneamente resistendo […] all’entropia degli abbandoni
di quanti della nostra parte abbiamo incontrato” - vedi in particolare là dove
evochi la storia, la vita del partito, il fervore giovanile, le domande, le
delusioni, le prese d’atto - ho sottolineato e sottoscritto con effusa
commozione, complice probabilmente una strabordante emotività senile. Di tutto
questo e altro ti dico grazie. L’altro è dove irrompono luminosi squarci di una
nomenclatura cara e dolce e antica e spuntano struggenti malinconie di volti,
presenze, personaggi, ritratti - bellissimo quello di Ruth - amori, primavere,
ragazze meteore, sogni… E dove, caoticamente assemblati come in un quadro di
Mirò, vagano immagini o singoli oggetti di memoria: un albero (era un noce o un
leccio?) una casa di campagna un ragazzino gentile un salone una tavola
imbandita il canto di una cincia lo starnazzare di un pollaio sul retro gli
attrezzi della terra nella rimessa di babbo V.
il suono di una fisarmonica una canzone: Tutti ti dicon Mà… La nostra
Maremma, la bicicletta di Maria Pia al mare dell’Uccellina, l’apparizione di un
cervo sulla strada sterrata, il giardino intelligente dell’Alberese, la casa di
Biancamaria Frabotta, e poi quella città, quella scuola, quelle strade, quella
miniera, quelle chiacchierate, quei silenzi, quelle confidenze turbate, quei
sorrisi, quelle complicità... Il sapore dolce dell’amicizia…
Grazie
Velio.
[Roma,
26 novembre 2020, Anno I della Nuova Peste]
*Remo
Rapino, Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
Minimum fax, 2020.
Maria Jatosti |
FRESCHI DI STAMPA
“È il suo libro migliore”.
Fulvio Papi
Gabriele Scaramuzza
Passaggi
Passioni, Persone, Poesia
Mimesis Edizioni 2020
Pagg. 158 € 14,00
Mario Rondi
Il canto del Luì
Fermenti Editrice 2020
Pagg. 218 € 19,50
Jordi Maíz
Né zar né sultani
Anarchici e rivoluzionari del Caucaso
Ediz. Zero in Condotta 2020
Pagg. 128 € 10,00
I CORTI
Visioni
dal lockdown,
antologia dei “corti” di Chiara Pasetti e Mario Molinari. Con le canzoni di
Achille Lauro.
L’antologia
“Visioni
dal lockdown” è una prova di sintesi di un video racconto,
costituito da diciotto cortometraggi musicali, iniziato tra il sette e l’otto
marzo, poco prima del discorso del Presidente del Consiglio e dell’inizio del
lockdown per contenere l’emergenza sanitaria.
Achille
Lauro ha aderito al progetto concedendo
l’utilizzo delle sue canzoni.
Il primo corto, dal titolo “Io resto a casa, non me
ne frego”, è composto da interventi di studenti di scuola
media e superiore.
Subito dopo averlo pubblicato su youtube ne abbiamo
realizzato un secondo in cui abbiamo domandato ai ragazzi di mostrare cosa
stessero facendo a casa: un modo per coinvolgerli nuovamente ma anche per far
notare che una situazione di privazione delle nostre libertà in nome della
salute pubblica può diventare un’occasione per coltivare passioni e interessi.
“Io
resto a casa, ma non mi fermo”, con gli studenti che si
filmano mentre cucinano, fanno ginnastica, dipingono, imparano a fare il bucato
e molto altro, è il secondo corto pubblicato.
Non ci siamo più fermati.
Abbiamo realizzato diciotto video, uno alla
settimana, dall’11 marzo all’11 luglio (giorno in cui Lauro ha compiuto
trent’anni); li abbiamo diffusi su youtube dal canale indipendente “Ninin” con
un articolo di accompagnamento su “La Nuova Savona”, quotidiano on line diretto
dallo stesso Molinari. Il Comune di Finale Ligure ha creato una playlist di
tutti i video sul sito “Turismo e Cultura”.
Alla fine del lockdown, a maggio il progetto ha
mutato il titolo principale “Io resto
a casa” in “Aspettando”.
