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lunedì 25 gennaio 2021

UNA STORIA ITALIANA
di Marco Vitale


Silvio Novembre


Silvio Novembre: Il coraggio oltre il dovere


Qualche giorno fa ho ricevuto una busta che, manifestamente, conteneva un libro. Ho iniziato ad aprirla svogliatamente. Ma appena è emerso il suo contenuto ho fatto un salto sulla seggiola, sorpreso, emozionato e commosso da questo dono inatteso. Si trattava, infatti, di un libro dedicato ad una delle persone che ho più stimato e a cui ho voluto bene: Silvio Novembre, Maresciallo della Guardia di Finanza, nato ad Alseno, in provincia di Piacenza, il 12 luglio 1934 e morto a Milano il 28 settembre 2019 all’età di ottantacinque anni. Si può voler bene a un maresciallo di finanza? Si può, quando è una persona come Silvio Novembre. Vorrei condividere e spiegare il mio sentimento, anche con l’aiuto di questo bel libro di Giandomenico Belliotti: Silvio Novembre, il coraggio oltre il dovere (Gangemi Editore International, ottobre 2020, pagg. 110). Un libro molto bello per l’alta qualità, grafica ed editoriale, per la storia che racconta, perché la storia del Maresciallo Silvio Novembre è, in buona parte, storia del nostro Paese, per come la racconta, con scrupoloso rispetto della verità attingendo alle migliori fonti e dando ampio spazio alla testimonianza diretta del protagonista, persona sempre riservata, che Belliotti è riuscito a raccogliere prima della sua scomparsa. Perché, infine, libri come questo sono testimonianza preziosa dell’Italia che non vogliamo dimenticare e che vogliamo far conoscere alle nuove generazioni. Fra il 1974 e il 1979 lavorò a fianco dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona offrendogli la sua più stretta collaborazione e la sua fidata amicizia. È certamente questo il periodo più importante e di maggior rilevanza pubblica della sua vita, che si intreccia in modo indissolubile con quella di Ambrosoli: Novembre e Ambrosoli riuscirono insieme a far luce sulla rete delle complesse operazioni finanziarie che il banchiere aveva intessuto, scoprendo l’interfaccia tra attività palesi e occulte; individuarono il complesso intreccio tra affari, politica, finanza, massoneria e criminalità organizzata e raccolsero le prove inconfutabili che divennero il più solido e indistruttibile atto d’accusa contro Sindona, sia in Italia che negli Stati Uniti.  Una battaglia durata cinque anni, durante i quali il Maresciallo e l’avvocato subirono pressioni di ogni genere, tentativi di corruzione e minacce sempre più esplicite fino all’omicidio dello stesso Ambrosoli, assassinato l’11 luglio 1979 a Milano da un killer della mafia italoamericana assoldato da Sindona. Una battaglia ad armi impari, contro un male a volte invisibile, portata avanti con coraggio e determinazione, per far trionfare il bene e l’interesse pubblico, senza mai cedere a ricatti e lusinghe”. (Belliotti)

Giorgio Ambrosoli

Dopo un inizio di rapporti non facile, alimentato da un’iniziale diffidenza reciproca, Ambrosoli e Novembre diventarono del tutto complementari e la loro stretta collaborazione, fiducia e poi amicizia, è la chiave di volta per capire come riuscirono, insieme a fare piena luce su quello che resta se non il più grande certamente il più complesso e significativo scandalo finanziario del dopoguerra e quello, ancora oggi, più denso di insegnamenti.
Belliotti offre una precisa ricostruzione dei passaggi più significativi di quegli anni di fuoco, ma fa molto bene a inquadrarli in tutta la vita di Novembre. Perché è attraverso la ricostruzione dell’intera vita di Novembre che il libro raggiunge il suo obiettivo principale, così ben centrato, che Belliotti sintetizza con queste parole. Il libro vuole essere: Un omaggio a quelli che sono spesso vittime silenziose di soprusi o del cosiddetto promoveatur ut amoveatur e a tutti coloro che ogni giorno compiono fino in fondo il proprio dovere, non anteponendo gli interessi personali a quelli generali e restano fedeli alla propria coscienza, senza mai cedere a compromessi, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché - come affermava il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy e amava ripetere il giudice Giovanni Falcone - è in ciò che sta l’essenza della dignità umana. Nel loro armadio non ci saranno mai scheletri mentre nel cassetto rimangono sempre custoditi i sogni di una società migliore e di un ambiente di lavoro sano, con l’auspicio che un giorno possano finalmente avverarsi e che a vincere siano la virtù dell’onestà, il valore della giustizia, l’assunzione di responsabilità e la conquista del merito sul campo.


