Pagine

domenica 20 dicembre 2020

Spigolature natalizie
di Nicola Santagada

Fritture natalizie calabresi
 
I ricordi del mio primo Natale risalgono alla fine degli anni Quaranta. La vita degli Amendolaresi era quella di sempre. Non c’era acqua nelle case, quindi niente fognature, senza luce, mentre una pista collegava il centro con la civiltà: la ferrovia e la 106. Le luminarie erano rappresentate dalla luce intensa di un lume e dal ceppo ardente nel focolare. I lavori erano quelli dei campi e dei pastori. Le tradizioni erano molto radicate, salde, immodificate e immodificabili. Il Natale era il cuore di tutte le tradizioni culturali e compendiava lo spirito religioso ancestrale e quello cristiano. La sintesi fra queste due culture era rappresentata dalla pietas verso la divinità e verso quelli che si trovavano nel bisogno. Il Natale, in realtà, era la festa della famiglia, per la quale si chiedeva a Dio di preservarla dai mali e dai lutti. Nella famiglia ricopriva un ruolo fondamentale il capofamiglia, che, nel rituale del ceppo, rappresentava i valori da preservare e custodire. La famiglia, poi, trovava la sua essenza nel rinnovarsi e nel riprodursi. Per perpetuare la specie era necessaria l’assistenza divina, conseguibile mediante l’offerta votiva. Pertanto, il futuro della famiglia era rappresentato dalla nascita dei figli, per i quali si lavorava e si accumulava. Il Natale, che ricorda la nascita del Salvatore, era la festa della famiglia benedetta dalla nascita dei figli. 
Un elemento simbolico era rappresentato dai crispi (parola dedotta da χρίω: ungo), che s’incominciavano a preparare dalla festività di Santa Lucia. Il primo fritto veniva appeso ad un chiodo come segno beneaugurante, mentre alcune persone usavano sparare con il fucile in segno di festa. Il crispo, che richiama l’unzione biblica da parte di Dio, rappresenta una sorta di rito propiziatorio, ma indica anche il segno della benedizione divina. Infatti, chi aveva avuto lutti nella propria casa non doveva friggere, diversamente, chi non ne aveva avut, doveva friggere.
Un altro elemento forte nella memoria era rappresentato dal rito devozionale dell’elemosina al bambino (a ghimosin’ allu bammin’). Alcune donne, in cambio di grazie, facevano il voto di mortificare stesse, chiedendo una fetta di pane. Avvolte da scialli neri bussavano alle porte, ripetendo la frase rituale, mentre la pietà imponeva di soddisfare la richiesta.
Per concludere questa scelta di fiori della memoria, mi piace sottolineare una frase: pure aguann’ hame fatt’ a Natagh’ (anche quest’anno abbiamo trascorso il Natale con la famiglia), che sentivo pronunciare da persone anziane, la sera del 25 dicembre, mentre tornavano a casa. Esprimevano una sorta di ringraziamento al Signore per aver concesso di santificare il grande Evento con tutta la famiglia. Allora quale Natale è da vivere e, quindi, da tramandare? Lo scambio di regali è ben poca cosa, l’attenzione e l’amore per la famiglia è importante, il sentimento di fratellanza e di solidarietà che viene dalla grotta di Betlemme è da vivere e da riproporre.