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lunedì 30 novembre 2020

PER RESTARE UMANI

 


Oggi vogliamo che tutti sappiano cosa sta succedendo nel Campo profughi di Mahkmour, oggi vogliamo dare voce a chi voce non ha.
 
Il Campo profughi di Mahkmour (Nord Iraq/Mosul) è stato colpito dalla pandemia, una pandemia che non risparmia nessuno, ma ad aggravare la situazione ci si mettono i governi, i politici con le loro strategie, i militari, gli organismi internazionali che non vedono, non sentono, non sanno, non decidono nulla e li abbandonano a se stessi, senza nessun aiuto medico o sanitario.
Come se non bastasse, non consentono neppure i ricoveri presso gli ospedali iracheni, estremo tentativo di salvare qualche vita dalla pandemia.
Così si muore per strada, respinti dai peshmerga di Barzani e dai militari iracheni. Ricordiamo che, nel Campo, vivono quei profughi kurdi provenienti dalla Turchia, dove l'esercito turco, negli anni '90, ha evacuato, con la forza, i villaggi di confine, abitati da contadini e pastori, accusati di aiutare i guerriglieri del Pkk. Hanno attraversato le montagne piene di neve che separano la Turchia dall'Iraq, inseguiti dagli elicotteri turchi che li mitragliavano e sono arrivati in Iraq: in quella traversata morirono 300 persone e circa 600 furono ferite da bombe, gelo e mine. Alla fine, si sono accampati in pieno deserto, dove non cresceva un filo d'erba, ma hanno ricominciato a vivere, piantando alberi, dissodando terreni, allevando bestiame, aprendo scuole e cooperative, applicando i principi del confederalismo democratico. Oggi Makhmour è una comunità autogestita, caratterizzata da una forte democrazia dal basso e di genere.
Per questo la vogliono cancellare. 


 
Noi, come Associazione verso il Kurdistan, lanciamo, ancora una volta, un appello urgente per rompere questo muro di omertà e silenzio e chiediamo a tutti di far conoscere questa terribile situazione ai politici, agli organi di stampa, alle Ong, con cui si hanno contatti.
Apriamo una raccolta fondi urgentissima per poter dotare il campo di tutto quello che può servire per arginare la pandemia.
A marzo avevamo comperato 2 ventilatori e 2 deumidificatori, altri ne avevano comprati pure loro, ma oggi sono già 200 i pazienti isolati e 6 i deceduti. Nel campo vivono - sopravvivono - 14.000 abitanti e sono sotto embargo dall'agosto del 2019; inoltre, i turchi non hanno mai smesso di far sentire la loro presenza, bombardando il Campo con droni o facendolo attaccare dai miliziani di Daesh.
Se riuscissimo a salvare anche una sola vita, per noi sarebbe il segno che restiamo umani e che non ci voltiamo dall’altra parte per non sapere.  
Questo è il nostro IBAN corretto: IT17 Q030 6909 6061 0000 0111 185 intestato ad Associazione Verso il Kurdistan  
Causale: Aiuti urgenti per pandemia campo di Mahkmour.
 
ASSOCIAZIONE VERSO IL KURDISTAN ODV
Coordinamentokurdistan@gnumerica.org
 
 
 

LE ENCLICLICHE DI BERGOGLIO
di Emilio Molinari



Dialogando con Mario Agostinelli
 
Il lavoro di Mario sull'Enciclica Fratelli tutti è una importante sintesi per aprire un dialogo nelle associazioni “sorelle”.
Concordo con quanto scrive, e siccome scambio le mie opinioni con lui solo telefonicamente, tento di interrompere la pigrizia da isolamento Covid e mettere per iscritto le telefonate. Parto dallo scritto di Mario, e cerco di metterne in fila alcuni punti. I paradigmi li chiamerei così, con i quali cerchiamo di ricostruire (riprogrammare) i movimenti e la politica del XXI secolo.
Parto dal punto fermo che sta nelle due Encicliche e prima ancora nelle grida degli scienziati sulla salute del Pianeta: la portata del disastro e il tempo limitato a disposizione per affrontarlo... il lento declino della vita vegetale e animale. Ciò dà il segno al nostro tempo.
Per noi che ci parliamo, ci scriviamo ecc. sembra cosa scontata, non sentiamo il bisogno di ribadirlo in ogni occasione, ma va fatto, perché non è scontato per la maggioranza della gente. Non lo è, o lo è timidamente o lo è in modo mistificato o elitario, per il popolo democratico, che pure è l'unico tenue argine al negazionismo ambientale del popolo di destra.
E questa non priorità culturale, ci limita nel trovare la strada per parlare alla mente e ai sentimenti di questa destra che un tempo era il nostro popolo. Era il mio popolo ed è una sofferenza innaturale, saperlo dall'altra parte. C'è qualcosa di arrogante nei termini populismo e sovranismo, nel trasformare il popolo e la sovranità popolare in qualcosa di spregevole. La Fratelli tutti solleva il dubbio che forse qualcuno si è troppo allontanato dal popolo e dai suoi bisogni. Ma le Encicliche non hanno suscitato il moto auspicabile delle coscienze, non hanno trovato molti predicatori trasversali, nemmeno tra i compagni più a sinistra. Ha prevalso in loro l'abitudine dei propri pensieri: l'ostilità atea, resa una religione, per tutto ciò che odora di preti e di Vaticano, il positivismo scientifico, l'arroganza modernista e materialista di essere nel senso della storia. Con il movimento dell'acqua si era aperta una strada, dal basso, tra la gente e per un attimo si era aperto quel dialogo trasversale su di un tema solidale come la materialissima realtà della crisi idrica mondiale e della mercificazione di un bene comune indispensabile base della vita. 
Si era anche visto che non aveva scalfito la politica e le granitiche abitudini degli attivisti. La crisi dell'acqua mi aveva fatto scrivere che il paradigma del secolo sarebbe stato Salvare il Mondo e che con questo: cambiava tutto.
Questo punto fermo, scrive Mario, ci dice che occorre: separarci definitivamente dall'idea dello sviluppo. Da due secoli questo dogma impregna tutta la politica, magari presentato come “sviluppo sostenibile. Crescita del PIL come oggettività universale e scientifica. Sinonimo di democrazia e libertà della persona. A questo dogma non si è ancora sottratta la sinistra e nemmeno il sindacato più radicale. Una illusione di massa: la torta (la ricchezza prodotta) va comunque sempre aumentata se si vuole redistribuirla. Ma la portata del disastro fa sì che lo sviluppo deve cedere il passo al bisogno di sopravvivenza e qui sta il cambio e la necessità della rottura. È questo il passaggio dall'era passata, alla nostra era.
Crescita o decrescita o sobrietà, non importa come chiamare la necessità di ritornare al valore d'uso come primaria condizione che comunque vuol dire produrre e consumare meno e che non basta “il riciclo”. 