Giovanni Falcone

Il motto di Silvio Novembre era: “più è difficile fare il proprio dovere, più bisogna farlo. E la sua vita sempre coerente a questo principio è la migliore testimonianza di un uomo nel quale ci fu sempre continuità tra pensiero, parola, azione.
Silvio nasce, come già detto, ad Alserio in provincia di Piacenza, in una famiglia di lavoratori con cinque figli. Ed anche Silvio incomincia presto a lavorare come manovale presso la centrale idroelettrica dell’Edison di Piacenza. Qui conobbe due Finanzieri in servizio presso la centrale Edison, ne fu affascinato e con il loro aiuto, presentò domanda per entrare nel Corpo. Nel 1953, a 19 anni, viene ammesso alla Scuola Alpina della Guardia di Finanza di Predazzo, per seguire il corso allievi finanzieri. E qui si innamora del Corpo che per lui sarà sempre il punto di riferimento, la casa alla quale sarà sempre e comunque estremamente fedele. Sono belle le parole con cui Silvio ricorda questo momento formativo decisivo. “I colleghi della mia squadra erano quasi tutti meridionali e la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di sgombrare, con badili e pale, il cortile della caserma dalla neve che in quei giorni era caduta abbondante. Ricordo che il nostro capo squadra, il vecchio appuntato Valle, vero maestro di vita, sciatore già appartenente al nucleo sportivo delle Fiamme Gialle, che aveva partecipato anche alle Olimpiadi, ci ha insegnato cosa vuol dire portare le stellette, le Fiamme Gialle, il senso di appartenenza al Corpo, il significato del giuramento, l’importanza della Costituzione e degli articoli più importanti, il perché bisogna osservarla sempre e comunque. Nonostante la fatica, è stato uno dei periodi più belli della mia vita. In quella sede ho capito che occorre mettersi in testa che le cose vanno sempre fatte al meglio delle nostre possibilità anche se il risultato finale non rispecchia appieno le nostre aspettative.
Il giovane Silvio è molto attivo e seriamente impegnato e quindi si fa strada rapidamente in varie località italiane. Nel 1962 si sposa con Assunta Galasso di San Michele al Tagliamento, che ha conosciuto quattro anni prima. Nel 1963, con il grado di brigadiere, viene aggregato al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Brescia, la mia città, do ve si fermerà per otto anni e dove nasceranno le sue due figlie. Allora non conobbi Silvio perché la mia attività mi aveva portato fuori Brescia, prima a Roma e poi, dal 1962, a Milano. Ma ricordo però che, in quegli anni, un ufficiale della Guardia di Finanza di Brescia mi disse che Brescia era, allora, considerata la capitale nazionale delle fatture false. 


Veduta di Brescia

Fu proprio negli otto anni passati a Brescia che Silvio mostrò doti investigative e tenacia non comuni che, oltre a meritargli numerosi encomi nell’ambito del Corpo, lo lanciarono verso incarichi sempre più complessi. Nel 1966, a 32 anni, viene nominato Maresciallo ordinario, nel 1971 è promosso Maresciallo capo e subito dopo viene trasferito al Nucleo Regionale della Polizia Tributaria di Milano, la frontiera più impegnativa della lotta contro i reati finanziari e, nel 1976, operando nel gruppo Sezioni Speciali con competenza di polizia tributaria e di verifiche fiscali, viene promosso Maresciallo Maggiore. È in questi anni che, nel 1974, gli viene affidato l’incarico di guidare una squadra di finanzieri con particolare competenza in materia economico-finanziaria che era stata richiesta al Comando dal sostituto procuratore Guido Viola, da affiancare all’avvocato Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, facente capo a Michele Sindona. Sul lavoro di quella squadra Silvio Novembre racconta: 
Sei militari in tutto. Un tenente, un Maresciallo maggiore, due Marescialli e due Brigadieri anche se, dopo breve tempo, siamo rimasti solo in quattro. Io e i colleghi Francesco Carluccio (poi diventato Ufficiale), Orlando Gotelli e Gaetano De Gennaro. Insieme, abbiamo cercato di ricostruire l’universo di Michele Sindona: i cammini del malaffare, le alchimie e i marchingegni finanziari, la fitta ragnatela dei depositi fiduciari e delle operazioni sui cambi e il mosaico delle misteriose società ombra con sede nei paradisi fiscali. Certo che si rimane increduli quando si legge che nel 1975 lo stesso bancarottiere, dopo essere fuggito negli Stati Uniti, teneva una serie di conferenze nelle università americane, parlando anche di inflazione e affermando che “il  pubblico, l’investitore, il risparmiatore, che impiegano il proprio denaro in società che espongono dei valori o dei risultati che nulla hanno a che vedere con l’effettiva realtà economica dell’impresa, vengono oggi legalmente ingannati e sono soggetti spesso a spiacevoli sorprese.


