Il
congresso di Sinistra Italiana, svoltosi in questi giorni in modalità online,
può forse essere riassunto con due parole: quella dell’incertezza, termine
usato dal segretario Fratoianni nelle sue conclusioni e quello della
provvisorietà evocato da Luciana Castellina (Luciana ha usato “provvisorietà”
ricordando il Pdup, ma aggiungendo opportunamente che in quel tempo c’era il
PCI). Tra incertezza e provvisorietà corre una diversità di significato. Una
diversità da ricordare non casualmente: incertezza significa che l’orizzonte
non appare e che, se di transizione si tratta, ci si trova ancora al centro del
tunnel (considerato che si sia stati capaci di riconoscere di trovarsi in un
tunnel); provvisorietà dovrebbe voler dire che la transizione ha davanti a sé
una meta. In particolare in politica se si è provvisori è perché si dispone di
un progetto sufficientemente compiuto e la questione da affrontare risiede
nell’individuare le tappe da percorrere per raggiungerlo: nell'incertezza
questo non avviene. Fin qui, beninteso, siamo all’abc: si tratta però di
inoltrarci in un difficile cammino di interpretazione e di proposta. Nelle
scorse settimane abbiamo assistito a un grande dibattito e a una serie imponente
di iniziative editoriali al riguardo del centenario del congresso di Livorno e
della fondazione del PCI. Uno
sviluppo di attività memorialistica e di analisi forse inaspettata dal cui
esito si possono trarre alcune indicazioni: il PCI non ha avuto eredi eppure,
nonostante tutti gli stravolgimenti accaduti nel corso degli ultimi trent’anni
sul piano delle relazioni internazionali, della tecnologia, dell’organizzazione
sociale, l’ombra di quel partito rimane quasi come il fantasma di Banquo sulla
scena della sinistra, non soltanto in Italia. È
curioso, infatti, che l’insieme della pubblicistica e della riflessione
politica, dopo aver appunto dedicato tanto impegno e tanto spazio ad un
avvenimento accaduto 100 anni fa si sia soffermata molto meno nell’analisi e
nella riflessione sulla fase di scioglimento del Partito, verificatasi proprio
oggi 30 anni fa. È mancata fin qui l’esplorazione delle cause e degli esiti di
quel fondamentale fatto politico riguardante la chiusura del PCI e rimane quasi
assente l’analisi di ciò che è rimasto di vivo nelle diverse tradizioni della
sinistra italiana. Soltanto in pochi ormai continuano a coltivare un’idea di
superamento delle divisioni di allora e proseguite nel tempo con la ricerca di
recuperare una capacità di nuova proposizione politica. Pare
proprio non ci siano eredi per entrambi i filoni che uscirono dal congresso di
Livorno e che l’esaurimento delle loro forme storiche di rappresentazione
politica avvenuto all’inizio degli anni’90 interessi davvero molto poco. Eppure
l’analisi di quelle cause (e gli effetti che hanno prodotto) potrebbe tornare
fattore fondamentale per uscire dall’incertezza e avviarsi, almeno, sul
sentiero della provvisorietà nella ricerca di quel nuovo soggetto politico:
ricerca che, in questo momento, sembra assomigliare sempre di più a quella del
Santo Graal. Francamente
non credo che si possa uscire dall’incertezza senza compiere una scelta di
fondo sul piano teorico in modo da riconoscere davvero la complessità delle
contraddizioni in atto, evitando di limitarci ad una visione che alla fine
rischia di assumere tratti quasi corporativi. Una
complessità delle contraddizioni che ormai rende da aggiornare il vecchio
schema di Rokkan (1982) ed evoca la necessità di rivisitare anche l'antica
suddivisione tra struttura e sovrastruttura.
