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domenica 28 febbraio 2021
sabato 27 febbraio 2021
IN RICORDO DI STEFANO FILIPPELLI
di
Gabriele Scaramuzza
Stefano Filippelli
È
mancato lunedì 22 febbraio scorso a Lucca, all’età di 72 anni, Stefano
Filippelli: è scomparso “dopo una dolorosa malattia”, come sapevo e come leggo
nelle pagine lucchesi di “Il Tirreno” del 24 febbraio 2021. La sua storia e la
storia della sua famiglia hanno avuto rilievo nella storia del Livornese e dello
Spezzino. Non è pensabile Bonassola senza Stefano, le due cose restano per me
legate. Gli inizi della mia conoscenza di lui si perdono in una lontananza
senza tempo. Forse di vista lo conoscevo fin dai miei primi soggiorni a
Bonassola. I ricordi più netti risalgono tuttavia gli anni dell’amicizia di mia
moglie, e di riflesso mia, con la madre Anna. La famiglia materna aveva radici
anche bonassolesi: Merani non a caso era il cognome della mamma. Di queste
radici testimonia l’appartamento di famiglia, posto nel vicolo in salita
prospiciente piazza Bertamino. Ma con Bonassola ebbe a che vedere anche la
famiglia del padre, Silvano Filippelli. Non solo per la sua scontata
frequentazione del luogo; ma anche perché il nonno paterno, Cafiero Filippelli,
pittore, fu presente a Bonassola: a testimonianza ne restano quanto meno i suoi
piccoli affreschi, che si conservano tuttora nell’appartamento di famiglia. Non
a caso una certa venatura “artistico-estetica” apparteneva al carattere versatile
di Stefano. Penso alla sua sensibilità per la natura e per i paesaggi urbani;
in ambito artistico era preponderante per lui la curiosità verso il mondo
letterario: leggeva molto, e autori di notevole spessore culturale; non gli era
estranea la filosofia. Aveva gusti spiccati anche in campo musicale: ricordo ad
esempio con piacere il suo apprezzamento della Messa da Requiem di
Verdi. La sua personalità era culturalmente vivace, e desiderosa di confronto
sui temi più disparati; non sempre ci trovavamo d’accordo, ma era un piacere
scambiare idee con lui, ne traevo indicazioni e consigli utili.
Stefano Filippelli |
Gli ho fatto omaggio anche di alcuni miei scritti, li ha accolti con attenzione. Predominante era tuttavia in lui la passione politica. Eredità familiare anche questa: il padre fu attivo nel PCI, e divenne Presidente della Provincia di Livorno (e dipendente della Provincia in pensione era anche Stefano); nella sua non lunghissima vita (tra il 1919 e il 1977) svolse un’attività plurima: sul piano didattico, culturale, pubblicistico, oltre che civile. Di ascendenza prevalentemente livornese erano entrambi i rami della sua famiglia; a Livorno Stefano è nato, ha studiato, si è formato; all’Università di Pisa, ovviamente, si è laureato: in Lettere. Gli ultimi lustri li ha trascorsi nella bella Lucca - grazie all’incontro con Monica Milianti, lucchese, laureata in Architettura a Firenze. Lì ha abitato con la sua famiglia nella storica via Fillungo, fino alla fine. Sintomo della sua cattiva salute è stata la sua assenza da Bonassola la scorsa estate. Concludo con qualche ricordo più particolare. Se amava molto la lettura e il dialogo, non altrettanto amava la scrittura. A parte le sue lunghe e impegnative e-mail di anni fa, per lo più relative agli albori del “Movimento 5 Stelle”, di suo ricordo solo uno scritto che abbiamo pubblicato sulla nostra rivista “Materiali di Estetica”. Probabilmente ha scritto e pubblicato altro, e altrove, che però non ho avuto modo di leggere. I nostri incontri sono sempre avvenuti a Bonassola, a parte la volta che sono andato a Lucca per presentare un libro - nel giugno del 2007, se ben ricordo.
Bonassola
Il
mattino prima delle nove lo vedevo seduto a un bar per la colazione, mi fermavo
a parlare con lui; aveva con sé “Il Fatto Quotidiano”, che prediligeva, prendevamo
pretesto da qualche articolo. Spesso mi prestava “Il Fatto Quotidiano”,
segnandomi in rosso gli articoli a suo parere più rilevanti; e per me sempre
interessanti. Ci incontravamo spesso, a volta anche di sera, parlando di
accadimenti, persone; l’accento cadeva più che altro sulla politica, locale e
non solo. Non avevo la sua stessa passione politica, ma avevo, e ho tuttora,
interessi politici; e mi riconoscevo in principi che erano analoghi a quelli di
Stefano. Ero tuttavia e sono più “pragmatico”, sono portato a relativizzare
(solo nella confusa situazione in cui viviamo oggi in Italia beninteso) il
ruolo delle scelte politiche nella vita. E tuttavia mi è stato sempre utile
confrontarmi con le sue ragioni: allargavano i miei orizzonti, mi aiutavano a vedere
in una diversa luce le mie prese di posizioni troppo ferme, e forse ingenue.
Non è detto che non fosse preveggente Stefano in alcune convinzioni; altre
(come talune mie) la storia si è incaricata di smentirle. Verso la spiaggetta
infine, è lì che incontravo Stefano (ma questo non negli ultimi tempi, in cui
aveva smesso di pescare): esca, preparazione dell’amo, lancio della canna; sto
a guardare, imparo. Imparo anche la misura, la pazienza della pesca nel fresco
della sera.