Michele Sindona

All’inizio i rapporti con Ambrosoli non furono, come già detto, facili come narra lo stesso Novembre. Ambrosoli, consapevole, ma non spaventato, della complessità del compito che gli era stato affidato, dell’esistenza di una forte rete di potenti protettori di Sindona, della grande abilità manovriera e corruttrice dello stesso, della solitudine totale in cui era stato abbandonato, con l’eccezione del  nuovo vertice della banca d’Italia (Paolo Baffi), di operare in una città che solo due anni prima adorava Sindona come un genio della finanza, un modello di professionalismo moderno ed avanzato, un uomo capace di avere al suo servizio alcuni dei più bei nomi della Bocconi; consapevole di tutto questo ma determinato a portare a termine il proprio compito, Ambrosoli, era diffidente verso tutti, compresa la Guardia di Finanza ( in quegli anni al centro di un grave scandalo come ricorda lo stesso Silvio Novembre) e temeva ogni interferenza.
I compiti assegnati ai due uomini erano diversi, ma anche convergenti. Ambrosoli, come liquidatore, doveva cercare di ricuperare il ricuperabile a favore dei creditori della banca e rispondeva a chi l’aveva nominato, cioè alla Banca d’Italia, fortunatamente allora guidata da Paolo Baffi. Silvio Novembre e i suoi dovevano rintracciare e ricostruire prove e indizi di reati, a tutela della fede pubblica e della legalità e il loro referente era il sostituto procuratore della Repubblica, Dott. Guido Viola. Ma ben presto i due uomini si parlarono, si chiarirono, si intesero e iniziò una stretta e formidabile collaborazione e le storie personali confluiscono in una storia comune. Tutta la storia è ormai ben nota sino al tragico epilogo dell’assassinio di Giorgio Ambrosoli e alla condanna di Sindona per doverla ripetere qui. È più importante ragionare sulla stessa e sul suo significato.
Avendo avuto l’occasione di seguire abbastanza da vicino l’ascesa e il crollo di Sindona e la mirabile opera di Giorgio Ambrosoli e di Silvio Novembre e dei validissimi professionisti che collaboravano con loro, posso dire che il loro successo, che di successo si tratta, è frutto di quattro fattori principali.
Il primo è la grande competenza tecnica-professionale di entrambi che ha loro permesso di smontare tutte le difese, gli intrecci, i castelli montati da Sindona, certamente personaggio di grandi capacità manovriere e di elevata creatività.
Il secondo è un impegno spasmodico, senza riserve, senza risparmio, sacrificando ogni cosa a quello che sentivano come loro dovere.
Il terzo, che è poi la base e la spiegazione del secondo, è che entrambi erano consapevoli che quello che facevano, che i sacrifici che facevano e imponevano alle loro famiglie, era per un bene più alto, era per dare un importante contributo al bene comune, alla nostra collettività, alla nazione italiana che, attraverso loro e la loro opera voleva testimoniare di essere formata anche da tanti cittadini per bene.
Il quarto è che nessuna competenza tecnica sarebbe stata sufficiente se questi due uomini non avessero avuto un livello assoluto di intransigenza a difesa della loro dignità e della loro professionalità. Dovevano agire così per sentirsi uomini e professionisti dignitosi, per esistere come uomini.