Pensare o riflettere attorno al ridurre il superfluo e l'ostentato, solleva immediate reazioni, pensare a una decrescita governata dalla politica e dal consenso popolare, è solo una utopia green, mentre il Covid con materialistico realismo ci costringe ad una decrescita globale senza precedenti nella storia. Non governata, disordinata come la rotta di un esercito sconfitto. Non si vuol vedere e non se ne parla, che il Covid è figlio del Pianeta violentato dalla distruzione delle foreste, degli allevamenti intensivi, delle piattaforme produttive globali, dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua. È quindi il Pianeta che ci sta obbligando ad una decrescita e lo farà sempre di più se non interviene una rottura nel pensiero, fare i conti antropologici, economici, finanziari, con la nuova era.
Venendo alle considerazioni diverse: L'Enciclica Fratelli tutti tratta due questioni che ci chiamano a questa rottura.
Il lavoro e la fraternità.
Il lavoro: portare il lavoro e la natura dalla stessa parte. Non è cosa facile, è l'impegno e la prassi della conversione ecologica dell'economia. ne parliamo da decenni e da decenni ci scontriamo con i lavoratori e non è una teoria da proferire in un dibattito per poi lasciare tutto come prima. Non è nemmeno ridurre la rottura a solo azioni personali: non mangio carne e se tutti lo fanno... non prendo la macchina e se tutti lo fanno, ecc... È un processo che si scontra con il tempo e si scontra soprattutto con il lavoro e i lavoratori. Lo stesso vale se chiedi di ridurre il cemento, il petrolio, il pesticida, la plastica.  Insorgono lavoratori, padroni e politica.
Molti soggetti si candidano a protagonisti nella scena della trattativa con i potenti: gli scienziati, le donne, gli studenti.
Il mondo del lavoro è sparito, eppure:
- Senza un mondo del lavoro cosciente in cui la posta in gioco è la vita, non c'è conversione ecologica. Se non ci si rende conto che è posto in un ruolo “privilegiato" dove può esercitare un controllo e una decisionalità, come lo può fare lo scienziato, non c'è conversione ecologica.
- Senza il lavoro, i diritti sociali e la natura dalla stessa parte, le popolazioni restano radicalmente e politicamente spaccate in due. Incapaci ad affrontare la sopravvivenza della specie.
- Senza questa rottura epocale che li rimette in gioco come soggetti attivi della conversione ecologica, i lavoratori escono dalla storia e diventano soggetti negativi dentro un immane scontro.
Andare oltre la classe e riconquistare la scena mondiale.
Il lavoro di per sé non dà dignità e oggi, per molti, è schiavitù.
Ho vissuto il tempo dell'orgoglio operaio per il proprio mestiere o del proprio ruolo sociale e so che queste erano le cose che davano dignità al lavoro. La davano a chi lo sentiva come realizzazione delle proprie mani, del proprio cervello o a chi sentiva, anche alla catena di montaggio, che stava trattando con i potenti, l'avvenire di tutti.



