Pagine

mercoledì 31 marzo 2021

RIPENSARE LA CITTÀ
di Maria Carla Baroni

 
Città metropolitana e co-pianificazione dopo la pandemia.
Che fare?
 
Da qualche mese a Milano si ricomincia a parlare della Città Metropolitana Milanese, di come rilanciarla per farla diventare quello che sarebbe indispensabile fosse, mettendo in soffitta il guscio vuoto realizzato a seguito della famigerata legge Del Rio (legge56/2014) e dando corpo alle finalità adeguate a un ente di governo del territorio di area vasta, titolare della pianificazione strategica e della pianificazione territoriale/ambientale. La legge istitutiva prevede come compito principale delle Città Metropolitane, definite enti territoriali di area vasta, la “cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano”, anche se poi di fatto ne impedisce, con le sue prescrizioni, lo svolgimento. Lo statuto della Città Metropolitana Milanese la definisce, all’art. 1, “ente finalizzato alla cura della popolazione e allo sviluppo strategico e sostenibile del territorio metropolitano”. Non si potrebbe scrivere meglio. Ma la realtà dice tutt’altro.
La prima cosa da ottenere è l’elezione a suffragio universale sia del sindaco o sindaca (diverso/a da quello/a del Comune principale), sia del Consiglio metropolitano. Un’elezione di secondo livello ha comportato il disinteresse delle forze politiche, della cittadinanza attiva, dei media nei confronti della Città Metropolitana: evidentemente ciò che si voleva ottenere. Con la configurazione data alle Città Metropolitane dalla legge Del Rio e con il depotenziamento (fin quasi alla sparizione di fatto) delle Province, cui la grande legge 142/1990 aveva attribuito compiti che avrebbero consentito di superare la frammentazione comunale  nell’uso e nella  tutela del suolo, si era voluto dare un colpo mortale proprio alla concezione del territorio come risorsa fondamentale non riproducibile e quindi da utilizzare con grande lungimiranza, a vantaggio delle generazioni attuali e di quelle future.



Si è talora  detto che il territorio è un bene comune, il che nella sostanza è vero, ma l’uso sempre più esteso del concetto di bene “comune” porta a mio parere a svilirlo, a renderlo inefficacie, oltre che lontano dalla realtà:  il suolo, infatti, a differenza dell’aria e delle acque, è soggetto al diritto di proprietà, il terribile diritto di cui aveva scritto Stefano Rodotà nel 1981 e, prima ancora, nel XVIII secolo, Cesare Beccaria.
Preferisco allora considerare il territorio come basamento sia di tutte le forme di vita (anche gli uccelli - per una parte del loro tempo - si posano nei nidi, sugli alberi e sulle rocce), sia di tutte le attività umane, e anche come continuità vivente nonostante il susseguirsi delle singole porzioni  di suolo assoggettate al diritto di proprietà e ai diversi usi che i singoli proprietari ne fanno. In un recente e interessante incontro organizzato da Emilio Battisti e dal gruppo di lavoro “Milano dopo la pandemia”, Giuseppe Longhi ha indicato - come uno dei modi per ottenere una metropoli a bassa entropia - la necessità di definire l’ambito metropolitano in base a spazi biotici e non politico/amministrativi. In teoria questa proposta potrebbe non fare una grinza, ma il territorio della Città Metropolitana Milanese fa parte di un’unica estesa pianura alluvionale, ricca di acque costituenti il bacino del Po e tutte correnti verso il Mar Adriatico, scarsissima di venti, in cui l’aria inquinata dalle attività umane ristagna per lunghi periodi in misura tale da rendere la pianura padana una delle aree più inquinate dell’intero pianeta.
In base al criterio di Longhi dovremmo considerare - in base a spazi biotici sostanzialmente omogenei - un’unica metropoli, a questo punto non più milanese ma padana. Dovremmo quindi ipotizzare come ente di governo del territorio un’unica istituzione politica padana di area quasi sconfinatamente vasta?



A parte l’assonanza con una proposta antistorica e secessionista di qualche decennio fa, una istituzione di tali dimensioni sarebbe concretamente ingovernabile, a partire proprio dal punto di vista territoriale e ambientale per la salute umana e per il mantenimento della vita sul pianeta. Già vari decenni fa Giovanni Astengo considerava anche la dimensione regionale incompatibile, in quanto troppo ampia, con una vera e propria pianificazione, contenente strategie, priorità e prescrizioni vincolanti.
Inoltre una metropoli, un’area metropolitana si forma durante processi storici, nel caso milanese più che bimillenari; nel nostro caso è da molto tempo un’area - troppo - densamente costruita, densamente abitata da una molteplicità di persone, usata per scopi e attività differenti e in evoluzione, connessa da intense relazioni sociali, produttive, culturali, politiche, anch’esse dinamiche. I confini politico/amministrativi sono quindi frutto di queste stratificazioni e modificarli sarebbe un’impresa quasi impossibile. A che pro’, poi? Indispensabile sarebbe invece un accorpamento per riparare all’improvvida separazione della Provincia di Monza e Brianza dall’allora Provincia di Milano: i territori di entrambe costituiscono una continuità urbanizzata e densamente abitata, che nei prossimi anni verrà collegata con il proseguimento della linea rossa della metropolitana fino all’ospedale San Gerardo di Monza. Con questa scelta infrastrutturale, sia pure molto tardiva (scelta che oserei dire di semplice ed elementare buon senso), si è preso atto di una realtà incontrovertibile: il passo successivo, coerentemente, deve essere il far rientrare la Provincia di Monza e Brianza nell’attuale Città Metropolitana Milanese; lasciando ovviamente alla città di Monza le sedi dei servizi pubblici e privati, degli enti e istituzioni che vi si erano insediati a seguito della separazione. Basterebbero la volontà politica e un provvedimento legislativo statale, semplice e veloce.
Ripartiamo quindi - per avanzare le nostre proposte di tutela della salute e della vita - dalla Città Metropolitana Milanese ricomposta in base alle sue effettive caratteristiche antropiche, con i suoi confini politico/amministrativi ricomposti: sapendo però che non si tratta di un’isola, ma di una porzione di territorio che fa parte di aree molto più estese, con cui è connessa in molti modi; sapendo che i confini politico/amministrativi non possono - non devono - essere muri, barriere, e che, oltre i confini di ogni istituzione, altri enti territoriali - confinanti - esplicano analoghe funzioni su altre porzioni di territorio su cui hanno competenza di scelta e  decisione.