Abbiamo trattato molti temi, che si sono intrecciati
con ricorrenze nazionali quali la Festa della Liberazione (“Senza cognomi”, con la splendida Dio
ricordati), la Festa della Mamma (in cui la struggente Penelope
e i filmati scelti raccontano un tema universale, l’amore incondizionato), la Festa
dei Lavoratori (“Come cambierà”),
la Festa della Repubblica (è il
solo corto il cui titolo non è tratto da versi di Lauro bensì dalla profetica Povera Patria di Franco Battiato).
Il corto intitolato “Senza scritti”, che vede
la partecipazione di quattro maturandi novaresi, è dedicato all’esame di maturità 2020; termina sulle note di Dance All Nite di Luisa “Lu” Colombo,
nota per Maracaibo. E ancora, si
trova nel progetto un corto sulle difficoltà connesse all’emergenza del mondo
della cultura, dello spettacolo e della musica, altri sui sentimenti del
coraggio e della paura, della solitudine, e sull’antitesi normalità/diversità.
Il video numero diciassette, “È una giungla”,
costituisce un unicum: di durata doppia rispetto agli altri, è dedicato al
binomio giornalismo
e democrazia e vede gli interventi di
alcuni giornalisti italiani che testimoniano quanto sia importante, specie in
questo momento, fare “buona informazione”. Tra i tanti contributi anche quello
di Francesca Nava, inserito nell’antologia.
Ogni video, in cui spesso compaiono paesaggi liguri
e in particolare della provincia di Genova e di Savona, ha potuto contare sulla
collaborazione di amici e professionisti che hanno interpretato brani in prosa
e in poesia di Giacomo
Leopardi, Salvatore Quasimodo, Antonia Pozzi, Alda Merini, Gustave Flaubert,
Camille Claudel, Octave Mirbeau e altri
grandi autori (talvolta tradotti per la prima volta in lingua italiana).
Da
tutto questo lavoro, che ci ha accompagnato durante i mesi più duri
dell’emergenza sanitaria attraversando molteplici emozioni, abbiamo estratto
l’antologia “Visioni dal lockdown”.
Un
filmato, con la colonna sonora di Achille Lauro, che vede la partecipazione di
studenti di scuola media e superiore di Genova, Novara, Finale Ligure e Borgio
Verezzi; brani in prosa e in poesia interpretati da Lisa Galantini, Massimo
Rigo, Federico Vanni, Mario Molinari; un saluto del partigiano Argante Bocchio,
“Comandante Massimo”; un intervento di Francesca Nava; un monologo di e con
Matteo Bonvicino; frammenti di film.
Dal
mese di settembre 2020 il video progetto è ricominciato con il titolo di “Aspetto la fine”. Realizzeremo
un corto al mese fino a giugno 2021; stanno aderendo diversi Istituti superiori
italiani, tra cui ACOF Olga Fiorini di Bergamo e Liceo G. Palizzi di Lanciano.
Ci
auguriamo che questo nostro lavoro possa aiutare gli studenti e tutti noi a
sentirci meno soli nel drammatico momento che stiamo vivendo.
Siamo
profondamente grati a Lauro De Marinis, nome all’anagrafe di Achille Lauro, per
aver aderito dall’inizio al video progetto con fiducia e generosità, rinnovando
la sua adesione anche per questa seconda fase appena iniziata.
Ringraziamo tutti gli studenti, i docenti, i
professionisti e gli amici che hanno partecipato e partecipano con entusiasmo e
sensibilità, e il Comune di Finale Ligure per l’aiuto nella diffusione dei
video. E infine ringraziamo sentitamente gli amici e i soci dell’Associazione
culturale “Le Rêve et la vie” per il costante incoraggiamento e il prezioso
sostegno.
Se non resteranno i nomi
resterà una storia.
Achille
Lauro
Cinema è quando gli occhi
miei si chiudono solo a guardarmi dentro.