È cambiare tutto e riproporre in modo diverso molte questioni.
Questo ci chiede a noi, associazioni impegnate, ce lo diciamo da tempo con Mario ed altri, alcune predisposizioni a:
- rivolgere la “predicazione” e la formazione alla nuova era, oltre che ai giovani e alle scuole, al mondo del lavoro.
- tradurre la complessità degli argomenti, praticando un linguaggio che spesso è di bisogni inascoltati e oscurati dal risentimento, cercando superfici di contatto. Diamo per scontato l'incomunicabilità di due mondi e che gran parte del lavoro e della disoccupazione stia ormai nell'altra barricata, mentre si tratta di uscire noi dalla nostra barricata, che spesso si presenta antipatica, con la vanità del colto, l'invenzione dei termini e la priorità dei suoi desideri.
unire i cantieri dei lavori in corso, pervasi da autoreferenzialità.
Le Encicliche vanno oltre, ci chiedono di rielaborare i concetti e le pratiche del conflitto di classe, del femminismo, dell'unità.
Quando l'enciclica Fratelli tutti inverte l'ordine delle priorità nella triade: libertà, eguaglianza, fraternità, mettendo la fraternità al primo posto, opera una rivoluzione culturale che molti compagni e compagne liquideranno per cattolica, ma per una attenta lettura laica è la materialità del disastro della Casa Comune che lo impone.
Essere fratelli tutti, è qualcosa in più dell'eguaglianza, è coscienza che la libertà, senza fraternità, è anche individualismo è anche indifferenza, che la “malattia” del pianeta o del singolo è la tua “malattia”, che laicamente qualcuno scriveva: “l'uomo non è un’isola, è un continente... non chiederti perciò per chi suona la campana. Suona anche per te”.
Fraternità dà un senso universalistico ai contenuti alle lotte.
Non è la fine dei conflitti, e delle contraddizioni di classe o tra uomo e donna. È qualcosa di molto difficile a cui tendere nei conflitti, animandoli con l'unità di tutti. Conflitto difficile, che cerca la condivisione per affrontare la conversione ecologica.
Siamo sulla stessa barca. È un concetto che per la mia cultura era una presa in giro capitalista e lo è ancora quando chiede sacrifici ai lavoratori per la prosperità dell'azienda “bene comune”. Quando chiede al lavoratore e ai cittadini di cogestire il proprio impoverimento.
Viviamo da decenni in questo regime miserabile di “cogestione”.
Ma diverso sarebbe il senso di questo termine se fosse partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende per gestire la cura del bene comune o iniziare la loro transizione ecologica.
Penso all'acqua e alle reti idriche, all'energia, ai trasporti, ai fallimenti di queste politiche e dei disastri privati di tali aziende.
Cogestione/partecipazione/unità da conquistare, con il conflitto, con la contrattazione con lo spirito della fraternità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

domenica 29 novembre 2020

Teatro
TORNA ESCHILO*
di Daniela Marcheschi 


L’Agamennone nella traduzione del poeta Cagnone
e tavole del pittore Paladino

Nanni Cagnone - nato a Carcare, Savona, nel 1939 - è una delle maggiori personalità della nostra letteratura contemporanea. Autore di notevole originalità, è anche abile traduttore, saggista, giornalista, editore. Inoltre ha scritto di pittura ed è stato anche direttore creativo di agenzie di pubblicità e docente d’estetica. 
Ora Cagnone si ripresenta in veste di traduttore - e che traduttore -dell’Agamennone di Eschilo, in una raffinata edizione accompagnata da un suggestivo “Racconto per figure” di Mimmo Paladino. La sensibilità per il linguaggio e la capacità inventiva dell’autore ligure risaltano nell’incontro con la potenza espressiva dell’Eschilo dell’Orestea, la trilogia di cui Agamennone è la tragedia d’apertura. Agamennone racconta del figlio d’Atreo, signore d’Argo e capo degli Achei vittoriosi a Troia, che fu ucciso per congiura di Egisto e di Clitemnestra: l’uno voleva vendicare il padre Tieste, l’altra, già moglie di Agamennone, non gli perdonava il sacrificio della loro figlia Ifigenia, compiuto per aver venti favorevoli alla partenza per la guerra di Troia. 



Nanni Cagnone

Un Cagnone in stato di grazia dà così vita alla forse più bella versione moderna della tragedia eschilea, tanto più ammirevole quanto più aumentano oggi i traduttori, ma scarseggiano i poeti. Cagnone riesce a restituirne la forza visionaria, l’aura mitica e gravida di oscure minacce in una lingua ricca di felici invenzioni lessicali, che sa impennarsi e solidificarsi in un «ritmo imperterrito, senza ostentazione», come si legge nell’introduzione di Cagnone. È un ritmo di sapore arcaico e moderno insieme. Bastino i versi del primo stasimo: «O Zéus sovrano e aiutante Notte, / acquisto di grandi ornamenti, / tu che sui baluardi di Troia / gettasti la rete che ben ricopre» (vv. 356-361). Oppure le parole di Agamennone, lieto di far ritorno a casa dove è accolto da una Clitennestra dissimulatrice: «Sì, rari gli uomini / in cui innato un rispetto senz’invidia / per l’amico che ha fortuna, poiché / seduto presso il cuore, l’astioso veleno / raddoppia il peso a chi ha contratto il male: / è gravato colui delle sue pene / e riguardando l’estranea floridezza geme. / Per esperienza, ben conoscendo lo specchio / della società, potrei dire simulacri d’ombra / quei che credevo assai devoti» (vv. 833-840). 
 
 
La copertina del volume


Eschilo
Agamemnon.
Cura e traduzione di Nanni Cagnone
Tavole di Mimmo Paladino.
Edizioni Galleria Mazzoli, Modena
Pagg. 180 - € 50,00

Per richieste:
Galleria Mazzoli Tel. 059 - 243455 
info@galleriamazzoli.com 

[*Il Sole 24Ore - 30-1-2011]
 