Le istituzioni politico/amministrative locali sono indispensabili per dare corpo al principio - che è sia dell’ambientalismo sia del movimento delle donne - “pensare globalmente, agire localmente”.
Ma la maglia degli imprescindibili confini politico/amministrativi costituisce in un certo senso una frammentazione del territorio in quella estesa pianura alluvionale che chiamiamo padana, in quello spazio biotico per vari aspetti omogeneo. Alla discrasia tra la continuità del territorio e l’imprescindibilità dei confini per circoscrivere gli ambiti in cui ogni singola istituzione di area vasta deve esercitare scelte di governo  può però essere posto rimedio in modo efficace: un primo modo potrebbe essere l’utilizzare adeguatamente l’Autorità di Bacino del Po come ente di monitoraggio, di studio, di ricerca, di indirizzo  in merito alle politiche per il riassetto idrogeologico a partire dalle zone collinari e montane a corona della pianura, alla cura del territorio e delle acque in ogni loro aspetto, magari abbinando alle attuali competenze sulle acque competenze sulle politiche per il risanamento dell’aria. Autorità da dotare di adeguate risorse umane, tecnologiche, finanziarie, in modo da farla diventare autorevole, che elabori con le Regioni linee di indirizzo, poi fatte proprie dalle Regioni (anche adattandole a eventuali specificità territoriali) e che servano a loro volta a indirizzare la pianificazione strategica e la pianificazione territoriale/ambientale delle Città Metropolitane e delle Province. Autorità che solleciti proposte e valorizzi e diffonda eventuali progetti pilota da parte degli enti territorialmente più ristretti. Come funziona attualmente l’Autorità di Bacino del Po? Svolge questi compiti? Non se ne legge mai nulla, non dico sulla stampa quotidiana, ma neppure nei periodici a tematica ambientale.
Un secondo modo potrebbe essere una modalità di pianificazione congiunta o intrecciata o reciproca tra istituzioni territoriali confinanti, che chiamerei copianificazione. Istituzioni confinanti possono avere in comune elementi più o meno “naturali” (rilievi, fiumi, boschi, parchi, coltivazioni, ecc.), gli ambiti serviti da strutture di secondo livello (grandi ospedali, plessi scolastici, grande distribuzione organizzata, poli logistici, ecc.) e infrastrutture di mobilità (strade, autostrade, ferrovie).



Su territori confinanti con elementi in comune istituzioni differenti potrebbero voler perseguire politiche divergenti o comunque non correlate, vanificando gli interventi l’una dell’altra o addirittura contrastandoli, o comunque politiche tali da scaricare sui territori confinanti effetti indesiderati. Un caso emblematico potrebbe essere quello di un fiume che attraversi da nord a sud il territorio di più istituzioni: se una istituzione a valle volesse risanare le acque del suo tratto di fiume, tale politica sarebbe compromessa se l’istituzione a monte non praticasse le stesse modalità di intervento.
La copianificazione potrebbe fornire soluzioni, nel senso che ogni istituzione o ente territoriale di secondo livello dovrebbe far conoscere, prima dell’adozione, lo schema dei propri piani a tutte le istituzioni confinanti, chiedendone una valutazione e una discussione congiunta, in modo da poter unificare obiettivi e rendere efficaci le rispettive politiche. In caso di disaccordo lieve, eminentemente attuativo, le soluzioni potrebbero essere individuate in sede tecnico/progettuale, anche approfondendo l’analisi di alcune questioni controverse. In caso di disaccordo sostanziale sugli obiettivi di pianificazione occorrerebbe allargare la discussione alle forze politiche e alla cittadinanza attiva di entrambi i territori congiuntamente e coinvolgendo la stampa, generalista e specializzata, e gli altri media. Questa modalità allungherebbe i tempi di elaborazione dei piani, ma ne migliorerebbe enormemente l’efficacia. Un’ individuazione partecipata fin dall’inizio degli obiettivi di pianificazione andrebbe attuata – ovviamente - anche in merito a ogni singolo piano di ogni singolo ente territoriale, per adeguarlo alle esigenze della popolazione, ma risulta ancora più importante per rendere compatibili tra loro i piani degli enti contermini.


Intendo la copianificazione territoriale/ambientale finalizzata unicamente a un consistente risanamento del suolo, delle acque e dell’aria, per cui non è sufficiente che sia contenuta in una legge. Una norma statale che la prevedesse (basterebbe un solo articolo da inserire in una legge già esistente, ad es. nella indispensabile modifica della legge 56/2014) sarebbe molto utile come sponda all’agire, ma essa dovrebbe diventare frutto soprattutto di una maturazione diffusa riguardante la cura del territorio, dell’ambiente, del clima, in definitiva della salute, degli umani e di tutti gli esseri viventi.
Già solo il proporre questa modalità pianificatoria con le finalità indicate, così come riproporre una Città Metropolitana concretamente  in grado di adempiere ai suoi essenziali compiti scritti sulla carta, è un modo per contribuire a quella trasformazione radicale dell’organizzazione delle attività umane sul territorio, del modo di produrre e, quindi, di consumare, abitare e muoversi,  che chiamiamo trasformazione ecologica e che la pandemia da Covid 19 ci ha dimostrato essere indispensabile.
Per portare avanti queste proposte occorre costituire un soggetto collettivo, un comitato che potremmo chiamare Comitato Città Metropolitana Milanese - C.C.M.M. - senza costi, senza pratiche amministrativo/giuridico/notarili, solo con un po’ di entusiasmo e di volontà di contribuire alle scelte riguardanti il territorio che abitiamo: costituito non solo da urbanisti/e, ma anche da cultori/trici di altre discipline - attinenti o meno il territorio -, da esponenti del mondo della cultura e di forze politiche e sindacali di vario orientamento, anche da soggetti collettivi più o meno strutturati come ad es. associazioni ambientaliste e culturali, comitati di cittadini e cittadine, periodici anche online, ovviamente non solo milanesi ma di tutti gli altri Comuni costituenti la Città Metropolitana, purché accomunati/e dalla stessa volontà di rianimare la  Città Metropolitana come effettivo ente di governo  del territorio democratico e partecipato, in grado  di tutelare il mantenimento della vita sulla nostra porzione di pianeta.



