Ci
sono poeti-primula e poeti-crisantemo: poeti a fioritura precoce e poeti a
fioritura tardiva. Sorprendenti entrambi i casi, che la poesia si affacci a 15
anni (Rimbaud) o a settanta (come nel caso del poeta di cui qui ci occupiamo). Da
quale seme nasce il fiore, quanto tempo è rimasto nella terra, che cosa l’ha
fatto germogliare? Si può indagare nell’opera e nella vita del suo autore e
formulare ipotesi, ma l’affiorare della poesia, nel senso del presentarsi con
urgenza e necessità della parola poetica, rimane in buona parte avvolta dal
mistero. E i primi a sorprendersi sono probabilmente i diretti interessati. Quanto
poi al vissuto dell’autore, seppure nell’opera si intravedano, in misura volta
a volta diversa, elementi biografici, la poesia vive di vita propria: il suo
potenziale semantico e il suo valore sono intrinseci ad essa e non dipendono da
null’altro. Questo non significa che, quando ci accostiamo a un’opera senza
nulla sapere dell’autore, non emergano indizi che ci inducono a formulare
ipotesi sul vissuto di chi l’ha prodotta. Alla fine, però, questi elementi
non possono travalicare l’ambito che a loro compete, a meno di non aderire alla
tendenza a fare del poeta un personaggio; con il risultato, come spesso accade,
di attribuire ai testi un’aura impropria e a buon mercato. Per
venire a questa opera prima di Giuseppe Cinà, più che mai l’impatto iniziale
del lettore è con la lingua. E con la stretta relazione fra lingua e stile. La
lingua di A macchia e u jardinu - come ci indica Giuseppe Traina nella
bella introduzione - «è sì di base palermitana ma tende a raggiungere una koinè
siciliana che va studiata, sulla scorta delle più aggiornate riflessioni dei
linguisti sincronici, in rapporto anche all’uso del dialetto nella poesia
siciliana dei secoli XX e XXI» (p. 7). Diversamente da altri poeti in dialetto
che, essendo emigrati dal luogo/mondo al centro della loro poesia, hanno finito
per impiegare la lingua parlata decenni prima in quello stesso luogo/mondo (un
esempio per tutti: Raffaello Baldini), Cinà fa della lingua una costruzione
sincretica che va oltre il contesto in cui ‘accadono’ le cose di cui parla. E
l’esito è non meno felice di altri modi di fare poesia che hanno nella
‘fedeltà’ a una lingua una loro matrice (ma qui, a evitare equivoci, corre
l’obbligo di precisare che, in poesia, la fedeltà alla lingua - questione assai
complessa - comporta comunque un’invenzione, nel senso più proprio di inventio,
scoperta: ogni voce poetica, nel portare in evidenza specifiche potenzialità
depositate in un patrimonio linguistico, dà vita a una lingua inconfondibile). Altra
cosa è ovviamente la lingua ‘inventata’ dai poeti partendo dalla lingua parlata
dal volgo. Il riferimento d’obbligo è ai poeti stilnovisti e al lavoro che sul
loro lascito è stato compiuto nel corso dei secoli per creare l’italiano come
lingua (scritta, prima che estesamente parlata) di una koinè che precede
e aiuta a costruire quella nazionale. Né
si può dimenticare l’altra strada: quella che, muovendo da uno specifico
materiale linguistico, arriva a una lingua con una buona componente
d’invenzione, dove il poeta/attore, sulle orme della commedia dell’arte,
interpreta la fedeltà alla lingua rinnovandone la creatività che l’ha plasmata
(è il caso dell’estrùs Franco Loi). In A macchia e u jardinu, il lavoro sulla
lingua sembra rispondere a una necessità che è di casa nella recitazione teatrale e,
credo, anche nella poesia: il ritrovamento di un equilibrio fra immedesimazione
e giusta distanza. Così il dettato mostra subito un attributo che, rubando un
termine all’assaggiatore di vini, potremmo definire “ben strutturato”. Detto
altrimenti, i versi distesi di questa raccolta sono caratterizzati da un
bilanciamento tra spontaneità e costruzione, fra un’oralità potente (propria
del dialetto) e un’architettura misurata della parola scritta: un equilibrio
sapiente che è parte consustanziale del poiein di Cinà. Per questa via, l’autore,
oltre a schivare gli scogli del vernacolare (insidia sempre presente nel
ricorso al dialetto), conquista una specifica dimensione del tempo: lo stare
sulla soglia fra un tempo storicamente definito e un tempo di lunga durata.
Mentre schiude le porte di un mondo - quello concreto di Sparauli (nella
Riserva dello Zingaro affacciata sul Tirreno tra il Golfo di Castellamare e S.
Vito Lo Capo), e porta con sé il lettore/uditore in luoghi e situazioni di cui
fa intravedere la natura intima -, la poesia può ricongiungere il presente a un
universo antico. L’ossimoro
infinitu nustrali/ infinito nostrano (pp. 38/39) ben riassume il senso
complessivo di questa poesia. Essa punta a congiungere gli estremi: il qui,
nella sua concretezza, e un là sterminato e sconosciuto che pure si vuole
prossimo. Come lo era il cosmo dei Greci antichi. Il poeta lo fa immergendo sé
e il lettore in un paesaggio di cui riesce a restituire la bellezza scontrosa e
di cui, sottotraccia, vuol fare intravedere la sacralità, come a volerla
preservare con il solo potere di una parola schiva. Ecco allora, soprattutto
nella prima parte (Cuntu ri Sparauli/ Racconto di Sparauli), dispiegarsi
la dimensione contemplativa con immagini potenti dove la natura selvaggia dei
luoghi ritrova una sintonia con l’indole di una lingua che è essa stessa
impregnata di quella selvatichezza, ma che, allo stesso tempo, alterna
bruscamente il pietroso a tenerezza. La
seconda parte, più narrativa (Za Rosa), strutturata con la coerenza e la
tenuta di un poemetto (Traina, p. 8), fa da contro canto alla prima. È il
racconto in prima persona di una donna che, fin dall’infanzia, ha vissuto da
protagonista il lavoro di costruzione di un giardino entro un paesaggio di
difficile umanizzazione come la macchia mediterranea. Con
l’attrice in scena, lievita via via un significativo scarto nella lingua e
nello stile. A confronto con la prima parte, il verso si fa meno contrastato,
la parola si decanta delle asperità e si offre alla lettura come acqua di
fonte.
La copertina del libro
Giuseppe
Cinà A
macchia e u jardinu Manni
Ed. 2020 Pagg.
112 € 13,00