INTORNO A FUGHE
di Maria Jatosti

Maria Jatosti
 
Una lettera recensione al libro di Abati
 
Caro Velio,
in questo diffuso stato di attonita sospensione, in questo tempo strano sfuggente e insieme plumbeo, che tarpa il respiro toglie l’aria ai pensieri e ti cunnola in una torpida parodia di normalità poco più che animale, tra un inabissamento e una forzosa riemersione, mi dispongo finalmente a scriverti queste due righe spero non troppo stralunate.
Prima di tutto grazie. Ho dovuto/voluto aspettare un po’ per leggere il tuo libro. Ero sprofondata nella fascinazione di una grande storia raccontata in prima persona da una sorta di matto di paese, che matto non è per nulla, e il paese essendo un luogo che conosco e che mi è caro, bellissimo antico e arioso, prodigo di artisti e di poeti e soprattutto di amori e di amici dell’anima, di mattìe belle di quelle che ti riportano alla felicità della vita. Un bel lavoro, un grande libro che mi ha immerso prepotentemente, con la forza di un’affabulazione allucinata ma trasparente, nel grande racconto della nostra storia di noi tutti di questa parte di mondo e di questa umanità così malconciata e derelitta che l’avidità di ingordi dominatori satrapi e sciacalli e il servilismo di biechi accattoni e loschi gazzettieri ha deprivato perfino dell’urlo della disperazione. Un’esperienza dello spirito densa, felice, stimolante e benedetta nel panorama di questi giorni oscuri e limacciosi.
Terminata la corposa lettura del “fiommista” Liborio* senza soluzione di continuità temporale e emotiva mi sono ritrovata in un altro incantamento, braccia nude, occhi e sensi spalancati a nuotare nelle acque mosse e rigeneratrici del tuo mare gonfio di ragionamenti riflessioni riferimenti dissertazioni filosofiche allusioni scotimenti chiamate alle armi propedeutici esami di coscienza, pungenti memorie di eroiche e sperperate stagioni di vita e di lotte, vittorie e batoste cocenti, epifanie e catastrofi bellezze e orrori di una storia pubblica e privata. È stato bellissimo. E dunque grazie caro Velio. Per la condivisione lucida e appassionata per la perfetta adesione allo spirito e spesso alla lettera che ho provato leggendoti. Ci sono momenti, passaggi, intere pagine in queste tue Fughe, che io, comunista senza classe e senza partito, con un po’ di spavalderia, una punta di egoismo e molto narcisismo, ostinatamente ancora “in cerca di nuovi compagni contemporaneamente resistendo […] all’entropia degli abbandoni di quanti della nostra parte abbiamo incontrato” - vedi in particolare là dove evochi la storia, la vita del partito, il fervore giovanile, le domande, le delusioni, le prese d’atto - ho sottolineato e sottoscritto con effusa commozione, complice probabilmente una strabordante emotività senile. Di tutto questo e altro ti dico grazie. L’altro è dove irrompono luminosi squarci di una nomenclatura cara e dolce e antica e spuntano struggenti malinconie di volti, presenze, personaggi, ritratti - bellissimo quello di Ruth - amori, primavere, ragazze meteore, sogni… E dove, caoticamente assemblati come in un quadro di Mirò, vagano immagini o singoli oggetti di memoria: un albero (era un noce o un leccio?) una casa di campagna un ragazzino gentile un salone una tavola imbandita il canto di una cincia lo starnazzare di un pollaio sul retro gli attrezzi della terra nella rimessa di babbo V.  il suono di una fisarmonica una canzone: Tutti ti dicon Mà… La nostra Maremma, la bicicletta di Maria Pia al mare dell’Uccellina, l’apparizione di un cervo sulla strada sterrata, il giardino intelligente dell’Alberese, la casa di Biancamaria Frabotta, e poi quella città, quella scuola, quelle strade, quella miniera, quelle chiacchierate, quei silenzi, quelle confidenze turbate, quei sorrisi, quelle complicità... Il sapore dolce dell’amicizia…
Grazie Velio.
[Roma, 26 novembre 2020, Anno I della Nuova Peste]
  
*Remo Rapino, Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
Minimum fax, 2020.

FRESCHI DI STAMPA

“È il suo libro migliore”.
Fulvio Papi

 

Gabriele Scaramuzza
Passaggi
Passioni, Persone, Poesia
Mimesis Edizioni 2020
Pagg. 158 € 14,00

 
Mario Rondi
Il canto del Luì
Fermenti Editrice 2020
Pagg. 218 € 19,50
 
 


Jordi Maíz 
Né zar né sultani
Anarchici e rivoluzionari del Caucaso
Ediz. Zero in Condotta 2020
Pagg. 128 € 10,00
 

 

I CORTI


Visioni dal lockdown, antologia dei “corti” di Chiara Pasetti e Mario Molinari. Con le canzoni di Achille Lauro.
 
L’antologia “Visioni dal lockdown” è una prova di sintesi di un video racconto, costituito da diciotto cortometraggi musicali, iniziato tra il sette e l’otto marzo, poco prima del discorso del Presidente del Consiglio e dell’inizio del lockdown per contenere l’emergenza sanitaria.
Achille Lauro ha aderito al progetto concedendo l’utilizzo delle sue canzoni.
Il primo corto, dal titolo “Io resto a casa, non me ne frego”, è composto da interventi di studenti di scuola media e superiore.
Subito dopo averlo pubblicato su youtube ne abbiamo realizzato un secondo in cui abbiamo domandato ai ragazzi di mostrare cosa stessero facendo a casa: un modo per coinvolgerli nuovamente ma anche per far notare che una situazione di privazione delle nostre libertà in nome della salute pubblica può diventare un’occasione per coltivare passioni e interessi.
“Io resto a casa, ma non mi fermo”, con gli studenti che si filmano mentre cucinano, fanno ginnastica, dipingono, imparano a fare il bucato e molto altro, è il secondo corto pubblicato.
 