Nel 2005, con un apposito appello, era stata avviata la costituzione di un “Comitato per la Città Metropolitana” promosso da Valentino Ballabio, Giuseppe Boatti, Luigi Lusenti, Giuseppe Natale e Ugo Targetti; per quel che ricordo poi non concretizzata, ma da riprendere e portare a buon fine. Nel dicembre 2015 il Forum Civico Metropolitano di Giuseppe Natale aveva organizzato un’iniziativa pubblica centrata sulla domanda: “Quale Città Metropolitana Milanese?”. È arrivato il momento - per “merito” della pandemia - di riaggregare idee, volontà e forze. Se non ora, quando?
Nulla vieta poi che il Comitato milanese prenda contatti con soggetti analoghi operanti in altre realtà metropolitane e che da Milano parta un movimento nazionale basato su un Manifesto che individui i contenuti trasformativi comuni a tutte le Città Metropolitane (eventualmente da puntualizzare poi in base a specificità locali) e alla revisione profonda della legge Del Rio.   
Tale revisione dovrà affrontare anche la questione della finanza locale, per rendere effettivo il funzionamento degli enti territoriali sia di primo livello (i Comuni), sia di secondo (Città Metropolitane e Province). Non è più accettabile che tale funzionamento sia subordinato alle trappole del debito pubblico ( di cui gli enti territoriali sono responsabili solo in misura irrisoria),  del  patto di stabilità interno, del pareggio di bilancio, del continuo assottigliamento dei trasferimenti di risorse dallo Stato agli enti locali iniziato decenni fa: tutti strumenti per giustificare l’esternalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici, soprattutto comunali, e l’assenza di operatività di Città Metropolitane e Province, con l’abbandono di fondamentali attività pubbliche, soprattutto in ambito territoriale e scolastico. A maggior ragione in questa fase, in cui la pandemia si è fatta pesantemente sentire anche per quanto riguarda le entrate degli enti locali.
Si tratta in sostanza di estendere alle Città Metropolitane la proposta che Attac Italia ha avanzato nel 2018 per quanto riguarda i Comuni e le città non meglio identificate e cioè il rivendicare, al posto del pareggio di bilancio finanziario, il “pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere, ovvero una spesa pubblica locale necessaria e incomprimibile, finalizzata al riconoscimento dei diritti individuali e sociali”. Proposta che richiede, come prospettato da anni sia da Attac sia da altri soggetti sociali anche milanesi, la ripubblicizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, ridestinandola al suo iniziale compito di erogatrice di finanziamenti agli enti locali a tassi agevolati, in modo da consentirne gli investimenti.
                                                                                                                    

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PENSIERO DEL GIORNO



Se il vessato non scende in piazza
col bastone e la ramazza
il potente fa quel che vuole
alla luce anche del sole.
Luigi Caroli

L’AFORISMA



“Gli uomini onesti hanno limiti.
I disonesti, solo confini”.
Nicolino Longo

LE PRIMAVERE DELLA NATURA


                                                                      
O Natura, che sorgi ogni mattina
sull'ultimo fiore del deserto e
che campi per non morire mai
nell'intensa onda dell'oceano,
rendimi fra le mani
la vita, quella spazzata
via dal tempo infame.
Lasciami godere
del tuo fiorire e che
io come stella alpina
non venga colta mentre
un uomo muore
per mano di un altro uomo
su per picchi dove la preghiera
giunge al cielo.
O Natura, le tue primavere sono
sorde ed eterne
sui passi dei popoli in cerca di libertà
il cui canto è vana eco...
non risuona nell'anima universale che
soccombe alla goccia
per chi ha sete e fame di giustizia...
E intanto tu restituisci
la morte sulla riva di chi
attende il nemico di sé stesso...
Laura Margherita Volante

martedì 30 marzo 2021

PASQUA DI SANGUE
di Angelo Gaccione


Massacri in Birmania


Partirei da questo messaggio giuntomi domenica, dopo aver pubblicato nelle pagine culturali de “Il Quotidiano del Sud” un durissimo e doloroso articolo.



Oggi (domenica 28 marzo) è il giorno della pace che non c’è. Piccolo campo di sterminio in Bosnia. Bambina morta annegata nel Rio Grande in fuga dalla disperazione verso l’America. Ieri 100 ragazzini ammazzati come uccellini in volo verso la libertà in Birmania, massacro giornaliero perpetrato da militari sadici che uccidono ‘solo’ all’interno del loro Paese, tollerati in nome della non ingerenza e dalla coda di paglia degli altri Stati. Sono solo tre esempi della disperazione e morte che colpisce sempre e comunque quasi esclusivamente i poveri di tutto il mondo. In questa Settimana Santa, chiediamo agli Esseri Umani di buona volontà detentori di poteri governativi di fare il possibile per fermare le mani assassine”. [Saverio Lanza]


Contro questa suora inerme
hanno sparato a bruciapelo

Cos’altro aggiungere a questi dieci righi di tragica constatazione e di umana impotenza? I poveri, i dannati della terra, continuano a morire in massa e nelle più varie forme, mentre i responsabili della loro morte, i loro assassini, non pagano mai. Hanno dalla loro parte la forza, cioè la legge; ed hanno dalla loro parte la legge, cioè la forza. È in questo modo che si sono garantiti la loro impunità. Tuttavia gli assassini non potrebbero competere, in termini di forza e di numero, con i loro popoli, anche se dalla loro parte gli aguzzini hanno la forza della legge e la legge della forza. Legge e forza gli assassini possono esercitarle contro i loro popoli, perché possiedono le armi e le braccia che le impugnano. I popoli no, possiedono le loro braccia nude, le loro braccia inermi. È in questo modo che gli Stati e i Governi assassini, riescono a fare paura ai loro popoli; e invece dovrebbero essere i popoli a fare paura ai loro Governi e ai loro Stati, perché è solo così che la democrazia, l’imparzialità della legge, l’interesse collettivo, l’equità, potrebbero trovare il loro giusto equilibrio umano e sociale. Lanza nel suo breve scritto invita i reggenti di Stati e Governi “di buona volontà” a fermare le mani degli assassini. È una giusta e umana aspirazione, ma resta una aspirazione. 