BRASILE. CON LE
DONNE CHE CAMBIANO LA STORIA
il pittore William Fantini
accanto a Sandra Bandeira
Intorno opere dedicate ad Anita
accanto a Sandra Bandeira
Intorno opere dedicate ad Anita
A.I.M
Celebra il bicentenario della nascita di Anita
Garibaldi
W. Fantini "Ritratto di Anita"
Scrivere, parlare e raccontare fatti sulla storia
delle donne significa presentare fatti, idee e prospettive pertinenti che ci
fanno riflettere sul mondo contemporaneo e sulla sua interferenza nei tempi e
nelle società. E poiché la storia è dinamica, i valori e i discorsi cambiano,
interpretando molti personaggi femminili che hanno segnato i loro tempi e
ispirato tante altre donne guerriere. Un personaggio che sintetizza tutto
questo, e che ha segnato con audacia il suo nome nella storia in tre paesi del
mondo è Anita Garibaldi che, nel contesto storico culturale, brasiliano o
italiano, è un esempio per molti combattenti che si ispirano alla conoscenza
della sua storia. Nell'anno bicentenario della sua nascita, tanti omaggi
saranno resi per questa illustre catarinense. L'A.I.M.- Associazione per
l'Italia nel Mondo è un'associazione nata per la tutela degli italiani
all'estero, una libera associazione apolitica senza scopo di lucro che ha
l'obiettivo di accrescere e rafforzare i legami fra l'Italia e le comunità
italiane presenti in tutto il mondo. La sede centrale in Italia è presieduta da
Guido Vacca. Ha elaborato il progetto “Bicentenario Nascita di Anita Garibaldi”
che ci immergerà nella storia e nella cultura delle regioni italiane dove è
passata l'eroina dei due mondi, un percorso insolito attraverso la
gastronomia, la degustazione di vini, lo sviluppo economico e la letteratura.
W. Fantini "Garibaldi e Anita" |
Il mese di agosto sarà pieno di celebrazioni nel sud di Santa Catarina, in Brasile. Tante le iniziative che si svolgeranno per celebrare il Bicentenario del Nascimento de Anita Garibaldi. Una vera e propria connessione culturale, una mobilitazione della società civile e istituzionale catarinense. L'esecuzione del progetto avverrà il 28 e 29 agosto 2021 sotto la responsabilità delle donne che con il loro lavoro nelle aree correlate promuovono la loro crescita e trasformazione socio-culturale all'interno della loro città, regione e stato, impattando direttamente sulla società con le loro azioni. Il progetto si svolgerà sia di persona che online. Una delle finalità del progetto è custodire e valorizzare la memoria storica locale e condividere la conoscenza artistica culturale, letteraria e gastronomica delle regioni percorse da Anita, mentre viveva in Italia. Il Comitato Organizzatore crede che la memoria storica di una città non deve andare perduta insieme alle persone che la custodiscono ed è convinto dell'importanza che la memoria storica locale può avere sul rafforzamento di un senso di identità e appartenenza. Donne del futuro e della memoria, del passato e presente che hanno avuto importanza per la storia comune del Brasile e Italia. Per questa ragione, il recupero della memoria locale si inserisce all'interno di un'ampia e ricca programmazione culturale offerte per la prima volta.
Sono
loro: Edla Zim - Scrittrice; Renata dal Bo -Presidente dell'Associazione dei
Giornalisti e Scrittori del Brasile - AJEB - Regionale santa Catarina; Adriana
Zanini - Imprenditrice nell'attività gastronomica. Fabiola Cechinel -Presidente
dell'Associazione Trevisani nel Mondo di Tubarao - AITM, Presidente del
Comitato Dante Alighieri di Tubaron regione -CODATUR, Secreteria Nazionale per
il Brasile dell'Associazione Italiani nel Mondo-AIM, Cavaliera della Repubblica
italiana 2017.
A.I.M - ASSOCIAZIONE PER L'ITALIA NEL MONDO
COVID: EPPUR SI MUORE
Opera di Vinicio Verzieri
Tutti
i giorni - dalle 18 alle 19 - mi dedico (così fan molti) alla lettura (e alla
raccolta) dei dati più significativi. Talvolta sono fasulli, specie nei giorni
che precedono l’attribuzione del colore.
Dal
mese successivo a quello dei balletti sardi con Briatore, i dati sul numero dei
morti e delle terapie intensive si mantengono pessimi. Con poche oscillazioni
che vengono evidenziate dai tre solo quando il loro numero diminuisce. Senza
pudore, pretendono sempre il giallo e lo fanno anche dopo l’apparizione del
“messia”.
Vi
posso assicurare che - nell’ultima settimana - il colore per la Lombardia
avrebbe dovuto essere Rosso Scuro. Il peggioramento è diventato spaventoso
e oggi - in Milano città - il numero dei contagi ha toccato i 900. La provincia
di Brescia ha superato i 1000.
I
contagi giornalieri accertati con i tamponi sono un terzo di quelli effettivi.
La
Sanità Pubblica Lombarda si è dimostrata - con un paio di pari merito - la
peggiore d’Italia. Ma i tre si rifiutano di ammetterlo.
Luigi
Caroli
Opera di Vinicio Verzieri |
TEMPO
Opera di Stefano Bombardieri
“Sotto il peso degli anni, ogni speranza
si incurva”.
Il Sannicolensis
IL PENSIERO DEL GIORNO
I negazionisti fanno il male due volte.
