Caro
Gaccione, accolgo
volentieri l’invito a partecipare al dibattito iniziato con la lettera aperta
di Danilo Reschigna del 20 novembre 2020, contenente una dura accusa ai giovani
d’oggi, definiti “demoni incoscienti” e “assassini da scaraventare in galera”.
Lo faccio perché il parlare di giovani e con i giovani è sempre stato al centro
del mio interesse, sia come docente che come assuntore di giovani molti dei
quali ho avviato alla professione. La
lettera mi ha colpito come atto d’amore. Infatti, è solo l’amore e l’amarezza
frutto dell’amore deluso, che può suggerire una accusa così generale, così
generica, così ingiusta. Nel finale della sua lettera Reschigna stesso corregge
il tiro affermando che “numerosi giovani non sono quelli che ho “demolito”, ma
questa è l’eccezione che conferma la regola”. La domanda da porsi è dunque: la
regola è quella illustrata dall’apocalittica riflessione di Reschigna o quella
dei tantissimi giovani che studiano e lavorano silenziosamente e seriamente
fuori dai riflettori, dalle discoteche, dalle feste della “nuova” Milano da
bere anzi da sniffare?
L’immagine
più rappresentativa è quella ributtante di quella parte della gioventù milanese
ricca o benestante che abbiamo, con orrore, visto recentemente partecipare a
feste imbottite di cocaina e di stupri (e mi riferisco non solo a chi organizza
queste feste ma a chi alle stesse partecipa) o sono i giovani medici e
infermieri siciliani che hanno risposto immediatamente, senza se e senza ma,
alla richiesta di aiuto della Val Seriana nel momento più acuto della pandemia?
E perché questi giovani sanitari siciliani dovrebbero essere meno meritevoli
degli “angeli del fango” di Firenze? Forse ci voleva più coraggio ad andare a
esercitare attività sanitarie in Val Seriana che andare a spalare fango a
Firenze. E non sono giovani i ragazzi e le ragazze del Rione Sanità di Napoli
che, guidati da un sacerdote-imprenditore-maestro hanno fatto, in questo
importante Rione di Napoli, un autentico “miracolo” (copyright papa Francesco)
sociale, culturale, economico? E non è un anziano, anzi un vecchio, carico di
onori, di patacche e di potere, il cardinale che sta cercando di soffocare e
umiliare questo “miracolo”, questa bellissima storia giovanile? E siamo certi
che i giovani che generosamente sono impegnati nel terzo settore siano così
pochi da rappresentare una minoranza senza valore, una eccezione trascurabile?
Molti intellettuali che scrivono sui giornali sono convinti che le fabbriche
non esistano più, e gli operai non esistano più. Io che, per mestiere di medico
condotto d’impresa, ho a che fare con molte fabbriche, vorrei assicurarvi che
le fabbriche, (comprese molte fabbriche fordiste) esistono ancora e che gli
operai esistono e lavorano fabbricando cose utili per tutti noi e che la grande
maggioranza di essi sono giovani. E non sono stati i giovani che hanno dato un
aiuto decisivo a bloccare la scalata alla Regione Emilia, di quella sventura
nazionale di Salvini? E non è stato il voto giovanile a dare un grande
contributo a fermare la tragedia di Trump che, a differenza di quello che lui
pensa di essere, tanto giovane più non è? Potrei
continuare a lungo, ma non credo si tratti di un esercizio molto utile,
Mancando la prova statistica e aritmetica ognuno resterebbe della propria
opinione. Meglio provare a ragionare sul significato dell’allarme lanciato da
Reschigna, perché l’allarme, a prescindere dai toni esasperati e dal suo
fondamento statistico, è giustificato e preoccupante.
Io
penso che i giovani descritti da Reschigna siano una minoranza, ma anche se
fossero una forte minoranza, l’allarme merita la più seria attenzione. Ma vi è
qualcosa di più triste dell’allarme lanciato da Reschigna ed è la conclusione
di Gaccione quando afferma: “Ma un appello generico ai “giovani” è
perfettamente inutile. La stragrande maggioranza di loro, infatti, è da anni
indifferente”. Se questo è vero e temo che, in parte, lo sia, dobbiamo porci la
domanda centrale: da dove viene questa indifferenza? È una domanda che ci porta
inevitabilmente a fare i conti con noi stessi, come genitori, nonni, come
cattivi maestri. Nel
2016 ho pubblicato un libro dedicato alla mia città, intitolato: Città diBrescia, culla d’intrapresa. Questo libro mi portò a ripercorrere gli
anni della mia formazione ed a rendere un profondo ringraziamento ai grandi
maestri, laici e religiosi, che la mia generazione ebbe la fortuna di avere.