Non si è levata nessuna voce di condanna forte, se non quella del papa, contro i massacratori del popolo birmano. E solo la voce del papa si è levata tagliente e perentoria in difesa degli operai portuali genovesi, denunciati per essersi rifiutati di imbarcare su navi, carichi di armi assassine. È singolare come Comitati che si battono meritoriamente per i diritti delle comunità e dei popoli più diversi, non abbiano sentito il dovere di dire nulla sul massacro dei birmani, ad opera di militari sanguinari. Come se quel sangue non sgorgasse dalle stesse vene, come se appartenesse a una sotto umanità. L’opportunismo è un comportamento politico molto diffuso e lambisce gli ambienti più insospettati. A noi per fortuna non ci appartiene. Tuttavia, poiché non c’è comportamento che non abbia al suo fondo degli interessi, occorre smascherare gli interessi per fare emergere le giustificazioni. 



I governi di Russia e Cina non muovono un dito e non parlano, per la semplice ragione che ad armare le mani dei militari assassini del popolo birmano sono loro. E non parlano né muovono un dito Governo e conniventi Parlamentari del nostro civile Paese, perché le armi che stanno massacrando donne, vecchi e bambini in Kurdistan, in Afghanistan e in altri scenari di guerra internazionali, sono fornite dalla “pacifica” Italia. E non può parlare né muovere un dito l’America, perché è la nazione in assoluto più guerrafondaia ed esportatrice di armi al mondo. Tutti questi Stati e Governi, fornendo armi agli assassini, sono da considerarsi a tutti gli effetti degli assassini. E sono complici delle bande mercenarie in Libia così come lo sono dei mafiosi e terroristi che quelle armi usano in ogni dove. Sono Stati e Governi che permettono la produzione di armi sui loro territori, e sono Stati e Governi che ne autorizzano la vendita e l’esportazione. Il Governo criminale francese vende armi al criminale Erdogan come il criminale Governo italiano, e governi criminali di ogni dove vendono armi ai governi criminali degli Emirati Arabi. 



E così le piazze possono essere insanguinate, le case abbattute, le città devastate, gli abitanti impoveriti, e i profughi mettersi in marcia in esodi biblici verso quegli Stati che tali li hanno resi. Stati che democraticamente li respingono innalzando muri, mettendo filo spinato, chiudendo porti e frontiere.        

SOLIDARIETÀ AI PORTUALI GENOVESI
Ai portuali genovesi anti-armi, la nostra gratitudine e la nostra solidarietà.  

 
Una iniziativa sulla scia della più nobile tradizione socialista e libertaria del movimento operaio. Anche “Odissea” è al loro fianco, contro i mercanti di morte e i massacratori dei popoli.
 
Cinque lavoratori del Collettivo Autonomo Lavoratori portuali - CALP - sono indagati dalla procura di Genova per associazione per delinquere. All’alba del 24 febbraio 2021 le loro abitazioni e il luogo di lavoro sono stati perquisiti dalla Digos che ha sequestrato telefoni, tablet e pc allo scopo di accertare ‘azioni’ che il CALP ha sempre reso pubbliche sulla sua pagina Facebook. In particolare i portuali genovesi hanno organizzato manifestazioni e presidi con l’uso di bengala e fumogeni contro le navi della flotta Bahri, adibite al trasporto di armi per rifornire l’Arabia Saudita nella guerra in Yemen. Hanno fatto sciopero! Questo traffico di morte è stato recentemente bandito anche dall’Italia con lo stop alla vendita di bombe. Le parole di Papa Francesco: “I lavoratori del porto hanno detto no. Sono stati bravi! E la nave è tornata a casa sua. Un caso, ma ci insegna come si deve andare avanti”.
Inoltre i portuali hanno organizzato azioni antifasciste con scritte e portoni sigillati con la colla presso le sedi di Casapound, Forza Nuova e Lealtà Azione.
Noi del Gruppo di lavoro per le periferie di Milano, operiamo dal basso per la Città, in particolare sulla questione della Casa e delle Case Popolari delle cosiddette Periferie. Partecipano persone protagoniste della Seconda Marcia Mondiale per la Pace e la Non-Violenza. Nel nostro Gruppo sono presenti l’esperienza e la memoria dell’impegno per la pace, contro la bomba atomica, contro le armi nucleari, che si è svolta in Italia e nel mondo negli anni Cinquanta. In questa memoria che è fondamento del nostro presente campeggia l’opera di Giorgio La Pira, fra i Padri Costituenti, tre volte sindaco di Firenze fra gli anni 1951- 1965, e la sua concezione del valore delle Città della Terra, che appartengono alle generazioni future, che gli Stati non hanno il diritto di distruggere con la guerra, con le bombe.



Ricordiamo il suo invito ai sindaci delle città capitali del mondo, convenuti a Firenze, nella visione di un cammino di costruzione di giustizia e di unità fra i popoli, di affermazione del diritto alla pace, al lavoro, alla casa, all’assistenza sanitaria, alla scuola, e per chi prega, a un luogo per pregare. 
È attuale la sua proposta di una politica di riconversione delle industrie belliche in fabbriche per uso civile. È attuale il suo appello per una nuova politica, per la coscienza della necessità di una complessiva e profonda trasformazione delle concezioni, degli scopi e dei metodi della teoria e dell’azione politica. A questa presa di coscienza oggi papa Francesco chiama i credenti nella sua Chiesa e l’umanità tutta.
Nel tempo della prima guerra del Golfo la scritta che riportiamo è stata tracciata su un muro nella zona dei quartieri di case popolari denominati “Molise”, “Calvairate”, “Ponti”, 3000 alloggi nella zona sud est di Milano.
Che la lotta dei portuali genovesi suoni risveglio dal sonno della ragione.
Fraterni saluti.
Amina Natascia Al Zeer. Alfredo Alietti. Yessica Avelar. Sara Brusa. Giuseppe Luigi Bruzzone. Franca Caffa. Giovanna Casiraghi. Roberto Cetara. Rosario De Iulio. Maria Finzi. Don Franco Gallivanone. Mattia Gatti. Jacopo Lareno Faccini. Serenella Liguori. Diacono Luigi Magni. Giacomo Manfredi. Elvira Onofrio. Mustapha Ouelli. Loris Panzeri. Marco Pitzen. Veronica Pujia. Andrea Rastelli. Ermanno Ronda. Luciana Salimbeni. Luca Sansone. Luciano Vincenzo Tamborini. Antonio Tosi.
Svolgiamo il nostro lavoro presso sedi diverse, anche presso l’abitazione di singole/i componenti del Gruppo. Indichiamo alcuni contatti:
Sara Brusa - Luca Sansone - Milano sara.brusa@libero.it - luxsun@libero.it
Franca Caffa - Milano - franca.caffa@libero.it
Ermanno Ronda - Sicet - Sindacato Inquilini Casa e Territorio - Milano milano.ronda@sicet.it
Antonio Tosi - antonio.tosi@polimi.it
Gruppo di Lavoro Per le Periferie - Milano
 