Oltre a negare la realtà negano la speranza
Di tornare a vivere.
Laura Margherita Volante
ARTICOLO 1
Nell’Italia, Repubblicana fondata sul lavoro,
aumentano coloro che non vanno a lavorare:
sono deboli di... Costituzione.
Il Petragallensis
venerdì 26 febbraio 2021
SCRITTURE
di Livia Corona
Salviamo
il corsivo
Tempo
fa nelle scuole elementari gli insegnanti cominciarono ad abolire la scrittura
in corsivo e esigere lo stampatello. Si pensava così di facilitare il movimento
della mano del bambino e la lettura da parte dell’insegnante. Dopo alcuni anni
neuropsicologi e insegnanti hanno rilevato un ritardo nell’apprendimento
scolastico. Cominciò in America la raccomandazione di ritornare ad usare il
corsivo per diverse motivazioni.
Secondo alcuni studiosi, come ad es. Federico
Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ritengono che la perdita del corsivo potrebbe essere alla
base di molti disturbi dell’apprendimento. “Scrivere in
corsivo vuol dire tradurre il pensiero in parole, scrivere in
stampatello vuol dire invece sezionarlo in lettere, spezzettarlo, negare il
tempo e il respiro della frase. Il corsivo così come lega le lettere, lega
i pensieri.
Ad ogni tipo di scrittura (stampatello e
corsivo) sono associati schemi cerebrali differenti e diversi stati emotivi. In
particolare la scrittura in corsivo attiva le reti della lettura e della
scrittura. Scrivere in corsivo obbliga a non staccare la mano dal foglio, come
avviene per lo stampatello. Uno sforzo che stimola il pensiero logico-lineare,
quello che permette di associare le idee in modo lineare. Secondo alcuni studi
delle neuroscienze, la mancanza dell’uso del corsivo può avere effetti negativi
sullo sviluppo del cervello.
La corteccia cerebrale riveste un ruolo
cardine nel controllo delle più importanti capacità cognitive (memoria,
apprendimento, calcolo, ecc.) e nella gestione delle funzioni sensoriali e dei
movimenti volontari. In pratica, è il principale centro di elaborazione e
integrazione delle informazioni nervose del sistema nervoso centrale.
Wilder Penfield, il neurologo canadese, nel
1937 per primo notò l’ampia zona dei neuroni nella corteccia cerebrale dedicate
allo sviluppo e al controllo delle funzioni motorie e sensoriali della mano.
Sempre
più la tecnologia sta sostituendo la manualità, la scrittura a mano e in particolare l’uso del corsivo
rappresentano un prezioso patrimonio da conservare. Attualmente la
scrittura digitale sta sostituendo quella manuale, ma dovrebbero essere due forme
di comunicazione complementari e non alternative. L’uso dei computer si è
rivelato molto importante durante questo duro e lungo periodo di pandemia, ma
la tecnologia deve essere al servizio dell’uomo e non viceversa. L’uso del
corsivo e in genere la scrittura a mano rappresentano un prezioso patrimonio
per lo sviluppo armonioso del sistema nervoso centrale. Abbandonata la manualità del gesto grafico, l’emotività viene
espressa solamente premendo un tasto: emoticon, emoji (faccina) o acronimo
(tvb). Emotività compressa, non espressa. Quale sarà la conseguenza per gli
adolescenti?
Grafologi
e psicologi dell’evoluzione infantile raccomandano agli insegnanti e/o genitori
di far scrivere i ragazzi anche in corsivo, per stimolare le aree del cervello
connesse a pensiero, linguaggio e memoria.
Per
i più bravi, provare (anche gli adulti) a scrivere con la mano destra e dopo
con la mano sinistra. Tentare anche di scrivere dalla destra alla sinistra (a
specchio). Così scriveva, a volte, Leonardo, che usava tale metodo perché
mancino ma non solo per quel motivo. È una ginnastica psicofisica non costosa,
utile e perfino divertente.
Usiamo
il computer, usiamo il cervello, muoviamo le mani, salviamo il corsivo.
Libri
SCORRIBANDE…
di
Angelo Gaccione
La copertina del libro
Si tratta di un volumone di 554
pagine in formato 30 per 21 e quasi tutto a colori perché sono una marea le
foto, le locandine, gli spartiti, i manifesti che raccoglie. Ci sono, naturalmente, anche foto in bianco e
nero e tanti, tantissimi elenchi. Soprattutto un robusto censimento dei
componenti delle varie orchestrine che si sono susseguite nel tempo nella città
di Acri e di cui l’autore di questo libro, Michele Reale è stato sin dalla sua
prima giovinezza attivissimo protagonista, e in molti casi fondatore. Lo stesso
discorso vale per le varie bande musicali con cui ha suonato (adoperando
strumenti fra i più diversi) e che poi ha tenuto in piedi come direttore.