Giulio Andreotti

Solo chi ha seguito l’entità delle pressioni di ogni tipo che furono esercitate contro questi uomini dalle più alte istituzioni, come il presidente del Consiglio Andreotti  e dal suo fido sottosegretario Evangelisti (illustrate e documentate nella Cronaca breve di quei giorni da un altro grande galantuomo, il governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi), come alcuni altissimi magistrati, come gli ambienti della finanza vaticana che operava intorno allo IOR, come quei dirigenti della Guardia di Finanza che progettavano di trasferire Silvio Novembre (e ci fu una volta in cui l’ordine di trasferimento al distaccamento del Monte Bianco stava per essere firmato), come i tanti tentativi di corruzione, come le telefonate notturne, minacciose e insultanti, solo chi ha seguito tutto questo e lo ha poi ritrovato in libri come “Un eroe borghese” di Corrado Stajano e nel  film dallo stesso titolo con regia di Michele Placido, può capire perché il ricordo di questi uomini e di questa storia, di questa Italia bella e positiva non può e non deve andare perduta. Vi è solo un punto, non minore, sul quale non sono mai stato d’accordo con certi argomenti emersi nella letteratura successiva e tardiva su questa drammatica storia, che ha profondamente caratterizzato cinque anni cruciali nella storia italiana. Si dice, e questo lo dice anche Belliotti, che uomini come Novembre erano alti servitori dello Stato. È una affermazione che non mi convince per due motivi. Prima di tutto uomini come Novembre non sono mai servitori di nessuno e tantomeno dello Stato. Ciò che li guida non è lo Stato ma la loro fede interiore nella dignità dell’uomo, nel valore assoluto della professionalità (“più è difficile fare il proprio dovere, più bisogna farlo” Silvio Novembre), il loro “coraggio oltre il dovere. Nel caso di Novembre io ci leggo anche la fedeltà al Corpo che l’aveva accolto e formato negli anni giovanili e al mandato che allora, in quella sede, gli fu affidato. La volontà di non tradire quel mandato. La volontà di non perdere mai la dignità di essere un uomo libero. 


Max Hamlet
"Cospiratore al telefono"

Altro che servitore. Tutto questo io leggo nella bellissima fotografia del volto di Silvio che da sola racconta tutto ciò che c’è nel libro: un volto forte, dignitoso, distaccato che guarda lontano, nel profondo dell’animo umano, e delle sue dolorose ma non umilianti vicende. Un volto e uno sguardo degni di Antonello da Messina. Il secondo motivo è che non conosco altre storie che più di questa dimostrino l’ambiguità della parola Stato. Anni fa, se ricordo bene nell’introduzione di un libro di Umberto Ambrosoli, Carlo Azeglio Ciampi, ha scritto questa frase che anche Bellotti riprende: “Quel colpo sparato ad Ambrosoli era destinato al cuore dello Stato, inscrivendosi l’episodio in un clima inquietante e torbido di intrecci tra malavita e forze eversive, che puntavano alle Istituzioni con un disegno destabilizzante non dissimile, nei suoi esiti, da quello perseguito dal terrorismo, dalla lotta armata (Carlo Azeglio Ciampi).


La lapide che ricorda il sacrificio
di Giorgio Ambrosoli
in via Morozzo della Rocca a Milano

Quando anni fa lessi queste parole scrissi ad Annalori Ambrosoli dicendo che si trattava di una lettura non accettabile, riducendo la vicenda a un torbido intrigo di malavita e di terrorismo. Quel colpo sparato ad Ambrosoli non era destinato al cuore dello Stato, non era un episodio da ricondurre a intrecci tra malavita e forze eversive, non aveva niente a che fare con il terrorismo e con la lotta armata. Era diretto al cuore di Ambrosoli, all’uomo Ambrosoli, per punirlo della sua irriducibile dignità e libertà, per il suo “coraggio oltre il dovere”. Era un colpo che, in ultima analisi, caso mai veniva dallo Stato o, almeno, da parte rilevante dello Stato. O non erano Stato quelli che avevano accompagnato e cresciuto quel giovanotto di Patti al vertice della vita economica e bancaria, sino a farne uno “degli uomini più potenti dell’epoca, sostenuto dalla politica, dalla massoneria e da ambienti vaticani, un genio del male e della finanza senza scrupoli, il banchiere della mafia” (Novembre)? 
E non erano Stato i partiti che da Sindona avevano accettato tanti soldi? E non erano Stato quegli alti magistrati che hanno firmato “affidavit” a favore di Sindona per le autorità americane? E non era Stato il presidente del Consiglio e il suo sottosegretario che tanto si agitarono per far passare, orrendi schemi di salvataggio a favore di Sindona e a spese dei cittadini italiani? E non erano Stato quegli alti comandi della Guardia di Finanza che stavano assecondando le pressioni di chi voleva far trasferire il Maresciallo Novembre sino al Monte Bianco? La verità era che la grande maggioranza dei poteri dello Stato stava dalla parte di Sindona e solo la schiena diritta di pochi uomini. Ambrosoli, Novembre, Baffi, Sarcinelli, fecero quadrato a favore della nostra comunità, della nostra comunanza civile, dell’Italia per bene.