 

 

lunedì 29 marzo 2021

INCONTRI
Conversazione con la poeta Gabriella Galzio.


Gabriella Galzio

In occasione dell’uscita del suo nuovo libro Voglia di partire presso Moretti & Vitali.

  
ODISSEA: Un libro di viaggio, questa volta. Un viaggio che appare al lettore come una sorta di iniziazione, un viaggio per ritrovare l’essenza più profonda del proprio sé.
 
GALZIO: Sì, dopo tanti libri di poesia, stavolta un libro di narrativa, un libro per viaggiare. Voglia di partire è una narrazione che si colloca, per un suo coté, senz’altro nella letteratura di viaggio, ma più intimamente, si rivela romanzo di formazione dalla giovinezza all’età adulta, allude infatti al duplice viaggio, nel mondo e nella segreta alchimia della psiche; è infatti la storia di un viaggio di iniziazione dell’anima, fatalmente attratta in direzione sud-est, attraverso luoghi reali o trasfigurati nell’arco di una vita.
C’è anche chi ha riconosciuto che questo è un libro profondamente junghiano, perché partire per la propria avventura esistenziale è - per dirla con Jung - vivere il proprio processo d’individuazione, scoprire chi siamo nel profondo… - per dirla con Hillman - è seguire il destino della propria anima e l’oscuro richiamo dell’eros che è la via principe all’inconscio.
 

Gabriella Galzio durante
un incontro al "Salotto"

ODISSEA: Un viaggio per luoghi, per tanti luoghi, eppure nessuno di essi è scelto a caso; sono luoghi concreti ma, altresì, legati ad una personale ed intellettuale mitologia…
 
GALZIO: Se seguiamo il filo hillmaniano, questa personale mitopoiesi è irraggiata da un’energia archetipica, nel senso che la realtà è vista in trasparenza dei suoi archetipi; così l’archetipo centrale di questa narrazione - quello di Afrodite e dei tanti altri nomi che la mitologia ci suggerisce, Kypris, Ishtar, Astarte… - accende la vita della protagonista nel suo rabdomantico pellegrinaggio attraverso i luoghi della Dea; da Venezia che a Venere deve il suo nome, a Portovenere, a Corinto e via via in questo viaggio a sud-est fino a Cipro che a Cipride Regina - per dirla con Empedocle - deve la sua celeberrima spiaggia Petra tou Romiou, ritratta in prima di copertina, dove il mito vuole sia approdata Afrodite.  



ODISSEA: Se la nostra vita è vagabonda, la nostra memoria è sedentaria, ha scritto Proust. Una memoria sedentaria per poter scrivere di una vita vagabonda.
 
GALZIO: Anche in epigrafe alla prima parte del libro è riportato da un breviario per nomadi un antico proverbio tuareg che dice: “Quando arrivi, siediti e aspetta che l’anima ti raggiunga”. E dunque bisogna sedersi perché anche la memoria proustiana si rianimi. Ed effettivamente c’è voluto ancora del tempo dopo la conclusione del viaggio, una certa distanza emotiva dai vissuti, prima di veder affiorare il libro nella sua unitarietà. È stato necessario afferrare il senso più profondo di quella mia destinazione a sud-est non soltanto geografica, ma simbolica, “destinale”, una discesa nei sensi come segnala la titolazione dell’interna navigazione verso l’integrazione dell’eros nella vita della protagonista.
 

Gabriella Galzio
durante un incontro letterario

ODISSEA: Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt. Questa frase delle Epistole di Orazio mi è risuonata più volte nella mente mentre leggevo il tuo libro, e ho potuto verificare come invece mutava via via l’essenza: l’animo profondo della protagonista che solca mari sotto nuovi cieli.
 
GALZIO: Se posso tradurre: “Non mutano il loro animo, ma solo il cielo coloro che attraversano il mare”. Ebbene l’aforisma delle Epistole è inteso nel senso che nessuno può sfuggire a sé stesso, ché non basta un viaggio d’oltremare… ma qui è esattamente l’opposto, perché la protagonista non può sfuggire al destino che la invita proprio a mettersi in viaggio, che la chiama alla metamorfosi nei tanti luoghi di morte e rinascita che incontra nel suo passaggio. I grandi viaggi, quelli che urgono a partire da dentro, producono trasformazioni silenziose, riservano prodigiose alchimie.


ODISSEA: L’elemento primigenio di questi approdi senza avventure - perché è il viaggio stesso a costituire l’unica, vera, straordinaria avventura - è l’acqua. Elemento liquido, “grembo materno”, madre. Non è affatto un caso che i sostantivi mère e mer abbiano nella lingua francese lo stesso suono e quasi le stesse lettere. Il mare è dominante come lo sono le isole, quasi universi conchiusi, separati. Dall’acqua è nata la vita e dal mare sono nati il simbolo della bellezza e dell’eros intorno a cui il tuo libro ruota e si innerva.
 
GALZIO: In poesia ho esordito con Fondali, una plaquette stampata su un’azzurrina carta d’alghe, con una immagine di copertina tratta da Lucemare di Giorgio Lotti, che in incipit porta una frase di Jung: “La via dell’anima che cerca il padre perduto, come Sophia cerca Bythos, porta perciò all’acqua, a quell’oscuro specchio che poggia sul fondo”. Credo negli anni di non essermi mai mossa da lì. Nei tanti momenti di metamorfosi lì c’è qualcosa di essenziale. E non è un caso che le poesie di quella prima plaquette siano state sprigionate mesi dopo il mio periplo in solitaria dell’isola di Linosa durante il quale pure nacque il lungo racconto “I luoghi della muta” contenuto in Voglia di partire. L’alto mare e la potenza del vulcano rimangono per me i grandi luoghi sacri della terra.    