L’appassionato, e diciamo anche il nostalgico, potrà percorrere un amarcord che
si dispiega lungo un robusto arco temporale che va dal 1960 al 2019, quasi un
sessantennio. Da questo (ed altri volumi), si evince come la passione per le
sette note è sempre stata molto diffusa in Acri, sia a livello di pura passione
e sia come pratica professionale. Purtroppo nelle scuole è arrivato tardi
questo tipo di insegnamento: una cosa effimera e astrattamente teorica (non una
storia della musica, magari!), e neppure il maneggio almeno di un semplice
piffero di canna, uno zufolo… Niente di niente ai miei tempi. Un modesto
direttore di banda che a dei ragazzini privi di tutto e molto poveri, insegnava
i quattro tempi, due in battere e due in levare, usando i palmi delle mani. Il
ministero dell’Istruzione, non si è mai preoccupato che ci fosse nelle scuole
un docente vero, strumenti da maneggiare per poterli imparare, aiuti alle
nostre famiglie. Questo valeva ai miei tempi e soprattutto nel Sud. Ma rimasi
molto sorpreso, moltissimi anni dopo, incontrando a Milano una docente di
musica romena: si era trasferita in Italia credendola la patria della musica e
ne rimase delusa. Da loro in Romania, così mi disse, avevano una scuola di
musica in ogni quartiere. Ma torniamo al libro. Il lavoro di Michele Reale è
meritorio per varie ragioni: la prima perché ha custodito e ricercato (quanti
giovani acresi lo fanno? Lui giovane anagraficamente non lo è più, ma è più
giovane e vitale di tanti giovanissimi cadaveri che di passioni non ne hanno
neppure mezza); la seconda è perché ci mostra con le prove tangibili di aver
fatto suonare e appassionare, con in mezzi a disposizione che aveva, centinaia
e centinaia di ragazzi e di persone mature, di Acri e dintorni. E siccome non
c’è nulla al mondo che renda più gioiosi della musica, ha contribuito non poco
anche alla loro felicità. La terza ragione è di aver fatto rivivere i volti (ma
anche eventi: matrimoni, feste religiose, ecc.) di moltissime persone che non
ci sono più. Alcuni di questi volti me li sono ricordati, di altri ero stato
amico, tanti sono altrove. Alcuni riconosceranno i loro nonni, ma anche i loro
giovani figli. Gruppi e bande musicali che da Acri sono andati in una infinità
di comuni, contrade, città, e non soltanto della Calabria. Ma verificherete
tutto direttamente dalle pagine del libro, se vi capiterà fra le mani.
Michele
Reale
Il
mio mondo musicale
Dall’orecchio
alla dodecafonia
Ed.
Amaca 2020
Pagg.
554 s.i.p.
La copertina del libro |
giovedì 25 febbraio 2021
LA PERCEZIONE DELL’APPARIRE
di
Franco Astengo
In
un suo articolo misurato al riguardo del rapporto tra proprietà intellettuale e
diffusione del messaggio (”Il Manifesto” 24 febbraio) Vincenzo Vita pone un
interrogativo cruciale che riporto per intero: “Gli over the top (da
Amazon a Google, a Facebook, a Microsoft, a Twitter) sono i legittimi
intestatari di ciò che diffondono ovvero ne sono semplici veicolatori?”.
E
prosegue: “Non si può uscire dalla contraddizione con un puro esercizio
mediatorio. La questione ha una valenza generale. Aut aut non et.et”.
Così
si sta toccando il cuore del problema: dalla società dello spettacolo allo
spettacolo della società (e della politica).
È
questo il terreno del mutamento nel rapporto tra struttura e sovrastruttura,
nell’allargamento dei cleavages che determinano la teoria delle
fratture.
Non
basta più la contraddizione principale ma anche quelle che pensiamo “nuove” e
che abbiamo inserito nella categoria della strutturalità debbono essere
considerate oggetto di questa “strategia dell’illusione”.
Quelle
che appaiono oggi le questioni principali emergenti compresa quella sanitaria
globale (senza pensare, ad esempio, alle caratteristiche assunte nel tempo dal
tema ambientale, dell’energia e delle materie prime che servono alla
tecnologia) sono ormai tutte racchiuse nell’interrogativo di fondo che riguarda
come, da chi, perché e quando sono veicolate le notizie che le riguardano: o
meglio “il loro sembrare”.
La
condizione materiale di vita di miliardi di persone si collega direttamente con
l’influsso che si è capaci di esercitare sulla “percezione dell’apparire”.
Un
influsso sull’apparire che ormai si esprime nella molteplicità vorticosa del
messaggio e rappresenta così il punto di arrivo e quello di partenza dell’agire
dialettico. Un influsso che si ottiene mescolando fonte e trasporto della
comunicazione. È questo il punto che allora rappresenta il vero elemento da
affrontare nella realtà delle contraddizioni operanti. L’influsso che si
esercita sulla “percezione dell’apparire” è ormai elemento strutturale
dell’agire culturale e politico, inimmaginabile ai tempi della vecchia “stampa
e propaganda” anche nei più raffinati regimi totalitari.
Si
tratta di provare a riflettere davvero in questa dimensione non soltanto sul
piano teorico considerandolo l’elemento determinante dell’agire politico: una
riflessione che rimane ancora tutta da elaborare, ma che non può che partire da
una riaffermazione necessaria del valore dell’esercizio continuo dello “spirito
critico” soprattutto rivolto verso il mutamento nelle forme della democrazia.