Una
complessità delle contraddizioni allargatasi nel periodo più recente per
ragioni evidenti di cambiamento di qualità nel meccanismo della modernità e
della globalizzazione. Occorre però evitare il ritorno alla categoria
dell’esaustività del “nuovo” che all’epoca costituì
il vero e proprio parametro di valutazione per arrivare a determinare le
ragioni dello scioglimento del PCI. Da allora il mondo è sicuramente
cambiato per tanti aspetti, ma non sono assolutamente cambiate alcune delle
dinamiche di fondo che hanno regolato e regolano l’agire economico, politico, e
sociale sulla base di ben precisi “sistemi” di carattere teorico, che abbiamo
chiamato ideologie. Nella
presunta “modernità” la grande capacità nell’espressione di egemonia è stata
appunto, quella, di far passare la propria ideologia come una “non ideologia”
ma come un’inevitabile assunzione di buon senso comune, al grido “le ideologie
sono morte”. È
ciò che è accaduto, a livello planetario, ormai da trent’anni, diciamo dalla
chiusura storica della divisione in blocchi e dall’esclamazione, presa per
buona da molti, di Francis Fukuyama, di “fine della storia”. In
realtà i fenomeni più evidenti hanno la caratteristica del “sempre uguale”,
portandosi appresso una carica ideologica fortissima e del tutto sbilanciata e
al ritorno a un confronto tra estremismi, con la sparizione nelle società
occidentali avanzate della “middle class” e l’affermazione di diversi modelli
di confronto. L’epidemia
globale non ha mutato questo quadro nell’insieme delle coordinate di
riferimento del muoversi complessivo della dinamica planetaria accentuando,
anzi, i termini di scontro e, da questo punto di vista, l’esito delle elezioni
USA avrà probabilmente un impatto relativo.
C’è
stato molto dell’antico nello sbandierato “nuovo”, oltre alla riproduzione
dell’antico “ciclo delle crisi”: finanziarizzazione dell’economia, estensione
della condizione materiale di classe (con la creazione di un “ventre molle”
pauperizzato che, sicuramente nel “caso italiano” preferisce schiacciare chi si
trova di sotto utilizzando la classica leva dell’assistenzialismo, non cercando
di unirsi in un’idea di nuovo “blocco storico”), imbarbarimento nelle
condizioni della produzione e delle qualità della vita se pensiamo
all’emergente tema ambientale, insorgenza sanitaria, sostanziale mantenimento
delle condizioni di “sopraffazione di genere”, impatto violento delle grandi
contraddizioni epocali causate dalle guerre e da un processo di regressivo imbarbarimento
che riguarda ampie zone del mondo causando fenomeni come quelli del terrorismo
globale, dei migranti, dell’instaurarsi di feroci dittature com’è accaduto in
gran parte dei paesi africani, si è riproposto in Europa e sta tornando in
Asia. Insomma:
un arretramento a uso di una riduzione del rapporto tra politica e società, e
quindi del meccanismo di regolazione democratica del consenso e del controllo
sociale. In Italia il punto di saldatura rispetto a questo stato di cose è
stato ricercato nella personalizzazione della politica, che poi è franata nella
ricerca del protagonismo populista alimentato da un utilizzo del sistema dei
media che, in un primo tempo ha ovviamente favorito l’ascesa - sempre per
restare in Italia - di un’estrema destra populista, ma che adesso pare molto
più indefinito nei suoi orientamenti di fondo guardando a un sistema politico
fragile, con soggetti di complicata legittimazione. In
queste condizioni ciò che rimane di sinistra, non può che ritrovare nella
propria storia gli elementi portanti di una ricostruzione di autonomia di
pensiero e di strutturazione organizzativa. La
lettura della storia intesa come fattore decisivo dell’autonomia culturale. Per
quel che riguarda l’Italia per una possibile sinistra emerge, sotto l’aspetto
dell’autonomia culturale e politica, il fatto che non si possa assumere la
questione del governo come questione dirimente arrestandosi ad essa quasi come
punto di finalità “ultima” (come fu fatto al tempo dello “sblocco del sistema
politico”). Il
tema del governo, nell’articolazione estrema del processo di relazione tra il
sociale e il politico, rimane quello di un modesto cabotaggio da “politique
d’abord”. Il punto da ricercare, invece, dovrebbe essere quello del
ritrovare la “provvisorietà” di un progetto di transizione nel corso del cui
itinerario si riesca a delineare un quadro di radicale trasformazione
dell’assetto sociale. Per
cercare di far questo serve una adeguata soggettività politica da costruire
magari studiando al meglio la storia della sinistra nel nostro Paese.