Non ci siamo più fermati.

Abbiamo realizzato diciotto video, uno alla settimana, dall’11 marzo all’11 luglio (giorno in cui Lauro ha compiuto trent’anni); li abbiamo diffusi su youtube dal canale indipendente “Ninin” con un articolo di accompagnamento su “La Nuova Savona”, quotidiano on line diretto dallo stesso Molinari. Il Comune di Finale Ligure ha creato una playlist di tutti i video sul sito “Turismo e Cultura”.
Alla fine del lockdown, a maggio il progetto ha mutato il titolo principale “Io resto a casa” in “Aspettando”.
Abbiamo trattato molti temi, che si sono intrecciati con ricorrenze nazionali quali la Festa della Liberazione (“Senza cognomi”, con la splendida Dio ricordati), la Festa della Mamma (in cui la struggente Penelope e i filmati scelti raccontano un tema universale, l’amore incondizionato), la Festa dei Lavoratori (“Come cambierà”), la Festa della Repubblica (è il solo corto il cui titolo non è tratto da versi di Lauro bensì dalla profetica Povera Patria di Franco Battiato).
Il corto intitolato “Senza scritti”, che vede la partecipazione di quattro maturandi novaresi, è dedicato all’esame di maturità 2020; termina sulle note di Dance All Nite di Luisa “Lu” Colombo, nota per Maracaibo. E ancora, si trova nel progetto un corto sulle difficoltà connesse all’emergenza del mondo della cultura, dello spettacolo e della musica, altri sui sentimenti del coraggio e della paura, della solitudine, e sull’antitesi normalità/diversità.
Il video numero diciassette, “È una giungla”, costituisce un unicum: di durata doppia rispetto agli altri, è dedicato al binomio giornalismo e democrazia e vede gli interventi di alcuni giornalisti italiani che testimoniano quanto sia importante, specie in questo momento, fare “buona informazione”. Tra i tanti contributi anche quello di Francesca Nava, inserito nell’antologia.
Ogni video, in cui spesso compaiono paesaggi liguri e in particolare della provincia di Genova e di Savona, ha potuto contare sulla collaborazione di amici e professionisti che hanno interpretato brani in prosa e in poesia di Giacomo Leopardi, Salvatore Quasimodo, Antonia Pozzi, Alda Merini, Gustave Flaubert, Camille Claudel, Octave Mirbeau e altri grandi autori (talvolta tradotti per la prima volta in lingua italiana).
Da tutto questo lavoro, che ci ha accompagnato durante i mesi più duri dell’emergenza sanitaria attraversando molteplici emozioni, abbiamo estratto l’antologia “Visioni dal lockdown”.
Un filmato, con la colonna sonora di Achille Lauro, che vede la partecipazione di studenti di scuola media e superiore di Genova, Novara, Finale Ligure e Borgio Verezzi; brani in prosa e in poesia interpretati da Lisa Galantini, Massimo Rigo, Federico Vanni, Mario Molinari; un saluto del partigiano Argante Bocchio, “Comandante Massimo”; un intervento di Francesca Nava; un monologo di e con Matteo Bonvicino; frammenti di film.
Dal mese di settembre 2020 il video progetto è ricominciato con il titolo di Aspetto la fine”. Realizzeremo un corto al mese fino a giugno 2021; stanno aderendo diversi Istituti superiori italiani, tra cui ACOF Olga Fiorini di Bergamo e Liceo G. Palizzi di Lanciano.
Ci auguriamo che questo nostro lavoro possa aiutare gli studenti e tutti noi a sentirci meno soli nel drammatico momento che stiamo vivendo.
Siamo profondamente grati a Lauro De Marinis, nome all’anagrafe di Achille Lauro, per aver aderito dall’inizio al video progetto con fiducia e generosità, rinnovando la sua adesione anche per questa seconda fase appena iniziata.
Ringraziamo tutti gli studenti, i docenti, i professionisti e gli amici che hanno partecipato e partecipano con entusiasmo e sensibilità, e il Comune di Finale Ligure per l’aiuto nella diffusione dei video. E infine ringraziamo sentitamente gli amici e i soci dell’Associazione culturale “Le Rêve et la vie” per il costante incoraggiamento e il prezioso sostegno.
 
Se non resteranno i nomi resterà una storia.
Achille Lauro
 
Cinema è quando gli occhi miei si chiudono solo a guardarmi dentro.
Carmelo Bene
 
[Chiara Pasetti e Mario Molinari] 
Produzione Associazione culturale
Le Rêve et la vie - Novara
APS Feelmare - Savona

 Nota Bene

Il 5 dicembre alle ore 21 ci sarà la prima proiezione online di Visioni dal lockdown. Sono acquistabili i biglietti previa registrazione sul sito del Teatro delle Udienze di Finale Ligure:

https://www.teatrodelleudienze.org/events/visioni-dal-lockdown-1

Il progetto è autofinanziato: chiunque acquisterà il biglietto potrà aiutarci a continuare a realizzare i video con gli studenti e l'adesione di Achille Lauro. Il filmato resterà online 24 ore, fino al 6 dicembre.

 


sabato 28 novembre 2020

RICETTA PER LA CALABRIA



SPOSTAMENTO D’ASSE
di Franco Astengo

Opera di Max Hamlet S.
 