CALABRIA E CLASSI DIRIGENTIdi Vincenzo
Rizzuto
Non è solo il Covid che ci angustia Ma
come si fa a non essere turbati, arrabbiati, ‘incazzati’ e sfiduciati non solo
per tutto quello che sta succedendo in Italia e nel mondo a causa della
pandemia, ma anche per quello che sta capitando ormai da decenni in Calabria,
una regione che sembra davvero maledettamente lasciata alla deriva, ignorata da
tutti i Governi, condannata ad essere rappresentata da una classe politica
imbelle, dormiente e, nella maggior parte, fortemente compromessa, con ambienti
spesso in ‘odore di santità’, come dimostrano le continue indagini
giudiziarie, che si protraggono per decenni, senza soluzione di continuità,
attraverso estenuanti andirivieni di richieste di condanna e di assoluzioni nei
vari gangli della pubblica amministrazione e del privato. E uno dei settori più
piagati dalla corruzione e dal malaffare è proprio la sanità, che in Calabria
ormai è stata ridotta ad un colabrodo, ad un coacervo di interessi mille miglia
lontani dal bene pubblico, dai bisogni della gente, che è lasciata spesso nella
disperazione della solitudine e dell’abbandono.La nostra
sfortunata Calabria è poi caratterizzata da una fuga generalizzata delle
giovani generazioni, una diaspora che la priva di qualsiasi speranza di
rinnovamento e la condanna ad un coma irreversibile; in essa ormai, pur con la
presenza di tre sedi universitarie, a Reggio, Catanzaro e Cosenza, nelle quali
operano centinaia di studiosi e dalle quali escono altre centinaia di laureati,
sembra quasi impossibile trovare energie e competenze in grado di impegnarsi
nella gestione di una politica diversa, sana, propositiva di un nuovo corso;
prova ne è che, ogni volta, per eleggere presidenti regionali, manager dei vari
enti e ‘super commissari’, si ricorre a ‘forestieri’, a personaggi provenienti
da fuori, salvo poi a decretarne, dopo qualche tempo, la inadeguatezza o
addirittura la condanna con la interdizione dai pubblici uffici, come
puntualmente è avvenuto in questi giorni per alcuni di essi.Il fatto è
che la vera colpa di quanto ci accade da ormai troppo tempo in buona parte è
nostra, siamo noi che recandoci alle urne mandiamo a rappresentarci, dalle
realtà locali al Parlamento nazionale, pochi uomini e molti ‘ominicchi e
quaquaraquà’. E finché avverrà tutto questo, la nostra amata terra di Calabria
sarà sempre derelitta. Per oltre
quarant’anni sono stato insieme ai giovani fra i banchi di scuola come docente
ed ho sperato che da loro sarebbe venuta fuori una nuova realtà, ma non è
avvenuto così, sono stato deluso e, dolorosamente, mi chiedo dove si è
sbagliato anche da parte nostra.
Il fatto è
che la vera colpa di quanto ci accade da ormai troppo tempo in buona parte è
nostra, siamo noi che recandoci alle urne mandiamo a rappresentarci, dalle
realtà locali al Parlamento nazionale, pochi uomini e molti ‘ominicchi e
quaquaraquà’. E finché avverrà tutto questo, la nostra amata terra di Calabria
sarà sempre derelitta.
mercoledì 24 febbraio 2021
IN RICORDO DI UN POETA
di
Angelo Gaccione e Don Burness
Lawrence Ferlinghetti
Milano. Se
n’è andato ieri alla veneranda e giovanissima età di 101 anni. Dico
giovanissima perché i veri poeti restano sempre giovani, come il loro cuore,
come la loro indistruttibile parola, come le loro idee se sono profonde e non
conformiste. Il “romantico contestatore”, il pacifista, l’anarchico fedele ai
suoi principi libertari ed alla letteratura, ha terminato la sua vicenda
terrena. Lawrence Ferlinghetti è morto nella sua casa a San Francisco, dove da
tantissimi anni ha animato la sua mitica libreria, la City Lights Bookstore,
punto di riferimento di generazioni di poeti, di oppositori, di giovani alla ricerca
di un ideale di società tollerante, pacifica, solidale. Una libreria impregnata
di versi e di idee, di confronto e di stupore. Qui in Italia, dove Ferlinghetti
veniva spesso, le televisioni se la sono cavata con una miserabile e asettica
notizia in coda ai telegiornali. Non hanno sprecato una sola parola. Non ci
scandalizziamo più di tanto: ci sono vite che fanno paura, mostrano agli
apparati di potere e ad ampi pezzi di società la loro cattiva coscienza.
***
Lawrence Ferlinghetti |
Ferlinghetti. Un ricordo di Don Burness
Ferlinghetti davanti alla sua libreria
Usa.
La morte del poeta editore pittore Lawrence Ferlinghetti questa settimana segna
la fine di una delle voci più significative d’America. Ferlinghetti (suo padre
era bresciano) con la sprezzatura a metà del XX secolo ha portato la poesia al
centro della scena della vita americana pur sapendo che il materialismo
americano come dio, uccide il necessario senso di meraviglia e lirismo senza il
quale la vita è piuttosto noiosa. Era il “Trombettista dei beatniks” che
pubblicava “Urlo” di Ginsberg sconvolgendo gli sbandieratori puritani. È
nato a Bronxville, New York, dove è sepolto Melville. Leggeva tantissimo. Lesse
in gioventù come tutti noi che abbiamo molta fantasia i quattro romanzi di
Thomas Wolfe del North Carolina e seguì Wolfe in Francia. Anch’io ho letto
Wolfe e anch’io sono venuto a studiare in Europa. Era l’era del fare l’amore,
non la guerra, l’era della protesta contro la guerra del Vietnam. Abbiamo letto
tutti “A Coney Island of the Mind” di Ferlinghetti (questo prima che la
televisione e gli idioti dei media viziassero la cultura). Ricordo di essere
stato nel 1959 una matricola all’Università del Michigan e in inglese da
matricola, quasi tutti gli studenti avevano letto Ginsberg, Wolfe, Ferlinghetti
e James Baldwin. Ferlinghetti l’acrobata verbale ci ha intrattenuto e ci ha
insegnato che la vita è amore, la vita è sesso, la vita è impegno per la
giustizia sociale, la vita è buon vino. Mia moglie Mary-Lou ed io siamo figli
della Beat Generation e la vitalità di quell’età è stata resa manifesta da
Lawrence Ferlinghetti, che con lo slancio di Dario Fo ha dimostrato che la
letteratura non era un mero esercizio accademico sterile.