Carmelo
Bene
[Chiara Pasetti e Mario Molinari]
Produzione Associazione
culturale
Le Rêve et la vie - Novara
APS Feelmare - Savona
Il 5 dicembre alle ore 21 ci sarà la prima proiezione online di Visioni dal lockdown. Sono acquistabili i biglietti previa registrazione sul sito del Teatro delle Udienze di Finale Ligure:
https://www.teatrodelleudienze.org/events/visioni-dal-lockdown-1
Il progetto è autofinanziato: chiunque acquisterà il biglietto potrà aiutarci a continuare a realizzare i video con gli studenti e l'adesione di Achille Lauro. Il filmato resterà online 24 ore, fino al 6 dicembre.
SPOSTAMENTO D’ASSE
di
Franco Astengo
Opera di Max Hamlet S.
Il
pensiero umano è chiamato a fare i conti con una necessaria presa d’atto:
l’infinito e progressivo itinerario della modernità sta subendo un vero e
proprio spostamento d’asse. Di conseguenza sta cambiando la politica.
L’emergenza
globale non sta producendo soltanto un accentuarsi delle disuguaglianze a tutti
i livelli e una recrudescenza della volontà di isolamento: è rimasta spiazzata
la stessa idea di progresso così come questa era stata già modificata, rispetto
agli itinerari novecenteschi, nel corso della fase che avevamo definito della
“globalizzazione”.
La
necessità di porre la questione sanitaria al centro della ricerca scientifica e
della stessa prospettiva della produzione sta spezzando la spirale della
crescita tecnologica così come la si poteva pensare fino a qualche tempo fa.
Ciò
avviene perché la priorità, all’interno del tema della salute pubblica, è
diventata quella del vaccino. Però non è tanto la questione del vaccino in sé
forse risolvibile direttamente sul piano industriale. Invece si sta transitando
verso un’idea della sanità rivolta alla conservazione dell’intera specie in
luogo della cura rivolta al singolo. Con la necessità di rivolgere a questo
obiettivo della conservazione una grande quantità di risorse.
Un
passaggio dall’individuo alla complessità del contesto sociale in una chiave di
conservazione. Questo sembra essere il vero punto di cambiamento che si sta
imponendo come vero obiettivo del pensiero umano.
Si
sta verificando un cambio di paradigma: dall’idea del progresso lineare e
infinito dentro al meccanismo del consumo, alla necessità dell’avanzarsi della
prevalenza della logica della conservazione della specie.
Un’egualitaria
conservazione della specie?
Una
conservazione della specie che necessariamente si dovrà cercare di rivolgere
verso un modello tendenzialmente egualitario. Così si restituirà un senso alla
classica distinzione tra destra e sinistra.
Una
diversità quella tra nuova destra e nuova sinistra che dovrà però misurarsi in un
profondo mutamento di senso complessivo.
Un
fatto del genere non era capitato neppure di fronte al richiamo del mutamento
climatico.
Sul
tema del mutamento climatico fin qui aveva avuto origine soltanto una diversa
dimensione nella lotta tra gli Stati e nello stesso processo di accumulazione
capitalistica. Adesso al passaggio epocale ci si sta incamminando per una via
sanitaria globale e forse non siamo per niente attrezzati.
