Spigolature natalizie
di
Nicola Santagada
Fritture natalizie calabresi
I ricordi del mio primo Natale risalgono
alla fine degli anni Quaranta. La vita degli Amendolaresi era quella di sempre.
Non c’era acqua nelle case, quindi niente fognature, senza luce, mentre una
pista collegava il centro con la civiltà: la ferrovia e la 106. Le
luminarie erano rappresentate dalla luce intensa di un lume e dal ceppo ardente
nel focolare. I lavori erano quelli dei campi e dei pastori. Le tradizioni
erano molto radicate, salde, immodificate e immodificabili. Il Natale era il
cuore di tutte le tradizioni culturali e compendiava lo spirito religioso
ancestrale e quello cristiano. La sintesi fra queste due culture era
rappresentata dalla pietas verso la divinità e verso quelli che si trovavano
nel bisogno. Il Natale, in realtà, era la festa della famiglia, per la quale si
chiedeva a Dio di preservarla dai mali e dai lutti. Nella famiglia ricopriva un
ruolo fondamentale il capofamiglia, che, nel rituale del ceppo, rappresentava i
valori da preservare e custodire. La famiglia, poi, trovava la sua essenza nel
rinnovarsi e nel riprodursi. Per perpetuare la specie era necessaria
l’assistenza divina, conseguibile mediante l’offerta votiva. Pertanto, il
futuro della famiglia era rappresentato dalla nascita dei figli, per i quali si
lavorava e si accumulava. Il Natale, che ricorda la nascita del Salvatore, era
la festa della famiglia benedetta dalla nascita dei figli.
Un
elemento simbolico era rappresentato dai crispi (parola dedotta da χρίω: ungo),
che s’incominciavano a preparare dalla festività di Santa Lucia. Il primo fritto
veniva appeso ad un chiodo come segno beneaugurante, mentre alcune persone
usavano sparare con il fucile in segno di festa. Il crispo, che richiama
l’unzione biblica da parte di Dio, rappresenta una sorta di rito propiziatorio,
ma indica anche il segno della benedizione divina. Infatti, chi aveva avuto
lutti nella propria casa non doveva friggere, diversamente, chi
non ne aveva avut, doveva friggere.
Un
altro elemento forte nella memoria era rappresentato dal rito devozionale dell’elemosina
al bambino (a ghimosin’ allu bammin’). Alcune donne, in cambio di grazie,
facevano il voto di mortificare sé stesse, chiedendo una fetta di
pane. Avvolte da scialli neri bussavano alle porte, ripetendo la frase rituale,
mentre la pietà imponeva di soddisfare la richiesta.
Per
concludere questa scelta di fiori della memoria, mi piace sottolineare una
frase: pure aguann’ hame fatt’ a Natagh’ (anche quest’anno abbiamo
trascorso il Natale con la famiglia), che sentivo pronunciare da persone
anziane, la sera del 25 dicembre, mentre tornavano a casa. Esprimevano una
sorta di ringraziamento al Signore per aver concesso di santificare il grande
Evento con tutta la famiglia. Allora quale Natale è da vivere e, quindi, da
tramandare? Lo scambio di regali è ben poca cosa, l’attenzione e l’amore per la
famiglia è importante, il sentimento di fratellanza e di solidarietà che viene
dalla grotta di Betlemme è da vivere e da riproporre.
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