ODISSEA: È una scrittura in prosa, questa, che si serve di molti elementi culturali: filosofico-mitologici, psicologico-rituali, politici in senso lato e così via. Ma non perde di vista mai, nella visionarietà e nella sensorialità, il suo substrato poetico. Uno splendido perfetto equilibrio.
 
GALZIO: È vero che il retroterra culturale di questa scrittura trapassa le discipline, da quelle più propriamente letterarie alle scienze umane, come la psicologia analitica, l’antropologia culturale o la storia delle civiltà; e che attinge a fonti letterarie ed extraletterarie così come il flusso della vita suggerisce, nelle tante gradazioni che vanno dai momenti più lirici, a quelli più speculativi e anche con qualche concessione alla saggistica.
Dal punto di vista della struttura del libro, quel viaggio a sud-est si è rivelato la narrazione che ha raccordato tutti i singoli racconti di viaggio in sé autonomi in un macrotesto come l’avrebbe chiamato Cesare Segre.
Ma prima ancora rimango poeta. Sentire e vedere sono i verbi della poesia, altrove ho scritto musica e visione. E certamente questa sinestesia rimane anche nella narrazione di questo libro che discretamente trapassa i generi, dalla prosa alla poesia in prosa, alla prosa poetica o “prosa immaginale”, alla poesia.
 

 

Vorrei aggiungere ancora una nota di ringraziamento a Carla Stroppa e Marta Tibaldi che dirigono la Collana Amore e Psiche della Moretti&Vitali. A questa Collana, infatti, sono particolarmente affezionata perché qui ho scoperto autori e tratto letture che per me sono state orientative, come Oltre l’umanismo di James Hillman o La rinascita di Afrodite di Ginette Paris, che hanno contribuito alla mia formazione junghiana-hillmaniana, nel senso di quella psicologia archetipica che mi ha aiutato a vivere e ispirato a scrivere. E dunque sono intimamente contenta che questo libro abbia trovato la strada di casa.


La copertina del libro
 
Gabriella Galzio
Voglia di partire
Moretti & Vitali Ed. 2021
Pagg. 160 € 12,00
Per richieste:
info@morettievitali.it
 
[Intervista a cura di Angelo Gaccione]

AGGIORNAMENTO DATI COVID


 
I più vaccinati sono gli israeliani che hanno ricevuto tutti (ospiti palestinesi compresi) la prima dose. Per questa l’Italia segue Israele, Regno Unito e Usa precedendo di una corta incollatura Spagna, Germania e Francia.
La “nostra” vaccinazione non è quindi la catastrofe raccontata dai giornaloni.
Al nono posto tra le Regioni italiane, la Lombardia (4,30%) è preceduta da Friuli (5,84), Valle D’Aosta (5,80), Emilia-Romagna (5,74), Basilicata (5,55), Piemonte (5,45), Liguria (5,28), Molise (5,03) e Toscana (4,46).
Purtroppo l’Italia è al secondo posto come numero di decessi per abitante dopo il Regno Unito. Chi straccia tutti per numero di decessi è la Lombardia (30.085) che raggiunge il 3,0 per mille e quindi il primo posto nel mondo.
Il maggior problema per la Lombardia sono le Terapie Intensive.
Luigi Caroli 


Mentì Fontana, scudo gli fe’ Gallera
e per entrambi d’uopo saria galera.
La verità nascondon giornaloni
peggior di tutti son loschi padroni.

 

domenica 28 marzo 2021

Incontri
NEL TREMORE DEGLI ANNI
Conversazione con Filippo Ravizza

Filippo Ravizza nel suo studio

Nato a Milano nel 1951, Filippo Ravizza compirà quest’anno 70 anni. Li festeggerà con la sua nona raccolta di poesia dal titolo Nel tremore degli anni uscito presso le edizioni di Puntoacapo. I lettori vi troveranno delle note critiche di approfondimento di Gianmarco Gaspari, Giuliana Nuvoli e Ivan Fedeli. Abbiamo colto l’occasione per rivolgergli alcune domande.
 
Odissea: Nove raccolte poetiche in circa 35 anni, mentre ti avvii nel pieno della maturità. Puoi tracciare un breve bilancio di questo tuo percorso poetico?
 
Ravizza: La mia prima raccolta, "Le porte" è uscita nel novembre del 1987; da quasi 35 anni, effettivamente. Ma ad essa va cronologicamente sommato un intenso lavorio, una costante attività appassionata della parola poetica che va retrodatata almeno al 1979, anno in cui iniziai a scrivere di poesia nella redazione milanese del quotidiano "la Repubblica", che allora si trovava in Via Turati, all'inizio di Via Turati, quasi nella piccola Piazza Cavour. Quegli anni, dal 1979 al 1986, furono molto intensi: riuscii a diventare in tempi brevi il critico di poesia delle pagine milanesi di "la Repubblica", un po' anche perché gli altri giovani accorsi a collaborare con quelle pagine, dopo attenta selezione di Giampiero Dell'Acqua, burbero maestro intelligente di tutti noi, avevano altre specializzazioni e altra vocazione. Un po' anche perché proprio allora (1979, fine Anni Settanta) iniziava a prendere piede anche in Italia (vedi Festival di Castelporziano a Roma, proprio nel 1979) l'abitudine, fino allora prevalentemente nord-europea, russa e nord-americana, dei "readings", cioè delle letture in pubblico, da parte dei poeti, delle proprie poesie. Una coincidenza fortunata, quest'ultima, indubbiamente. In quegli anni portai avanti anche collaborazioni con riviste; ricordo "Schema", pubblicazione partita da un gruppo di ragazzi di Milano, che arriverà ad avere redazioni in tutte le principali nazioni europee, fondata da Franco Manzoni, a cui collaborai per lunghi periodi, anche a tratti co-dirigendola insieme a Manzoni; ma anche altre testate come "Post-Scriptum", "L'Ozio Letterario", "Confini", "In Folio", "Margo" di cui fui co-direttore con Mauro Germani e Federico Battistutta. Prima ancora, nella prima metà degli Anni Settanta, avevo partecipato alle riunioni, in Via Rosales, dalle parti di Porta Garibaldi, della redazione di "Niebo": un altro folto gruppo di giovani milanesi riuniti intorno alla figura del fondatore, Milo De Angelis. È da lì, è questo il retroterra già in qualche modo assestato da cui arrivo quando escono "Le porte", nel 1987. Da lì parte un cammino, che visto riavvolgendo il nastro del tempo, mi pare coerente su alcuni capisaldi e che arriva, attraverso nove titoli, centinaia di articoli e qualche saggio critico, al 2021. Vi sono infatti, dentro a questo percorso letterario ed esistenziale, tematiche che io riconosco essere scaturigine e nerbo di tutta la mia produzione poetica: la riflessione sui rapporti tra vero poetico e vero storico, sull'enigma del tempo; sul destino e sulla mancanza di un destino; sul "grande mai più" ovvero l'annientamento che ci attende. A livello formale ho sempre cercato di far sì che, nei miei versi, fosse sempre avvertibile l'andamento ritmico, la cadenza timbrica che deve distinguere la parola della poesia, che deve continuare ad essere diversa ed altra rispetto alla parola della prosa.