FRANCO LOI
POETA GRANDE E UMILE
Franco Loi e Federico Migliorati
nella casa del poeta a Milano
Era impossibile non
voler bene a Franco Loi, il grande poeta milanese seppur di origini genovesi
scomparso al principiar del nuovo anno. Uomo raffinatissimo, dalla cultura
enciclopedica eppure sempre umile, una virtù rara al giorno d’oggi in cui l’io
ipertrofico e l’altezzosità abbonda nel mondo intellettuale. No, Loi sapeva
aprire la sua mente e il suo cuore a tutti parlando della sua passione-lavoro,
certo, quella poesia che lo accompagnò per larga parte del Novecento facendone
uno dei maggiori e certamente degli ultimi autori in versi del nostro tempo. Mi
accolse in una fredda giornata di metà autunno, nel 2013: dal suo appartamento
di viale Misurata il traffico era continuo, senza sosta, anche sotto la pioggia
battente che picchiava sui vetri. Con l’amico editore Vittorio Zanetto, con cui
sarebbe poi uscita l’intervista nel librino Conversazione con Franco Loi
(Fondazione Zanetto) con la prefazione di Carla Boroni, l’accordo era chiaro:
avremmo dovuto lasciarlo parlare a getto, senza interromperlo, ché troppo
importante sarebbe stato il suo dire e ininfluente il nostro. E invece tutto
finì rivoluzionato perché Loi, da grande umile come si diceva, volle sapere, si
interessò alle nostre vite, ci chiese del generale e del particolare, si
appassionò insomma a noi, come fossimo stati i veri protagonisti di quelle ore.
Ecco perché raccogliere le sue testimonianze sul mondo della poesia fu
semplice: non eravamo di fronte a un cattedratico inarrivabile e spocchioso che
si trincerava dietro a social media manager o addetti stampa, ma ad un acuto
osservatore della realtà che si prestava con generosità ad accogliere la nostra
decisione, senza riserbo o resistenze. La sua lunga vita dispiegata tra i
versi, in meneghino soprattutto, ci venne disegnata con acribia non lesinando i
momenti più difficili, le scelte più ardue da compiere, gli ostacoli da
superare nel corso di una vita densa, intensa e lunga: tutto in Loi dava la
misura della compostezza pur essendo stato, in gioventù, uomo capace di
prendere posizioni scomode per un intellettuale. Prima di andarcene volle farmi
dono di alcuni librini di versi, che spesso dispensava agli amici più cari,
preziosi cammei che custodisco gelosamente, purtroppo senza più poter contraccambiare.
Franco Loi era un uomo perbene a cui l’Italia deve molto. Nell’intervista che
segue si è cercato di ricostruire uno spaccato di storia personale che si è
intersecata con quelle dei massimi esponenti del mondo culturale del tempo e
che fornisce qualche cifra del percorso professionale del poeta milanese.
nella casa del poeta a Milano
Franco Loi con Gaetano Capuano
Parlare con lei è un
privilegio non foss’altro perché rappresenta uno degli ultimi grandi poeti
viventi del nostro tempo. Non posso esimermi, dunque, dal chiederle innanzitutto
quale sia oggi la
popolarità della poesia,
e quindi come si raffigura il futuro di questo genere letterario, che non gode
certo di grande fortuna in tempi odierni.
Domanda semplice, ma a cui non è facile rispondere
con poche parole. Il potere di ogni epoca e di ogni tipo di regime non ha mai
sopportato né la poesia né la filosofia. Il motivo è chiaro: la parola dice
sempre qualcosa che non può essere tollerato dall’ideologia dominante. Persino
Carlo Marx fu lungimirante tanto da arrivare a sostenere che “un politico
dovrebbe ascoltare gli artisti ed i poeti perché sono come il termometro del
tempo… certo, il politico poi sarà costretto a mediare, ma avrà sempre presente
la situazione reale del Paese”. Non è un caso che musica e pittura siano state
invece meno perseguitate dai regimi di ogni epoca. Essendo materie espressive i
cui canoni di comprensione sono invece noti a pochi, esse meno “traducibili” e
leggibili e, pertanto, più tollerate. Del resto chi capisce la musica nei suoi
valori espressivi? E chi può dire cosa esprima un volto o un paesaggio
attraverso i colori o un disegno?
Importante per un potere è sempre tenere
nell’ignoranza il popolo. Prova ne sia l’incultura e lo smercio di luoghi
comuni delle televisioni, diventate oggi il vero strumento di diseducazione e
coercizione di massa. Non bisogna però credere che coloro che scrivono poesie
oggi siano pochi. Le posso assicurare che sono invece moltissimi. Soltanto che
non hanno il privilegio di poter essere diffusi e conosciuti come oggetti di
pubblicità. Certo, non tutti sono veri poeti e veri filosofi. Molti si mettono
a scrivere imitando altri poeti o cercando di riprodurre ciò che si insegna
nelle scuole, ancora ad imitazione degli scrittori del passato. Ma sempre nella storia i veri poeti sono
pochi: Pindaro, Omero, Lucrezio, Orazio, Virgilio, Dante, Leopardi, D’Annunzio,
Pascoli, Teofilo Folengo, Ariosto, Tasso, Carlo Porta, Gioacchino Belli, Delio Tessa;
per non parlare del Qoelet e tutti i versi della Bibbia.