Opera di Max Hamlet S. |
INTORNO A FUGHE
di
Lelio La Porta
Lelio La Porta
Riflessioni
sul recente libro di Velio Abati
“(…)
aliquid quo non consuevimus uti, quod nos adventu possit temptare
recenti (…) qualcosa a cui non siamo avvezzi, che possa farci ammalare con
l’improvvisa venuta”(1): è la constatazione di un
fatto, della pandemia della quale mai avremmo voluto sentir parlare e che,
invece, piomba con la sua devastante espansività nel nostro quotidiano. Di
certo Velio ha iniziato, come fa presente nell’Invito, a scrivere le sue riflessioni molto tempo fa, quando il
morbo ancora non infuriava, anzi quando di esso neanche si poteva immaginare
l’essere. Oggi quella situazione di partenza è superata dai fatti e le Fughe si presentano come una
contrappuntistica meditazione su questo tempo e questo mondo. Pensavo al titolo
mentre leggevo i racconti: nulla spartisce la fuga di Velio con quella
suggerita quasi mezzo secolo fa da Henri Laborit. Nel francese quasi lo
spavento di fronte alle cose del mondo, qui, nei racconti di Velio, lo
sconcerto di fronte al mondo che non giunge alla ripulsa, al rifiuto, allo
spaesamento bensì si colloca nel solido terreno di un disincanto quasi
scellerato nell’ansia di ricercare, fra Voci
di donne e uomini, come nella prima parte, oppure fra lo sterminato vocabolario
del non canto della politica e di un’esperienza vissuta su più fronti, fra un
ricordo di Fortini e una terzina di Dante, la solidità di un dire che è anche
un fare, l’amara, seppur non definitiva, consapevolezza che “la merce … è
libertà” (p. 139). Eccola la parola-chiave, anche se affidata ad uno dei
racconti più brevi di tutto il volume (superato in brevità da Congedo nel quale l’amore per
l’insegnamento si traduce nel recupero di un verso famoso dell’Internazionale nel quale si fa riferimento
alla futura umanità); spesso è proprio la brevitas
a dare il segno più tangibile di ciò che si vuole dire. Dunque, la libertà.
La vecchia nutrice di Fedra nella
omonima tragedia senecana, in serrato dialogo con la sua padrona, a
quest’ultima ricorda che qualunque cosa la sorte le serberà come conseguenza
delle sue parole, nulla per lei avrà significato di gravità in quanto “fortem
facit vicina libertas senem”. La
sentenza della nutrice ha, di solito, due traduzioni: “Il coraggio dei vecchi è
libertà che si avvicina” e “O vecchiaia, la libertà vicina ti fa forte”. In
entrambi i casi il significato profondo della proposizione sembra abbastanza
chiaro: chi si avvicina alla vecchiaia, o è già nella vecchiaia (2), sente la libertà,
garantita da un tempo minimo ancora di vita, come un bene da poter coltivare
con assoluto disincanto. In quel tempo chi è vecchio tutto si concede nel
giudizio e nel ragionamento. D’altronde la certezza della fine che si
approssima assicura a chi è vecchio una libertà di parola e di movimento che i
più giovani non hanno, anche in virtù del calcolo delle occasioni che la vita
può ancora offrire loro e che giudizi, tanto coraggiosi quanto imprudenti,
potrebbero mettere in discussione. Quindi, nel ragionamento di un insegnante
ormai lontano dal servizio per raggiunti limiti di età (stato che chi scrive
condivide con Velio) non è la merce ad essere libertà, non il denaro e il suo
uso rende liberi, non il consumo e le sue aberranti applicazioni rendono
liberi, nell’ottica di “una società senza pensiero” (p. 131), ma la libertà è
tale in quanto libertà pensata e agita.
Gli anziani (cerco di capire quanto scrive Velio a
proposito del rapporto fra anziani, ossia insegnanti, nel caso specifico, e giovani,
cioè studentesse e studenti), i quali godono, stando alle parole della nutrice
di Fedra, di una condizione di compiuto disincanto, che sono stati i maestri, e
poi i giovani, che hanno appreso da quegli anziani, non infuturino il loro
apprendimento nelle forme del dominio bensì lo propongano come dirigenti al
fine di non rendere insuperabili le crisi facendone un elemento consolidato.
Non bisogna aspettare, come il Candido di Voltaire, che si manifestino
terremoti, epidemie (cosa che è avvenuta nei modi terribili che ci ha proposto
il Covid 19) e guerre per prendere atto che c’è in corso una crisi che va
risolta senza demandare al futuro la sua soluzione. Questo non è il migliore
dei mondi possibili; è quello che è. E il disincanto compiuto degli anziani,
dei vecchi, può contribuire al raggiungimento della consapevolezza che la prima
fase dell’acquisizione della libertà come cardine intorno al quale ruota intera
la nostra vita passa attraverso l’acquisizione del fatto che noi siamo natura;
il nostro essere natura nella natura non ci costringe né alle forme più
deteriori di determinismo o di necessitarismo, né alla convinzione che la
natura sia un semplice “altro da sé” superabile nella forma superiore dello
spirito assoluto o dell’idea. Come “essere” nella natura, l’uomo libero a nulla
aspira di più che alla “dilectio mundi” o, per dirla alla maniera di Spinoza: “Homo
liber de nulla re minus, quam de morte cogitat, et eius sapientia non mortis,
sed vitae meditatio est” (3).