Il pensiero umano è chiamato a fare i conti con una necessaria presa d’atto: l’infinito e progressivo itinerario della modernità sta subendo un vero e proprio spostamento d’asse. Di conseguenza sta cambiando la politica.
L’emergenza globale non sta producendo soltanto un accentuarsi delle disuguaglianze a tutti i livelli e una recrudescenza della volontà di isolamento: è rimasta spiazzata la stessa idea di progresso così come questa era stata già modificata, rispetto agli itinerari novecenteschi, nel corso della fase che avevamo definito della “globalizzazione”.
La necessità di porre la questione sanitaria al centro della ricerca scientifica e della stessa prospettiva della produzione sta spezzando la spirale della crescita tecnologica così come la si poteva pensare fino a qualche tempo fa.
Ciò avviene perché la priorità, all’interno del tema della salute pubblica, è diventata quella del vaccino. Però non è tanto la questione del vaccino in sé forse risolvibile direttamente sul piano industriale. Invece si sta transitando verso un’idea della sanità rivolta alla conservazione dell’intera specie in luogo della cura rivolta al singolo. Con la necessità di rivolgere a questo obiettivo della conservazione una grande quantità di risorse.
Un passaggio dall’individuo alla complessità del contesto sociale in una chiave di conservazione. Questo sembra essere il vero punto di cambiamento che si sta imponendo come vero obiettivo del pensiero umano.
Si sta verificando un cambio di paradigma: dall’idea del progresso lineare e infinito dentro al meccanismo del consumo, alla necessità dell’avanzarsi della prevalenza della logica della conservazione della specie.
Un’egualitaria conservazione della specie?
Una conservazione della specie che necessariamente si dovrà cercare di rivolgere verso un modello tendenzialmente egualitario. Così si restituirà un senso alla classica distinzione tra destra e sinistra.
Una diversità quella tra nuova destra e nuova sinistra che dovrà però misurarsi in un profondo mutamento di senso complessivo.
Un fatto del genere non era capitato neppure di fronte al richiamo del mutamento climatico.
Sul tema del mutamento climatico fin qui aveva avuto origine soltanto una diversa dimensione nella lotta tra gli Stati e nello stesso processo di accumulazione capitalistica. Adesso al passaggio epocale ci si sta incamminando per una via sanitaria globale e forse non siamo per niente attrezzati.