In quanto al futuro, basta conoscere il passato
per capire che la popolarità o meno della poesia varia nella storia appunto
come mutano i poteri politici e le persone che li detengono. Dante, condannato
all’esilio e poi al rogo nel 1300, soltanto alla fine del Settecento è tornato
ad essere letto ed apprezzata; per non parlare di Teofilo Folengo e di suo
fratello, imprigionati e accusati di eresia; e tutti sanno che Leopardi durante
tutto l’Ottocento è stato considerato un pessimo poeta ed un mediocre filologo.
A proposito di filosofi, tutti conosciamo la sorte di Socrate e le condanne di
Giordano Bruno, di Tommaso Campanella e di Bernardino Telesio. Dunque possiamo
dire che la sorte della poesia è come la sorte dell’uomo: varierà a seconda dei
regimi e della partecipazione di un popolo alle sorti della cultura.
Franco Loi con la moglie
Come è nata in Lei la
passione per la poesia, in particolare per la lingua milanese che connota gran
parte della sua produzione letteraria?
Fin da bambino ho cercato di scrivere teatro.
Leggevo i romanzi per bambini, e poi per ragazzi e costruivo sceneggiature. Mi
capitava, per esempio, sotto gli occhi I
tre moschettieri di Dumas? Bene, ne riassumevo le vicende in modo semplice;
le ragazze facevano i costumi di carta e poi recitavamo nei cortili con tutta
la gente che ci guardava dalle finestre.
Poi ho cominciato a scrivere racconti e a leggere
romanzi: Guerra e Pace di Tolstoj, Martin Eden e Il tallone di ferro di Jack London, i romanzi di Verne, Moby Dick di Melville. Ho scritto anche
un romanzo: Dal diario di una medaglia
d’oro sulla vita di mio padre e sul lavoro in ferrovia. Poi nacque in me
l’esigenza di tenere dei diari e proprio in riferimento a questi ultimi, recentemente,
uno studente dell’Università di Vercelli, Alberto Sisti, ha preparato un libro
voluminoso di circa 500 pagine per il suo dottorato.
Le mie prime poesie le ho scritte in italiano nei
primi anni ’60. Ma, mentre le scrivevo, mi sono reso conto che non facevo che
imitare i poeti che mi avevano insegnato a scuola: Leopardi, Pascoli, Petrarca,
Foscolo. Così scrivevo e subito dopo stracciavo. È vero che in casa mia si
parlava italiano e a scuola avevo imparato la lingua nazionale, ma era anche
vero che ero sempre vissuto in ambienti popolari, che avevo attraverso un fatto
tragico come la guerra e tutte le vicende dell’immigrazione a Milano e le prime
esperienze di lavoro tra gente che parlava il milanese – persino i meridionali
allora cercavano d’imparare la lingua che permetteva loro d’inserirsi meglio e
più rapidamente nella società. Del resto, anche mio padre, nato a Cagliari,
aveva imparato rapidamente il genovese con gli amici e i compagni di lavoro.
Aggiunga poi la mia passione socialista ed i miei ideali populisti: per me era
quasi ovvio parlare della città di Milano, delle mie esperienze e della gente
che avevo conosciuto nella lingua con cui avevo vissuto quelle vicende.
Ci fu poi un altro avvenimento che mi portò dritto
in braccio al dialetto meneghino. Era l’estate del ’65 e mi capitò tra le mani I sonetti del Belli: fu per me come un
colpo di fulmine. La lingua romanesca, fino ad allora a me sconosciuta, mi
sembrò analoga a quella milanese in quanto a ricchezza ed espressività. Era del
resto capitata la stessa cosa al Belli che, venuto a Milano dopo la morte del
Porta, aveva sentito recitare le sue poesie in casa di amici, e tornato a Roma
decise di scrivere, lui arcade, nella lingua romanesca. Devo però aggiungere
che non ho scritto soltanto in milanese. Ho usato il genovese di mio padre e
quel che avevo memorizzato nella prima infanzia per le esperienze della città
di Genova, e la lingua colornese di mia madre per i periodi passati nella casa
di mia nonna e dei miei zii. La mia è stata un’adesione ai luoghi ed alla gente
della mia vita. Voglio dire che, per il milanese, non si è trattato nemmeno di
una scelta, ma, come ha scritto Franco Brevini, “non è Loi che ha scelto il
milanese, ma è il milanese che ha scelto Loi”.
Lei accompagna sempre i
suoi libri con delle traduzioni in italiano, però non vuole chiamarle così. Ci
spiega perché?
Anche qui lei tocca un punto dolens,
perché, purtroppo, ogni poesia nasce orale e persino la stampa è già una
traduzione, giacché non si possono sentire le sensazioni e le emozioni della
voce del poeta. Le faccio un semplice esempio: ci sono parole che dette in un
certo modo possono voler dire una cosa e con un’altra tonalità hanno un
significato esattamente contrario. Nell’800, un critico francese scrisse che
“tradurre è tradire”, Franco Fortini lo ripeteva sempre. Io preferisco parlare
di “didascalia”, proprio come per le fotografie o per i quadri. Soprattutto in
Italia è necessario che chi ascolta si renda conto che ciò che sta leggendo non
è la poesia, perché noi abbiamo imparato una lingua inventata attraverso i
significati e quindi prestiamo ascolto soprattutto a questi ultimi. Spesso,
quando vado all’estero – in Irlanda o in Olanda o in Spagna – leggo
direttamente in milanese e la gente ascolta la musica e l’emozione del dire. In
Italia sono invece costretto a leggere prima le traduzioni o didascalie.
