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domenica 6 dicembre 2020

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada

 
L’uomo e la donna


Il pastore greco, per indicare fertile, coniò γόνιμος (gònimos), aggettivo a due uscite, che è colui che attiva i processi di crescita nel grembo, fecondando. Γόνιμος, nel mio dialetto, è diventato sostantivo e si è trasformato, dal punto di vista fonetico, in gummin’: uomo. Questo stesso aggettivo fu dedotto da γόνος: nascita, prole, per cui i greci fecero questo ragionamento: se c’è la prole, c’è stato uno che è stato atto a generare.
I latini coniarono homo hominis, nome non facile da decodificare e da scrivere alla greca, probabilmente, così: χαομαω χωμινις, che si può rendere: oltre a inseminare, ha in sé la capacità di legare con la donna, favorendo la formazione dell’essere. Con legare il pastore latino volle dire: è colui che con il lavoro provvede al nutrimento della famiglia. L’uomo ha caratteristiche diverse dagli altri esseri viventi (animali): è socievole (lega con gli altri) è ben disposto verso gli altri, ha un suo particolare sentire, si connota per la pietas, prova sentimenti di gratitudine e di timore verso gli dèi, condivide i patimenti, le sofferenze e i lutti degli altri. A tal proposito, forte e piena di orgoglio è l’affermazione di Terenzio: Homo sum: nil humani a me alienum puto. Homo ha molto del civis, che è colui che dal mancare (in questo caso: nel bisogno) va a legare, nell’accezione più ampia.



Da homo fu dedotto l’aggettivo humanus, che è colui che ha caratteristiche del suo genere, che, pertanto, è in perfetta consonanza con il modo di essere dell’uomo. Dall’aggettivo humanus fu coniata humanitas, che, inizialmente, indicò ciò che contraddistingue gli umani (natura e sentire) e, successivamente, il genere umano. Gli italici formarono il verbo umanizzare e, soprattutto, Umanesimo, come rinascita culturale, in nome di una riproposizione e di una rilettura dei valori espressi dalla civiltà greca e latina.
I latini, per indicare il contrario di umano, con lo stampo in, ricavarono inumano, mentre gli italici dissero disumano, ad indicare colui che non è uomo, avendo conservato la natura propria degli altri animali. Da fiera lo definì feroce ed efferato, da pio si ebbe empio, da saevus: crudele coniò seviziatore, da crudo crudele, da bestia bestiale.



I greci per indicare chi è umano dissero filantropo ed anche antropico, nel senso di ciò che appartiene alla natura dell’uomo, mentre per indicare disumano dissero θηρίωδης (therìodes)): simile a bestia, ferino, selvaggio, significati legati a θήρ θηρός (ther theròs): fiera (da φήρ φηρός, variante greca di θήρ θηρός); mentre per indicare l’asociale coniarono misantropo, per dire di chi odia non solo un uomo, ma l’intera umanità.
I latini coniarono vir viri, specificando che è colui che è maturo dal punto di vista sessuale, omologo, si fa per dire, di maschio. Da vir furono coniati virile, virilità, virilmente ed il verbo evirare.
I latini si avvalsero anche del sostantivo mas maris: maschio, di genere maschile, che è il fecondatore. Da mas furono dedotti masculus e masculinus.
I greci, per indicare uomo, coniarono νθροπος (ànthropos), che è colui che, mentre cresce il grembo, determina la formazione della creatura, e νήρ νδρός (anér andròs), omologo di vir, che è il maschio giovane e forte, se da νδρός fu dedotto νδρεος (andrèios): maschio, virile, animoso, forte, prode. Da νήρ νδρός fu coniato νδρό-γυνος: androgino, nel senso di un essere che ha organi riproduttivi e gonadi, quindi, come sinonimo di ermafrodito.