INTORNO A FUGHE
di Lelio La Porta


Lelio La Porta

Riflessioni sul recente libro di Velio Abati
 
(…) aliquid quo non consuevimus uti, quod nos adventu possit temptare recenti (…) qualcosa a cui non siamo avvezzi, che possa farci ammalare con l’improvvisa venuta”(1): è la constatazione di un fatto, della pandemia della quale mai avremmo voluto sentir parlare e che, invece, piomba con la sua devastante espansività nel nostro quotidiano. Di certo Velio ha iniziato, come fa presente nell’Invito, a scrivere le sue riflessioni molto tempo fa, quando il morbo ancora non infuriava, anzi quando di esso neanche si poteva immaginare l’essere. Oggi quella situazione di partenza è superata dai fatti e le Fughe si presentano come una contrappuntistica meditazione su questo tempo e questo mondo. Pensavo al titolo mentre leggevo i racconti: nulla spartisce la fuga di Velio con quella suggerita quasi mezzo secolo fa da Henri Laborit. Nel francese quasi lo spavento di fronte alle cose del mondo, qui, nei racconti di Velio, lo sconcerto di fronte al mondo che non giunge alla ripulsa, al rifiuto, allo spaesamento bensì si colloca nel solido terreno di un disincanto quasi scellerato nell’ansia di ricercare, fra Voci di donne e uomini, come nella prima parte, oppure fra lo sterminato vocabolario del non canto della politica e di un’esperienza vissuta su più fronti, fra un ricordo di Fortini e una terzina di Dante, la solidità di un dire che è anche un fare, l’amara, seppur non definitiva, consapevolezza che “la merce … è libertà” (p. 139). Eccola la parola-chiave, anche se affidata ad uno dei racconti più brevi di tutto il volume (superato in brevità da Congedo nel quale l’amore per l’insegnamento si traduce nel recupero di un verso famoso dell’Internazionale nel quale si fa riferimento alla futura umanità); spesso è proprio la brevitas a dare il segno più tangibile di ciò che si vuole dire. Dunque, la libertà.
La vecchia nutrice di Fedra nella omonima tragedia senecana, in serrato dialogo con la sua padrona, a quest’ultima ricorda che qualunque cosa la sorte le serberà come conseguenza delle sue parole, nulla per lei avrà significato di gravità in quanto “fortem facit vicina libertas senem”. La sentenza della nutrice ha, di solito, due traduzioni: “Il coraggio dei vecchi è libertà che si avvicina” e “O vecchiaia, la libertà vicina ti fa forte”. In entrambi i casi il significato profondo della proposizione sembra abbastanza chiaro: chi si avvicina alla vecchiaia, o è già nella vecchiaia (2), sente la libertà, garantita da un tempo minimo ancora di vita, come un bene da poter coltivare con assoluto disincanto. In quel tempo chi è vecchio tutto si concede nel giudizio e nel ragionamento. D’altronde la certezza della fine che si approssima assicura a chi è vecchio una libertà di parola e di movimento che i più giovani non hanno, anche in virtù del calcolo delle occasioni che la vita può ancora offrire loro e che giudizi, tanto coraggiosi quanto imprudenti, potrebbero mettere in discussione. Quindi, nel ragionamento di un insegnante ormai lontano dal servizio per raggiunti limiti di età (stato che chi scrive condivide con Velio) non è la merce ad essere libertà, non il denaro e il suo uso rende liberi, non il consumo e le sue aberranti applicazioni rendono liberi, nell’ottica di “una società senza pensiero” (p. 131), ma la libertà è tale in quanto libertà pensata e agita.
Gli anziani (cerco di capire quanto scrive Velio a proposito del rapporto fra anziani, ossia insegnanti, nel caso specifico, e giovani, cioè studentesse e studenti), i quali godono, stando alle parole della nutrice di Fedra, di una condizione di compiuto disincanto, che sono stati i maestri, e poi i giovani, che hanno appreso da quegli anziani, non infuturino il loro apprendimento nelle forme del dominio bensì lo propongano come dirigenti al fine di non rendere insuperabili le crisi facendone un elemento consolidato. Non bisogna aspettare, come il Candido di Voltaire, che si manifestino terremoti, epidemie (cosa che è avvenuta nei modi terribili che ci ha proposto il Covid 19) e guerre per prendere atto che c’è in corso una crisi che va risolta senza demandare al futuro la sua soluzione. Questo non è il migliore dei mondi possibili; è quello che è. E il disincanto compiuto degli anziani, dei vecchi, può contribuire al raggiungimento della consapevolezza che la prima fase dell’acquisizione della libertà come cardine intorno al quale ruota intera la nostra vita passa attraverso l’acquisizione del fatto che noi siamo natura; il nostro essere natura nella natura non ci costringe né alle forme più deteriori di determinismo o di necessitarismo, né alla convinzione che la natura sia un semplice “altro da sé” superabile nella forma superiore dello spirito assoluto o dell’idea. Come “essere” nella natura, l’uomo libero a nulla aspira di più che alla “dilectio mundi” o, per dirla alla maniera di Spinoza: “Homo liber de nulla re minus, quam de morte cogitat, et eius sapientia non mortis, sed vitae meditatio est” (3). Il vecchio coraggioso e totalmente libero, avendo meditato su come ha vissuto la vita piuttosto che su come debba affrontare la morte, lascia alle generazioni che verranno quest’ultima indicazione di metodo intorno a cosa sia da intendersi per libertà. Scrive Velio: “…chi incontrerà la mia parola, lo farà nelle intermittenze della chiacchiera imbonitoria, dello spettacolo triviale, degli assilli incomponibili del giorno, nelle solitudini affollate, nell’insensato travolgimento della vita” (pp. 122-3): questa è l’inautenticità del non essere se stessi, è il contrario della libertà. Se non si è questo, si è liberi e le parole, anche se pietre, giungono all’orecchio come ammonimenti lievi e facilmente accettabili. E con il richiamo alla libertà fa il paio l’insegnamento della speranza che “se è una necessità primaria, non vive senza alimento” (p. 83). Quindi la speranza non è un apriori astratto, è una necessità e, come tale, deve essere alimentata: quale l’alimento della speranza se non la cultura, la letteratura, l’amicizia, la filosofia? E non è forse speranza “l’eroismo del gracile gigante sardo, che dal buio del suo carcere scrive le pagine più straordinarie e lucide sulla storia nazionale italiana e sui compiti del proletariato” (p. 134) für ewig?
Mi colpisce, quasi mi inchioda, nella sua anche grafica peculiarità rispetto al tutto (ricorda il modo fortiniano di distinguere e mettere in evidenza alcuni versi specifici dal contesto con l’uso degli spazi bianchi), l’ultima riga del racconto Non ho tempo; suona nel modo seguente: “Non abbiamo tempo” (p. 145). Ritmo della vita accelerato, affanno della rincorsa alla soluzione di quotidiane ossessioni, il lento ma inesorabile consumarsi del presente nell’orgia della ricerca del benessere ci fanno dire che non abbiamo tempo. Il tempo, e lo spazio. Scriveva il “gracile gigante sardo” alla cognata Tatiana, il 1° luglio del 1929, mentre rifletteva su come un detenuto possa trascorrere il tempo: “… il carcerato si sdraia supino nella branda e passa il tempo a sputare contro il soffitto, sognando cose irrealizzabili …” (4). Ma aggiungeva che questa per lui non sarebbe diventata consuetudine poiché era tutto preso dal processo naturale in base al quale la sua rosa si stava ravvivando (5) e ciò lo spingeva a prendere in considerazione “i fenomeni cosmici” al punto che “il ciclo delle stagioni, legato ai solstizi e agli equinozi, lo sento come carne della mia carne; la rosa è viva e fiorirà certamente … insomma il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me” (6). Nel chiuso della cella del carcere fascista lo spazio è evaporato ma il tempo è sempre più consistente, e il sostitutivo dello spazio è l’eterno ritornare delle stagioni, scandito dal ravvivarsi della rosa, che spinge all’esercizio del tendere verso, proprio come il passerotto posseduto in cella il quale, poiché “conquistava tutte le cime esistenti nella cella e quindi si assideva per qualche minuto ad assaporarne la sublime pace (…) credo che avesse uno spirito eminentemente goethiano, come ho letto in una biografia a proposito dell’uomo biografato. Ueber allen Gipfeln!” (7). E questo passerotto, descritto con “osservazioni minute e curiose” (p. 115) da Gramsci, è nella mente di Velio.
La dimensione del tempo come uno scorrere incessante e continuo conduce Gramsci alla consapevolezza che non esistano datazioni in grado di porre un limite alle vicende umane; il passato è legato al presente che, a sua volta, è proiettato für ewig: “Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è Capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa (…) essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. (…) Perciò odio il Capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un Capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. (…) Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse” (8).
Riferendomi al “gracile gigante sardo” mi ritorna improvvisamente in mente, e per concludere, Congedo (p. 121). Qui Velio fa riferimento alla reciprocità dell’insegnamento, allo scambio continuo fra docente e discente: “…il rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e pertanto ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro” (9). E ciò è ancora più valido nell’attuale scienza dell’educazione che non può arrendersi di fronte alla sfida del senso comune informatico e tecnologico, del quale può acquisire soltanto gli strumenti. Il resto è dura fatica del concetto (p. 83) (10) che si realizza in un lavoro duale (docente-discente) che deve proporre lo studio disinteressato e per sempre, cioè für ewig, come fine e come mezzo non dimenticando mai i due obiettivi principali: “ 1) Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza (…) (11); 2) Occorre (…) violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo (…)" (12).
Insomma quanto di Gramsci c’è in questi racconti che, molto spesso, assumono il carattere aforistico senza mai cedere al tono della sentenza o della chiusura del discorso. Anzi in essi vivo il dubbio riassumibile nelle tre domande: “In nome di chi parlo? ... A chi parlo? ... A che serve ciò che dico?” (pp. 122-3). Domande indiscrete? Forse lo sono più le risposte, anche se soltanto intuite da chi legge poiché non dette, in quanto in esse c’è un fondo di amarezza ma c’è anche la speranza. Insomma, anche qui, il “gracile gigante sardo” ci viene incontro: “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”.