All’isola di Tinos due o tre anni fa, ho letto mie poesie in una piazza e la
gente greca seduta ai tavoli del caffè o attorno al platano al centro della
piazza si è entusiasmata al solo ascolto del milanese. E sa perché? Semplice:
in Grecia la lingua nazionale è di estrazione popolare e non rappresenta,
invece, un idioma artificiale che si è imposto nelle scuole. Quando ero
studente ogni parola dialettale veniva considerata un errore, senza rendersi
conto che i dialetti sono la fonte primaria di ogni lingua nazionale. Ha
scritto Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia: “Diciamo che parlar
vulgare s’intende quello nel quale son fatti esperti i fanciulli da’ lor
circostanti, quando incominciano da prima a distinguere i suoni; v’è bensì un
altro parlare che i Romani disser grammatica (si riferisce al latino) di
questi due parlari è dunque più nobile il vulgare, come quello che prima fu
usato dal genere umano”.
È in Mondadori che lei è
venuto in contatto con alcuni dei più famosi protagonisti del mondo letterario,
a partire da un tal Vittorio Sereni, l’ideatore, assieme a Giansiro Ferrata
(che ne fu il primo direttore), dei Meridiani, la più importante e prestigiosa
collana letteraria italiana, con il quale ha intessuto un rapporto proficuo e
duraturo interrotto solo nel 1983 alla morte di questi. Ce ne vuole parlare?
Beh, ero all’Ufficio stampa, quindi moltissimi
sono stati gli incontri con autori italiani e stranieri. Non so se è il caso di
farne l’elenco, ma posso citarne qualcuno: Hemingway, Jack Kerouac, Ungaretti,
tanto per fare qualche nome.
Con Vittorio Sereni il mio primo incontro avvenne
al Centre d’etude français, ma fu ancora lui, direttore letterario della
Mondadori, a sostenere il mio colloquio per l’assunzione. A lui devo molto: le
prime pubblicazione di poesie, la successiva collaborazione esterna con
Mondadori e, soprattutto, il grande rapporto di amicizia e di stima che è
sempre rimasto fino alla fine. Ne ho parlato in parecchie interviste.
Un altro protagonista indiscusso delle lettere fu Franco
Fortini che ho conosciuto perché fu lui a chiedere a Einaudi di scrivere la
prefazione a Strolegh. Fortini era
uomo di grande cultura e con lui ho avuto un rapporto non sempre facile ma
molto intenso da un punto di vista culturale.
Vittorini l’avevo già conosciuto per altre
ragioni, di cui ho parlato nella mia biografia: Da bambino in cielo. Mi sia consentito un breve ricordo personale
di Giancarlo Vigorelli, perché anche a lui devo molto: m’invitò a collaborare
alla sua Rivista Europea, mi propose perfino di dirigerla quando persi il
lavoro con la Mondadori nell’83 ed io rifiutai, mi fece conoscere Mino
Martinazzoli, allora ministro dell’Interno quando fui arrestato a Venezia per
ragioni politiche.
Il funerale del poeta
Che cos’è, dunque, per
lei la poesia?
Ne ho scritto tante volte, ma è sempre bene
ripeterlo: la mia esperienza della poesia coincide con ciò che è stato detto da
Dante nel Purgatorio in risposta a Bonagiunta Orbicciani: “I’ mi son un che
quando amor mi spira, noto e a quel modo ch’ei ditta dentro vo significando”,
che va chiarito così: “Io sono uno a me stesso e quando sono mosso da amore,
cioè da emozione, ascolto e prendo nota, e a quel modo che il mio inconscio
detta dentro io vado esprimendo con segni di lingua e di cultura. Concetto che è
stato espresso da ogni grande poeta, a cominciare da Pindaro e da Petrarca per
finire con Pascoli, quando parla del “fanciullino”. Persino un filosofo,
Benedetto Croce, ha scritto: “Nel filosofo accade il medesimo che nel poeta… non
è lui che filosofa, ma Dio o la natura… Anzi, dirò di più, è la cosa che pensa
sé stessa in lui”. E la mia esperienza mi ha confermato la stessa cosa: è nella
profondità e vastità di conoscenze dell’inconscio che si manifesta la poesia, e
si manifesta come ritmo e suono. Si può dire che la poesia sia come un sogno:
si esterna qualcosa che non è comprensibile all’ego cosciente: infatti
l’esperienza personale ne esce in modo completamente diverso da come la nostra
mente l’ha memorizzata. Quindi la poesia è l’espressione più profonda e reale
della nostra esperienza vivente.
Certo che occorre cultura e sapienza. Ma come sostengo
da tempo sia la tecnica che la consapevolezza ci rendono liberi di ascoltare il
nostro inconscio senza esserne travolti. Senza la conoscenza di sé stessi c’è il
pericolo di essere travolti.
La poesia è libertà e rivelazione. Ha scritto
Petrarca: “La poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura”. Quella
sacra scrittura che anche Loi ha reso tale offrendoci un esempio di cultore e
creatore di una parola alta e preziosa.
[Conversazione raccolta da Federico Migliorati]