Il vecchio coraggioso e totalmente libero, avendo meditato su come ha vissuto
la vita piuttosto che su come debba affrontare la morte, lascia alle
generazioni che verranno quest’ultima indicazione di metodo intorno a cosa sia
da intendersi per libertà. Scrive Velio: “…chi incontrerà la mia parola, lo
farà nelle intermittenze della chiacchiera imbonitoria, dello spettacolo
triviale, degli assilli incomponibili del giorno, nelle solitudini affollate,
nell’insensato travolgimento della vita” (pp. 122-3): questa è l’inautenticità
del non essere se stessi, è il contrario della libertà. Se non si è questo, si
è liberi e le parole, anche se pietre, giungono all’orecchio come ammonimenti
lievi e facilmente accettabili. E con il richiamo alla libertà fa il paio
l’insegnamento della speranza che “se è una necessità primaria, non vive senza
alimento” (p. 83). Quindi la speranza non è un apriori astratto, è una
necessità e, come tale, deve essere alimentata: quale l’alimento della speranza
se non la cultura, la letteratura, l’amicizia, la filosofia? E non è forse
speranza “l’eroismo del gracile gigante sardo, che dal buio del suo carcere
scrive le pagine più straordinarie e lucide sulla storia nazionale italiana e
sui compiti del proletariato” (p. 134) für ewig?
Mi
colpisce, quasi mi inchioda, nella sua anche grafica peculiarità rispetto al
tutto (ricorda il modo fortiniano di distinguere e mettere in evidenza alcuni
versi specifici dal contesto con l’uso degli spazi bianchi), l’ultima riga del
racconto Non ho tempo; suona nel modo
seguente: “Non abbiamo tempo” (p. 145). Ritmo della vita accelerato, affanno
della rincorsa alla soluzione di quotidiane ossessioni, il lento ma inesorabile
consumarsi del presente nell’orgia della ricerca del benessere ci fanno dire
che non abbiamo tempo. Il tempo, e lo spazio. Scriveva il “gracile gigante
sardo” alla
cognata Tatiana, il 1° luglio del 1929, mentre rifletteva su come un detenuto
possa trascorrere il tempo: “… il carcerato si sdraia supino nella branda e
passa il tempo a sputare contro il soffitto, sognando cose irrealizzabili …” (4).
Ma aggiungeva che questa per lui non sarebbe diventata consuetudine poiché era
tutto preso dal processo naturale in base al quale la sua rosa si stava
ravvivando (5) e ciò lo spingeva a prendere in considerazione “i fenomeni cosmici” al punto
che “il ciclo delle stagioni, legato ai solstizi e agli equinozi, lo sento come
carne della mia carne; la rosa è viva e fiorirà certamente … insomma il tempo
mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me” (6).
Nel chiuso della cella del carcere fascista lo spazio è evaporato ma il tempo è
sempre più consistente, e il sostitutivo dello spazio è l’eterno ritornare
delle stagioni, scandito dal ravvivarsi della rosa, che spinge all’esercizio
del tendere verso, proprio come il
passerotto posseduto in cella il quale, poiché “conquistava tutte le cime
esistenti nella cella e quindi si assideva per qualche minuto ad assaporarne la
sublime pace (…) credo che avesse uno spirito eminentemente goethiano, come ho
letto in una biografia a proposito dell’uomo biografato. Ueber allen Gipfeln!” (7).
E questo passerotto, descritto con “osservazioni minute e curiose” (p. 115) da
Gramsci, è nella mente di Velio.
La dimensione del tempo come uno
scorrere incessante e continuo conduce Gramsci alla consapevolezza che non
esistano datazioni in grado di porre un limite alle vicende umane; il passato è
legato al presente che, a sua volta, è proiettato für ewig: “Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa
del cielo, sento che per me è Capodanno. Perciò odio questi capodanni a
scadenza fissa (…) essi fanno perdere il senso della continuità della vita e
dello spirito. (…) Perciò odio il Capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me
un Capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni
giorno. (…) Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a
quelle trascorse” (8).