Filippo Ravizza

Odissea: Qual è il filo conduttore che lega un itinerario che è rimasto fedelissimo alla parola poetica e come lo spieghi?
 
Ravizza: Qui ci sono, mi pare, due risposte possibili che possono però essere date anche in contemporanea, nel senso che una non esclude l'altra. La prima è che magari ci si ritiene poco idonei ad altre forme espressive. Io, per esempio, non credo di essere capace di scrivere un romanzo e comunque ho sempre desiderato avvertire la musicalità, la componente musicale delle parole e le loro sinergie timbriche. E qui, entra in campo la seconda delle risposte possibili, quella che - confesso - ritengo giusta nel mio caso: la vocazione. Da vocàtus, chiamato, participio passato di vocàre, chiamare. La vocazione i vocabolari la definiscono anche come "un movimento interiore" per cui ci si sente chiamati. Sono d'accordo, e dico addirittura che forse nel mio caso questo "movimento interiore" è diventato amore, amore per la parola poetica. Amore per cui ho poi anche accettato di pagare dei prezzi, a dirla tutta, perché l'amore per la parola della poesia, non è mai stato particolarmente funzionale al buon andamento del sistema capitalistico; ma qui il discorso si fa sterminato e non posso quindi svilupparlo di più.



Odissea: L’Europa e la razionalità mi sembrano due motivi forti all’interno della tua visione di poeta.
 
Ravizza: Per iniziare a risponderti cito gli ultimi sette versi di una mia poesia contenuta nella raccolta "Nel secolo fragile" uscita nel 2014: "[...] ti penserò nelle notti/ attraversate dalle automobili/ in faccia alle tue mille e mille/ vetrine alle tue merci al/ tuo destino che ormai sta tutto/ nella mancanza acuta e forte/ di un destino." La poesia che qui ho appena citato si chiama "Europa Europa" ed è una sorta di riflessione su questa grande piattaforma continentale, oggi ormai affacciata sul vuoto, come un fragile e poroso contrafforte, esposto pericolosamente su un abisso: l'abisso della perdita di qualsiasi orizzonte, dello smarrirsi di qualsiasi cammino capace di dare senso e funzione nella Storia a questo nostro continente, ormai incapace di svolgere un compito, ossia privo di destino o meglio denotato da un destino tragico: il destino di non avere più alcun destino. È una situazione storica determinatasi gradualmente negli ultimi decenni che pone tutta la cultura europea in una situazione di stallo e realizza, oggi, con e attraverso il tramonto che parrebbe definitivo, di tutte le grandi narrazioni novecentesche, da un lato la fatalistica resa ad una supposta "realtà delle cose" che ci ha fatto dimenticare come la realtà sia solo un prodotto delle idee degli uomini, soggetta quindi sempre ad essere cambiata se solo gli uomini non perdessero la consapevolezza di esserne i soli e unici artefici; dall'altro (realizza) il dominio pervasivo e totalizzante - al punto di non aver più bisogno neppure di essere proclamato - dell'ideologia  che dice che è finita l'epoca delle ideologie: la più infame e falsa di tutte le ideologie. Tutto ciò che costituisce il reale viene dalle idee degli uomini, calate dialetticamente dentro al tempo della Storia. Tutto ciò che è avvenuto in ogni epoca è avvenuto perché rapporti di forza hanno determinato la prevalenza di alcune idee su altre. In questo senso, ci ha insegnato Hegel, nulla di quanto si invera, nulla di quanto si concretizza (anche il male! Anche Auschwitz! Anche Hiroshima!) sfugge ad un "sistema razionale di pensiero", razionale nel senso di conseguenziale e prevedibile all'interno dei propri (infami, nei casi citati) meccanismi percettivi. La poesia è chiamata a diffondere consapevolezza di ciò; può contribuire alla battaglia globale di autoaffermazione di una coscienza pacifica e solidale e soprattutto egualitaria, del mondo.



Odissea: Nella tua recentissima raccolta Giammarco Gaspari nelle pagine che la introducono, insiste su un paio di motivi forti: il nulla e il vuoto. Puoi tornare su questi due postulati che mi sembrano fortemente esistenziali oltre che apertamente filosofici?
 
Ravizza: Sì, nulla e vuoto, ma anche il niente. Sono parole-concetto (ammesso e non concesso che si possa concettualizzare veramente il nulla) che ricorrono in tutta la mia produzione poetica, direi se non sin da "Le porte" (1987), sicuramente a partire almeno da "Vesti del pomeriggio" la mia seconda silloge, uscita da Campanotto Editore nel 1995. Noi, noi esseri umani, siamo, dice Martin Heidegger ed io concordo con lui in pieno, brevi archi di tempo "tra un non ancora e il grande mai più". C'è una mia poesia, "Sciolto nell'aria", contenuta nella raccolta "Nel secolo fragile" uscita nel 2014 per La Vita Felice Editore, in cui cerco di dire perché il nulla, il niente da cui veniamo e a cui torneremo mi sembra uno snodo teoretico fondamentale nell'esistenza di ogni persona: "[...] Di/ colpo, sai, spariremo per sempre,/ di colpo, sai, morirà la memoria/ che noi abbiamo di noi, che io/ ho di me, che tu hai di te.../ dopo un secondo, un solo secondo/ dopo, il mondo, tutto il mondo, non sarà/ mai esistito, unico essente il niente/ bucata vacuità su cui siamo scivolati/".