C. A. Ciampi


Il 1979 è stato l’anno orribile. Oltre all’uccisione di Ambrosoli ci fu l’attacco a Paolo Baffi e a Sarcinelli e, attraverso le loro persone, alla Banca d’Italia. Novembre (allora quarantacinquenne) in quell’anno perse anche la moglie, da tempo malata. Silvio Novembre ha scritto: Chi resta vivo si sente un sopravvissuto come accadde a me e come accadde anche al giudice Paolo Borsellino dopo la morte del collega e amico Giovanni Falcone e ai rispettivi agenti della loro scorta nel 1992. Ma Novembre continua il suo impegno, e proprio durante le indagini sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli, condotte dai magistrati Giuliano Turrone e Gherardo Colombo, contribuì alla scoperta della Loggia massonica segreta P2, nella quale era iscritto un numero impressionante di c.d. servitori dello Stato, che fece emergere. “un sistema di potere occulto ed eversivo che aveva provato in tutti i modi a condizionare il nostro lavoro e che costituiva la chiave di lettura di molti fatti e vicende vissute anche a livello personale quando avevano cercato più volte di trasferirmi” (Novembre). E attraverso la P2 e Gelli l’opera di Novembre si salda con la vicenda del crollo del Banco Ambrosiano, dell’assassinio del generale Dalla Chiesa, con l’altro anno terribile delle stragi del 1992, con i nostri giorni. Scrive amaramente Novembre: “Dopo ‘Mani Pulite’ e le stragi di Capaci e di via d’Amelio a Palermo nel 1992 sembrava davvero che il sacrificio di Ambrosoli prima e dei giudici Falcone e Borsellino poi, avessero contribuito a risvegliare le coscienze. Poi in un batter d’occhio, tutto si era dissolto come se la memoria collettiva avesse preferito dimenticare. E l’indifferenza del potere politico di fronte alla storia nobile di questo paese continuava ad essere disarmante.

Licio Gelli


Dunque, questi uomini veri, questi uomini nobili hanno scritto una storia esemplare nell’eterna lotta contro il malaffare ed è una lotta che getta un ponte tra Milano e Palermo. Ambrosoli e Novembre erano nordisti che lottavano contro Sindona, un siciliano doc che a Milano aveva imparato a realizzare i suoi affari e le sue malefatte, che a Milano era stato valorizzato e applaudito da una larga platea con la benedizione del Vaticano di allora. A Novembre era chiarissima la continuità tra la loro opera e quella dei Dalla Chiesa, dei Falcone e Borsellino e dei tanti eroi civili della magistratura, delle forze dell’ordine e dei pochi, pochissimi politici (Mattarella, presidente della Regione siciliana) che hanno operato sul fronte del Sud ma nell’interesse di tutti. È una lotta che non finirà mai e che avrà bisogno di altri eroi. Riusciremo mai ad affiancare l’opera di questi nobili e coraggiosi italiani con un altro ponte tra Nord e Sud che venga eretto dai costruttori dell’economia, da altri uomini di buona volontà impegnati a dare un senso più profondo e duratura alla costruzione di una “buona economia” secondo la raccomandazione che, un giorno, mi rivolse il giudice Falcone: “Fate buona economia?”. Anche per creare a noi la possibilità di “fare buona economia”, questi uomini nobili del Nord e del Sud si sono impegnati allo spasimo, alcuni cadendo sul campo, altri, come Novembre, sopravvivendo con la tristezza nel cuore.


C. A. Dalla Chiesa

Nel 1982, Novembre, decide di lasciare le Fiamme Gialle, ma non il suo impegno personale e civico. Dopo l’uccisione di Giorgio Ambrosoli, Silvio fu una presenza discreta ma affettuosa e preziosa a fianco di Annalori Ambrosoli, impegnata nel difficile compito di far crescere i suoi piccoli bambini, E poi, quando questi crescono, fu sempre impegnato, anche insieme a loro, nel coltivare e divulgare la memoria di Giorgio Ambrosoli e il senso del suo impegno e del suo sacrificio. Il senso dell’opera di Novembre è stato ben compreso e ben motivato dal Comune di Milano che il 7 dicembre 2014 gli ha conferito l’Onorificenza dell’Ambrogino d’oro con questa precisa motivazione:
Maresciallo della Guardia di Finanza, ha indagato per conto della Procura della Repubblica di Milano sul fallimento della Banca Privata Italiana. Con abnegazione ed altissima competenza tecnica, ha collaborato con il commissario liquidatore, avvocato Giorgio Ambrosoli, standogli vicino ben oltre gli stretti obblighi di servizio. Ha contribuito poi, con i commissari liquidatori del Banco Ambrosiano, alla tutela degli interessi collettivi. Fondatore del Circolo Società Civile, ha diffuso in città e nelle scuole il valore della legalità, dell’integrità e della lotta alla corruzione. Milano onora in Silvio Novembre un esempio di servizio generoso e instancabile alle Istituzioni.