Tornando a vir, bisogna rimarcare che, in latino, dette luogo all’aggettivo: vir-irdis: verde, vegeto, vigoroso, al verbo vir-eo: sono vigoroso, sono verde, verdeggio, ad indicare la forza generativa, ma anche la forza del carattere e delle decisioni. Quanto ha pesato nel rapporto uomo donna il convincimento di un uomo-maschio che deve prevalere sulla donna! Nel mio dialetto c’è una cosa che l’uomo deve sempre ricordare: devi essere un uomo, che Cicerone rese: te virum praebeas! Pertanto, è del vir la forza, a lui compete e deve farne anche sfoggio.
In greco, l’omologo di virtus virtutis è (areté) ρετή: qualità, abilità, prodigio, forza divina, che rimanda alla capacità, dal nulla, con l’ingegno e con l’abile manualità, di realizzare la creatura nel grembo. Pertanto, se virtus è da collegare a vir, i latini dedussero che il merito della creazione era tutta e solamente del vir!
In una società maschilista, la creatura al femminile ebbe una funzione precipua: essere gestante, far nascere la creatura e allevarla. Infatti, la parola matrimonio si traduce: è l’istituzione che ha la funzione di rendere madre la sposa (alla lettera: far rimanere). Al padre, invece, spettava la costituzione del patrimonio da lasciare ai figli. C’è, comunque, da evidenziare che, quando fu dominante la pastorizia, la donna ricoprì un ruolo sociale importante: fu la matriarca. Mentre il maschio aveva la cura del gregge e, spesso, era transumante, la donna aveva il compito di attendere alla cura dei figli, alla loro educazione e di realizzare tessuti e provviste per i bisogni dei componenti della famiglia. Tali compiti, di fatto, furono esercitati anche durante il patriarcato.



 Nel mondo greco e latino, la donna fu sempre sotto tutela o del padre o del marito. Soprattutto le donne di rango sociale elevato dovevano restare in casa, per di più nel gineceo. Greci e latini furono, essenzialmente, monogami, salvo concedere al marito il ripudio della moglie, se questa si fosse dimostrata infertile. Infatti, la radice pud, che dette luogo a pudeo, si traduce: fa il mancare con funzione generativa. La perifrasi appena riportata generò due concetti che non hanno nulla in comune, in quanto il pudore è conseguente alla sessualità, mentre il ripudio era determinato, almeno inizialmente, per mancanza di prole.
La femmina, quella degli animali, fu denominata dai greci θήλεια (e théleia), che è colei che, avendo raggiunto la maturità sessuale, inizia l’attività riproduttiva, quella di fattrice e allevatrice. Da ricordare che théleia fu dedotta da (thelé) θηλή: capezzolo, da cui gli italici ricavarono stillare. Invece, la femmina dell’uomo fu denominata γυνή γυναικός (guné gunaicòs)), che è colei entro la quale si crea/si forma e dalla quale nasce la creatura, da cui, in italiano, ginecologo/a.



Anche i latini, con mulier ed uxor, indicarono la compagna da cui avere figli legittimi. I greci con γαμέω (gaméo) dissero: mi sposo (per procreare), in quanto la radice γαμ (gam) si deve tradurre: dal generare il rimanere (la prole), che spiega la funzione del matrimonio e di monogamico. I latini usarono il verbo nubo (concepisco la creatura): mi marito, che fu attinente solo alla donna e da nupta: sposata, maritata dedussero nuptiae.
Nella cultura latina il padre di famiglia diventa il dominus come padrone di casa e padrone della famiglia, a cui si affianca la domina, che, però, essendo legata alla casa, diventa la padrona della casa. In greco il despota (δεσπότης) indicò il padrone della casa, il padrone assoluto, in quanto, nella metafora del grembo, è colui che, quando il mancare (l’inseminazione) genera il crescere (il flusso gravidico), la creatura tende perché, il despota legando, facendo prevalere la sua volontà, ma anche lavorando e producendo,  tiene tutti a freno; invece, la (déspoina) δέσποινα: la padrona di casa è colei che lega, sì, ma, industriandosi, per provvedere ai bisogni dei componenti della famiglia. In altri termini, come, nel grembo, la madre provvede, legando, al nutrimento della creatura, così, in casa, provvede al soddisfacimento dei bisogni di tutti.