Riflettendo su questa grande fortuna mi posi una domanda fondamentale: “Ma cosa
abbiamo fatto, di ciò che questi maestri ci hanno dato? Ne abbiamo fatto buon
uso? Cosa abbiamo restituito? Cosa abbiamo dato, in cambio?”. Sono queste le
domande che contano. E le risposte possono essere, in parte, individuali, ma
anche, in parte, comuni, generazionali. Sul piano personale e professionale, mi
sembra di aver fatto buon uso degli insegnamenti di quei maestri, così come dei
tratti essenziali della “brescianità”, che ci vengono trasmessi dalla storia
della città, con la quale mi sono sempre profondamente identificato e della
quale sono sempre stato molto orgoglioso. Sul piano pubblico e civico, invece,
il bilancio è negativo: e ciò, non solo a livello personale, ma dell’intera
nostra generazione. Non mi pare che abbiamo fatto buon uso di quel patrimonio
che ci è stato affidato…
Una volta in Vaticano un importante prelato mi chiese
“ma cosa è successo a Brescia? Possibile che la sua grande tradizione di
rigoroso cattolicesimo liberale, di un rigore quasi protestante, si sia
squagliata, svanita nel nulla?”. Una domanda difficile e inquietante. Verrebbe
da rispondere: non ci sono più maestri. Risposta facile, ma pesante: perché se
non ci sono più maestri, dipende da noi, da quelli della mia generazione. Siamo
noi che dovevamo portare avanti la fiaccola che quei grandi maestri ci avevano
affidato. Se non ci sono più maestri, è perché noi non siamo stati capaci di
prendere il testimone e portarlo avanti: come maestri, abbiamo fallito. Non
abbiamo saputo far fruttare i grandi doni che ci sono stati affidati. Come
generazione siamo, dunque, sul piano pubblico, una generazione fallimentare.
Ma, dopo aver recitato il “confiteor”, da bravi cristiani – o come diceva il
mio amico Ermanno Olmi, da aspiranti cristiani – è nostro dovere ricominciare
ad alimentare la speranza, a rimettere la fiaccola sopra il moggio, a parlare
ai nostri figli e ai nostri nipoti, affinché sappiano diventare migliori di
noi, maestri mancati”.
Questa
progressione, che ho scritto per Brescia e per la mia giovinezza, può avere una
valenza generale e il Covid ci aiuta a capirlo ed a farlo capire anche ai
giovani di oggi, che sono apparentemente indifferenti ma tali sono o appaiono,
prevalentemente perché non hanno avuto bravi maestri, credibili ed affidabili. Oggi,
anche grazie al Coronavirus, possiamo ricominciare a parlare con i giovani,
anzi con i giovanissimi, quelli che sono oggi alle elementari che sono molto
turbati ma non spaventati e che, talora, mi colpiscono per la loro precoce
maturità. Hanno solo bisogno di qualcuno credibile che spieghi loro come
stanno veramente le cose e il significato di ciò che sta avvenendo. Qualcuno
che spieghi loro, ad esempio, che chi ha aperto le discoteche in Sardegna non
erano dei giovani ma dei signori abbastanza attempati. Qualcuno che li
incoraggi ad essere forti ed a prepararsi per quando il virus sarà sconfitto.
Ma che spieghi anche che il Coronavirus ci sta insegnando tante cose e ci lascerà
in dono maggiore consapevolezza. Parliamo dunque con i giovanissimi dicendo
loro quelle parole che non abbiamo saputo dire ai loro fratelli maggiori o ai
loro giovani genitori. Allego
un trafiletto di un giovane non indifferente, su “Economy Francesco”, mio
collaboratore*. Suggerisco
di vedere il docu-film di Giacomo Gatti, regista, Inaz produttore, intitolato: Il
fattore umano. Lo spirito del lavoro, dove si vedono giovani e meno giovani
non “indifferenti” all’opera su lavori fatti con tanto amore. Il link è: https://fattoreumano.inaz.it/visione-film [*Economy of Francesco. Percorso bresciano
di Mario Nicoliello Giornale di Brescia del 20
novembre 2020]