Paolo Borsellino

Anche Novembre, come tanti si pose talora la domanda: ma ne valeva la pena? E vale la pena di leggere la risposta che si dà, raccolta da Giandomenico Belliotti, al quale sono grato: “Alcune volte, guardando la foto di Giorgio che tengo sul comodino, provo a chiedergli: “è servito dare la vita per poi finire come siamo finiti?” ma non ho mai pensato che il suo sacrificio sia stato inutile. Anzi, negli anni successivi alla sua scomparsa, quando continuai a frequentare la sua famiglia, ho sempre parlato con la moglie Annalori e i suoi amici di come rendere sempre viva e attuale la sua memoria per fare in modo che non venisse mai dimenticato dalla società. Riflettendo, non si comincia dal tetto a fare le case, bisogna fare anche il lavoro umile, che è quello che porta le basi. Molto probabilmente, insieme a Giorgio, noi abbiamo posto solo un piccolo granellino in quella costruzione, ma è stato un granellino che non è andato disperso. Noi abbiamo fatto qualcosa che ha rotto una certa consuetudine, un certo modo di pensare.
Anche io mi sono spesso posto la stessa domanda e la mia risposta è sempre stata positiva. Ed è ancora più positiva dopo aver letto questa bella storia italiana come l’ha raccontato Giandomenico Belliotti: con precisione, senza retorica ma con profonda partecipazione. Al funerale di Ambrosoli, erano presenti solo i familiari e gli amici più intimi; la città nelle sue istituzioni era del tutto assente con l’eccezione di Paolo Baffi e dei giudici che avevano indagato sul fallimento di Sindona. E il Sole 24 Ore, il giornale dell’economia, dedicò all’evento 12 righe in una rubrica di cronaca minore. Ai funerali del Maresciallo Silvio Novembre, il 30 settembre 2019, la Chiesa era gremita, oltre che con i familiari di Novembre e gli amici di sempre, con in prima fila la famiglia Ambrosoli, da tanti colleghi della Guardia di Finanza con il Comandante Generale della Guardia di Finanza, Generale del Corpo d’Armata Giuseppe Zafarana, il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, un rappresentante del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa e tanti altri. Insomma, mentre il trombettiere suonava le note del silenzio d’ordinanza (secondo un desiderio espresso da Silvio alle figlie Caterina e Isabella), questa volta la Città c’era. Segno non equivoco che quel “granello” (seme) di cui parlava Silvio è cresciuto.


La copertina del libro

E un altro segnale me lo manda un ventenne di oggi che scrive: “Pochi giorni fa abbiamo ricevuto questo libro dal titolo: ‘Silvio Novembre, il coraggio oltre il dovere’. La prima volta che l'ho preso in mano ho sentito l'esigenza di sfogliare pagina per pagina, con delicatezza e attenzione, come quando si tiene in mano qualcosa di prezioso. Ho riletto ogni passaggio, ho riguardato con tenerezza e nostalgia ogni immagine e ho avvertito quanto questo racconto fosse pieno di vita, di una vita vissuta a pieno. Mi sono reso conto effettivamente di avere tra le mani una cosa preziosa. Invito tutti a leggere questo libro e riscoprire la figura esemplare di Silvio Novembre, un uomo che ha saputo vivere la sua professione come un vero e proprio servizio al Paese, non solo nelle azioni ma anche poi nella testimonianza che si fa impegno nelle generazioni. [Stefano Mattachini]”.


Giandomenico Belliotti
autore del libro

Se un ventenne di oggi scrive queste parole e nutre questi sentimenti, vuol dire che l’opera di questi nobili italiani non è stata vana e che non nutrire la speranza che l’Italia nobile che essi rappresentano ce la faccia, è peccato mortale, è un lusso che non possiamo permetterci.