Riferendomi al “gracile gigante sardo” mi ritorna
improvvisamente in mente, e per concludere, Congedo
(p. 121). Qui Velio fa riferimento alla reciprocità dell’insegnamento, allo
scambio continuo fra docente e discente: “…il
rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e
pertanto ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro” (9).
E ciò è ancora più valido nell’attuale scienza dell’educazione che non può
arrendersi di fronte alla sfida del senso comune informatico e tecnologico, del
quale può acquisire soltanto gli strumenti. Il resto è dura fatica del concetto
(p. 83) (10) che si realizza in un lavoro duale (docente-discente) che deve proporre lo studio disinteressato e per sempre, cioè für ewig, come fine e come mezzo non dimenticando mai i due
obiettivi principali: “ 1) Bisogna creare gente sobria, paziente, che non
disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza (…) (11);
2) Occorre (…) violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole
trasformarlo (…)" (12).
Insomma
quanto di Gramsci c’è in questi racconti che, molto spesso, assumono il carattere
aforistico senza mai cedere al
tono della sentenza o della chiusura del discorso. Anzi in essi vivo il dubbio
riassumibile nelle tre domande: “In nome
di chi parlo? ... A chi parlo? ... A che serve ciò che dico?” (pp. 122-3).
Domande indiscrete? Forse lo sono più le risposte, anche se soltanto intuite da
chi legge poiché non dette, in quanto in esse c’è un fondo di amarezza
ma c’è anche la speranza. Insomma, anche qui, il “gracile gigante sardo” ci
viene incontro: “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.
Note
1. Lucrezio, De rerum natura, VI, 1136-1137.
2. A tal proposito va
ricordata la sentenza di Publio Terenzio Afro nella commedia Phormio: “Senectus ipsa est morbus”.
3. B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata,
prop. LXVII.
4. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di F. Giasi,
Einaudi,
Torino, 2020, p. 385.
5. Tatiania Schucht, cognata
di Gramsci, ricorda che, nel corso di una visita al detenuto nella primavera
del 1929, “Antonio mi chiese con insistenza una rosa rampicante, obiettai che
non ritenevo opportuno che si facesse un pergolato in carcere, non volendo
dovere goderlo [sic], e Antonio rispose che sapeva invece di dovere stabilire
mentalmente la sua esistenza per lunghi anni a Turi quindi poteva bene
desiderare di avere un rosaio che avrebbe fatto salire lungo il muro, sino alle
celle” (T. Schucht, I colloqui che ho
avuto, in A. Gramsci-T. Schucht, Lettere
1926-1935, a cura di A. Natoli e C. Daniele, Einaudi, Torino 1997, p.
1438).
6. A.Gramsci, ivi, p. 386.
7. A. Gramsci, ivi, p. 131.
8. A. Gramsci, Capodanno in Avanti!, 1° gennaio 1916, ora in Edizione nazionale degli scritti
di Antonio Gramsci, Scritti (1910-1926),
vol. I (1910-1916), a cura di G. Guida e Maria L. Righi, Treccani, Roma,
2019, p. 66.
9. A.
Gramsci, Quaderni del carcere, a cura
di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, 1331.
10. “Pensieri
veri e penetrazione scientifica si possono guadagnare solo nel lavoro del
concetto. Soltanto esso può produrre l’universalità del sapere” (Georg Wilhelm
Friedrich Hegel, Fenomenologia dello
spirito, cit., p. 59). Il termine
“lavoro” traduce il tedesco “die Anstrengung”, che significa propriamente
sforzo, fatica. Ma già Virgilio nelle Georgiche
(I, 145-146) si era espresso nel modo seguente: “Labor omnia vicit improbus…
(Il duro lavoro vince ogni difficoltà…)”.
11. A.
Gramsci, ivi, pp. 2331-2.
12. A. Gramsci, ivi, p.,
1131.