Note

1. Lucrezio, De rerum natura, VI, 1136-1137.

2. A tal proposito va ricordata la sentenza di Publio Terenzio Afro nella commedia Phormio: “Senectus ipsa est morbus”.

3. B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata, prop. LXVII.

4. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di F. Giasi, Einaudi, 
Torino, 2020, p. 385.

5. Tatiania Schucht, cognata di Gramsci, ricorda che, nel corso di una visita al detenuto nella primavera del 1929, “Antonio mi chiese con insistenza una rosa rampicante, obiettai che non ritenevo opportuno che si facesse un pergolato in carcere, non volendo dovere goderlo [sic], e Antonio rispose che sapeva invece di dovere stabilire mentalmente la sua esistenza per lunghi anni a Turi quindi poteva bene desiderare di avere un rosaio che avrebbe fatto salire lungo il muro, sino alle celle” (T. Schucht, I colloqui che ho avuto, in A. Gramsci-T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli e C. Daniele, Einaudi, Torino 1997, p. 1438).

6. A.Gramsci, ivi, p. 386.

7. A. Gramsci, ivi, p. 131.

8. A. Gramsci, Capodanno in Avanti!, 1° gennaio 1916, ora in Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Scritti (1910-1926), vol. I (1910-1916), a cura di G. Guida e Maria L. Righi, Treccani, Roma, 2019, p. 66.

9. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, 1331.

10. “Pensieri veri e penetrazione scientifica si possono guadagnare solo nel lavoro del concetto. Soltanto esso può produrre l’universalità del sapere” (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 59). Il termine “lavoro” traduce il tedesco “die Anstrengung”, che significa propriamente sforzo, fatica. Ma già Virgilio nelle Georgiche (I, 145-146) si era espresso nel modo seguente: “Labor omnia vicit improbus… (Il duro lavoro vince ogni difficoltà…)”.

11. A. Gramsci, ivi, pp. 2331-2.

12. A. Gramsci, ivi, p., 1131.

DELIRI

Tre giorni di lutto nazionale in Argentina per la morte di Diego Armando Maradona. Una nazione 5 volte in bancarotta negli ultimi 40 anni (una ogni otto anni), con un debito pubblico da 311 miliardi $ (di cui 44 miliardi con il FMI, per metà condonati la scorsa estate), 6.800 $ di debito pro-capite, si appresta a celebrare per tre giorni, normalmente accompagnati da sospensione delle attività, la memoria di un geniale e talentuoso professionista della pedata (parlandone da morto), ubriacone e drogato (parlandone da vivo). I “poveri” argentini... mah!
Stefano Casadio

Vaccini
IL GRAN PREMIO
 


Al nastro di partenza erano pronti
i conduttor. Ridean pensando ai conti.
In pole position, fé segnar novanta.                                                            
Il russo Sputnik “novantadue” rispose.                                                        
Il terzo non tardò: “Qualcun millanta;
metto la virgola, a precisar le cose,
tra il quattro e il cinque”.                                                                              
Pregusta di carpir bottino pingue.
 
Talun* dei morti è già resuscitato [*e conteggiato tra i guariti]
e a novantotto ha spinto il risultato.                                                              
Non scaldò il freddo pubblica opinione:
meno settanta! Ventotto fa per precisione.
 
Che frega a noi? Pensiamo ad incassare! [senza dar garanzie]
Per l’emergenza è lecito sbagliare”  [ahi, ahi]
Bionda tedesca li ha già pagati tutti. [in anticipo]
Nel Mar del Nord li getterà tra i flutti
 
ché l’asinello fe’ cornuto il bue:
vinse il Gran Premio scrivendo Centodue.                                             
Luigi Caroli