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venerdì 15 gennaio 2021

PENSIERI E PAROLE
di Nino Di Paolo
 


Alcune settimane fa, a Parigi, in occasione dell’ultimo turno della fase a gironi della maggiore competizione calcistica europea, le due squadre in campo, una locale ed una turca, hanno abbandonato il campo e sono tornate negli spogliatoi per protesta in quanto un componente del team arbitrale aveva utilizzato la parola “negro” (più precisamente “negru”, essendo i direttori di gara di quella partita tutti di lingua rumena) per indicare un componente della panchina turca che stava protestando per una decisione del direttore di gara. Questi i fatti. Veniamo alle conseguenze.
Gli arbitri, benché si giustifichino asserendo che il termine “negru” non sia offensivo ma esclusivamente descrittivo, vengono giudicati razzisti da parte dell’opinione pubblica internazionale e della Federazione Europea del Calcio e la partita viene rigiocata con arbitri diversi.
Fin qui la vicenda fila in modo assolutamente logico, sia per le prese di posizione contro il razzismo sia per le precisazioni degli arbitri che, se sincere, andrebbero semplicemente a collocarsi nella cartella “equivoci”.
Ma, a rendere surreale la vicenda, si inseriscono le dichiarazioni del Presidente della Turchia che si intesta il ruolo di censore del razzismo accusando romeni, francesi ed occidentali tutti per tale esecrabile atteggiamento.
Ora, vi sono numerosi detti popolari che descrivono l’atteggiamento di chi accusa altri (per alcuni anche falsamente) non considerando minimamente le colpe proprie.



I più comuni sono: “Il bue dà del cornuto all’asino”, “Da che pulpito viene la predica” oltre agli evangelici “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” oppure “Guardare la pagliuzza negli occhi degli altri senza vedere la trave che c’è nel proprio”. In Turchia è reato affermare che nel 1916 avvenne un genocidio di cui fu vittima la popolazione armena e vengono classificati terroristi i curdi che si battono per l’indipendenza e la propria dignità (oltre ad essere stati la prima linea nella guerra contro il terrore Daesh, con il quale la Turchia ha sempre flirtato, al punto di lasciare nelle mani di quei criminali gli indifesi campi profughi presenti in territorio siriano bombardati proprio, per renderli indifesi e indifendibili, dall’artiglieria e dall’aviazione turca).
La faccia tosta dei satrapi, anche laddove legalmente eletti, è sempre stata senza limiti e confini.
Tornando alla questione iniziale, quella dell’utilizzo della parola “negro” e della sua bollatura come termine razzista mi pare necessario esporre alcune considerazioni. La censura del termine “negro” deriva dal fatto che, nella lingua dell’Impero, vi siano due termini per definire la persona di origine africana subsahariana: black (corrispondente all’aggettivo che si riferisce al colore) e nigger (titolo realmente dispregiativo ed indubitabilmente razzista).
Tutte le assonanze di nigger in lingue diverse dall’inglese sono divenute, di conseguenza, sinonimo di attributo dispregiativo di persona discendente o facente parte di popoli africani subsahariani.
In italiano, fino a quarant’anni fa almeno, il termine negro si usava proprio perché utilizzare “nero” pareva perfino più brutto : l’espressione razzistico-coloniale era stata “faccetta nera” e dunque nero era, a ragion veduta, bandito.
In alcuni dialetti, come nel dialetto milanese, l’aggettivo “nero”, riferito al colore, alle persone o alle cose, è “negher”, non ne esiste un altro.
Qualcuno, che prova a parlare milanese senza conoscere il milanese, usa “ner”, ma è un neologismo meneghino posticcio e inappropriato.
In castigliano, nero si dice negro e, se non sbaglio, anche in romeno si dice esclusivamente negru, con significato omnicomprensivo.
È l’intonazione che offende, non un termine che non ha variazioni.
Il razzismo non sta nel dire nero o negro, sta nel disprezzo interiore, nel praticarla, la discriminazione razziale, nel pensare un’umanità divisa in razze, etnie, nazioni anziché come un’unica specie di un’unica biosfera, di un unico pianeta, di un unico cosmo.
Guardiamo la luna, non il dito, benché la sensibilità di chi possa sentirsi offeso da un termine va compresa e rispettata.
A volte spiegarsi non basta, come non è bastata agli arbitri rumeni, ma è indispensabile. Forse l’intonazione della loro voce ne ha squalificato il comportamento, forse no. Non eravamo lì, non lo sappiamo. Sappiamo solo quello che abbiamo pensato e scritto: questi pensieri e queste parole.