Filippo Ravizza
 
Odissea: Giuliana Nuvoli in postfazione ha ripreso il concetto di nulla facendolo precedere da un aggettivo altrettanto denso e impegnativo come verità. “Verità del nulla” scrive Nuvoli della tua poesia e lo rapporta alla sconsolata verità leopardiana.
 
Ravizza: Qui citi Giuliana Nuvoli, precedentemente hai citato Gianmarco Gaspari. Ti ringrazio perché cogli, citandole, l'importanza che hanno, nell'economia generale di questo mio ultimo libro, di "Nel tremore degli anni", queste due splendide, acute ed empatiche, compartecipi riflessioni sul mio lavoro di questi due valorosi amici, valorosi letterati e critici. E aggiungo anche la bella e centratissima "quarta di copertina" firmata da Ivan Fedeli. Venendo allo specifico della tua domanda, tento per prima cosa una risposta diretta, asciutta: il nulla per me è la morte, ma attenzione: è la morte che tracima dai propri "confini" e, come una forza sotterranea che si espande sotto superficie, impronta di sé la qualità e la natura della superficie stessa connotandola di una ben precisa identità: la superficie di questo terreno (l'esistenza) una volta impregnata da questa corrente sotterranea, diviene una "superficie-destinata-al-nulla". E questa dell'annientamento che ci attende è forse l'unica vera "verità" che può essere scritta con la "V" maiuscola e l'articolo determinativo davanti; "la Verità del Nulla", per l'appunto. Questo improntare di sé l'esistenza, da parte della morte, può apparire, di primo acchito, un dato sommamente tragico. In realtà, esso può essere la chiave dell'unica autenticità possibile per l'essere umano, quello che Martin Heidegger chiamava "essere-per-la-morte", una sorta di liberazione da tutti i condizionamenti tutte le vacuità di superficie che il contesto sociale pone per farci dimenticare a cosa siamo destinati. Se riusciamo a sedimentare nel profondo tutta la consapevolezza di essere solo "un breve arco di tempo" possiamo porre come obiettivo del nostro agire solo quello di realizzare la nostra identità più profonda, puntare solo ad essere quello che sentiamo di essere, imporre al mondo la nostra natura sino a raggiungere quell'universale riconoscimento che Georg Wilhelm Friedrich Hegel ne "La filosofia della storia universale" (Volume primo, parte II, capitolo 2) definisce felicità: "Esso (l'individuo, nota mia) si vuole secondo la determinazione della sua finitezza, della sua particolarità, vuole che un altro gli stia di fronte [...] gli individui vogliono l'esserci della loro finitezza [...] se hanno attuato questa armonia nella misura in cui si sono conciliati, allora li si definisce felici; si definisce infatti felice colui che si ritrova in armonia con sé, che si gode nel suo esserci. È pertanto qui la giusta collocazione della felicità". Hegelianamente quindi, la felicità dell'individuo è la condizione in cui l'individuo riconosce sé stesso nel giudizio, nell'immagine che egli stesso ha di sé e ne constata la coincidenza, direi addirittura la sovrapposizione, con quella (l'immagine) che gli altri hanno di lui. Giacomo Leopardi mi è particolarmente caro per la potenza e l'asciuttezza dello sguardo, per l'acutezza con cui ha presentito ed individuato "La Verità del Nulla" e la sua pervasività dentro alla nostra esistenza individuale. Giuliana Nuvoli parla di "comune sentire" tra me e il grande recanatese; effettivamente nella radicalità spietata con cui Leopardi analizza la natura dell'esistenza io mi sono sempre ritrovato; grato e commosso, consapevole di essere di fronte ad un grande pensatore, un grande poeta e un autentico Maestro.


Giacomo Leopardi

Odissea: Questo libro ci consegna una verità “sconsolata” e senza via d’uscita: “tutto ci sarà finché ci sarò io, poi il niente che non ha parole” sono i versi conclusivi del testo poetico “Dovevano restare”.
 
Ravizza: Tu citi la poesia "Dovevano restare" a pagina 39 del mio libro. Per rinforzare questa mia posizione io voglio citare alcuni altri versi, i versi finali della poesia "Un secondo di più" che si trova a pagina 31 de "Nel tremore degli anni": "[...] prendi il nome/ mio e riempi d'essere questi campi/ queste intere distese di fiori/ che esisteranno finché esisterò io/ non un giorno non un minuto né/ un secondo di più". È chiaro che, filosoficamente parlando, questa mia, è una posizione idealistica. Potrei dire, con Fichte, che è sempre l'io che pone di fronte a sé il non-io. Mi spiego: ho già detto che con la nostra morte individuale muore anche la memoria che noi abbiamo di noi, che io ho di me. In un altro testo di questo libro parlo anche di "nulla che non ha parole". Ora, a prescindere dal fatto che non penso che la coscienza umana possa percepire la natura del nulla, perché non possiamo percepire in realtà alcunché sia al di fuori della nostra esperienza sensoriale, voglio ricordare che invece l'essere percepiente vede e concettualizza il mondo che lo circonda, i diversi volumi che occupano lo spazio: piante, montagne, oggetti, campi, fiori, stelle, altri esseri percepienti. Sono le nostre percezioni, tramutate in concetti astratti attraverso il grande enigma del linguaggio (sede della parte più profonda e vera dell'essere) che fanno esistere il mondo intero, le cose. Ma nella morte muore anche la capacità percettiva dell'essere-percepiente. Quindi l'avvento del nulla, l'avvento del niente, per ognuno, ciascuno di noi, altro non è che la fine del mondo, di tutto il mondo che muore insieme a noi.


La copertina del libro

Filippo Ravizza
Nel tremore degli anni
Puntacapo ed. 2020
Pagg. 60 € 12,00
 
[Intervista a cura di Angelo Gaccione]